Piero Angela

Giornalista, scrittore e divulgatore scientifico
6 Marzo 2020 |
Valerio Imperatori

Non so se si trattava dello studio o di un salottino della sua abitazione di Roma quello dove Piero Angela mi ha accolto per quella che doveva essere una breve intervista, trasformatasi poi in una lunga chiacchierata. Due ore di storie, aneddoti, riflessioni a partire dalla televisione pubblica fino alla necessità di “controllo sociale”, una nuova forma proattiva di educazione civica. Parole interrotte solo da trilli e fischi provenienti da un orologio ornitologico da parete, circondato da ricordi e frammenti di chi ha conosciuto il mondo. Fresco di un altro riconoscimento professionale, il Premio Guido Carli 2019, Piero Angela che da poco ha superato il traguardo dei 90 anni, comincia il nostro incontro con l’azienda per la quale ha sempre lavorato, la RAI.

Piero Angela, giornalista, cronista radiofonico, inviato, conduttore del telegiornale, scrittore e divulgatore scientifico: sempre e solo per la Rai. Ma mai con ruoli di direzione.

È vero io ho sempre lavorato per la Rai. Ruoli di direzione? Li ho sempre rifiutati pur riconoscendone l’importanza, soprattutto quando è iniziata la tripartizione delle reti. Mi fu offerta la possibilità di assumere un ruolo di direzione e in quel caso posi però condizione: avrei fatto una conferenza stampa settimanale nella quale avrei reso pubblico le telefonate ricevute e le relative richieste. Condizione che non venne accolta. Essere direttore di una rete televisiva, qualunque essa sia, è un ruolo molto importante e delicato, soprattutto se si parla di Rai. Qui non sono ammessi errori, bisogna avere altre competenze, diverse da quelle che avevo maturato. Insomma non sarebbe stato più il mio lavoro. Soprattutto perché si entra in una logica diversa. Io sono un battitore libero, un produttore indipendente. Per otto anni ho lavorato come freelance, poi sono stato assunto per 23 anni in Rai dalla quale mi sono licenziato nel 1985. Il mercato in quegli anni si aprì, cominciai a scrivere libri e tenere conferenze. Erano gli anni in cui maturò la competizione, nacquero nuovi net work televisivi, ma io mi rifiutai sempre di lavorare per la concorrenza.

Perché questo viscerale amore per la Rai?

Per un motivo molto semplice: è servizio pubblico. Io mi considero un servitore dello Stato. Perché la Rai con tutti i suoi difetti offre al pubblico la possibilità d’informarsi, di educarsi, di conoscere, di entrare in contatto col mondo, tutto questo senza alcun scopo di lucro. Anche se poi nel corso del tempo le cose sono cambiate, i costi sono saliti. È bene non dimenticare che il nostro canone è troppo basso rispetto alle necessità che impone la competizione. Basti pensare che il canone BBC è due o tre volte più alto e ciò nonostante la rete inglese non è maggioritaria negli ascolti. La Rai come qualsiasi altra pubblica amministrazione vive di luci e ombre. Vi lavorano tanti grandi professionisti, settori che ben funzionano e altri un po’ meno, ma tutti consapevoli della mission: servire il pubblico.

Rai la più grande agenzia culturale è ancora così?

Come sempre dipende dai programmi e dalle persone. È come quando mi chiedono degli italiani, c’è di tutto: eroi, santi e mascalzoni. In Rai ci sono ottimi programmi ancora e ottime persone che li sanno fare. Gli ascolti hanno una struttura piramidale, i programmi formativi e culturali hanno minori telespettatori rispetto a quelli più popolari. Gli investimenti pubblicitari si orientano ovviamente verso programmazioni con più audience. È evidente che in un programma molto popolare il minuto di promozione commerciale vale moltissimo. E questo non da oggi. Ricordo che stavo preparando un programma sui dinosauri, mancavano risorse economiche per realizzarlo, bisognava trovare degli sponsor che però non fossero inquinanti. Non si sarebbe potuto fare, per esempio, un programma sull’energia con Enel come sponsor. In quel caso pensai a Iveco, veri dinosauri su strada. Sembravano interessati, ma mi fecero notare che per il loro prodotto una promozione indifferenziata non sarebbe stata utile rispetto al loro portafoglio clienti. I grandi investimenti commerciali riguardano per lo più i prodotti di largo consumo che possono essere rivolti a target indifferenziati. Oggi le logiche sono diverse, tutto ciò incide moltissimo sulla programmazione.

Programmazione che nel corso dei decenni si è adeguata a questo trend.

Io sono andato a vedere com’era la televisione negli anni Settanta, studiando un palinsesto del 1978. Intanto c’era già una fascia meridiana ma molto limitata che terminava alle 14.00, poi una pausa e alle 17.00 riprendeva con una programmazione di documentari molto vaghi. I talk show non esistevano, la politica comunicava attraverso le famose Tribune politiche storicamente condotte da Jader Jacobelli: un minuto e mezzo per la domanda, tre minuti per la risposta e un minuto per la replica. E la durata dei programmi era molto breve. Nel 1981 quando noi siamo partiti, Quark durava 55 minuti, tempo standard dei programmi. Allora c’era il telegiornale, a seguire Carosello, alle 20.40 cominciava la prima serata. C’era la serie Dallas, una soap opera statunitense prodotta dalla CBS, e poi alle 21.35 iniziava la seconda serata e noi andavamo in onda con Quark per 55 minuti.
Alle 22.30 iniziava la terza serata per lo più dedicata a dibattiti. Ma alle 23.00 tutto terminava, si andava a letto. Non c’era la spinta a dover fare fuochi d’artificio per ottenere maggiori ascolti. Ci si è accorti in seguito che quella varietà di programmi corrispondeva a diversi generi. È bene ricordare che non solo la Rai era praticamente in una condizione di monopolio, ma anche che la ricezione del segnale era ancora debole, non omogenea nel Paese e questa condizione penalizzava le poche reti private allora esistenti. Così, anche il pubblico meno colto vedeva documentari, sceneggiati tratti per esempio dalle opere di Riccardo Bacchelli. I programmi erano quelli. Poi lo sviluppo delle reti televisive, ha permesso ai telespettatori di passare per esempio da Quark al varietà, in onda su altri canali. Così è stato privilegiato il genere e non la qualità. E allora le regole sono cambiate, bisognava conquistare il pubblico con programmi forti all’inizio preceduti da programmi cuscinetto, di pre-serata. I programmi di prima serata sono passati a durare due ore e anche a noi di Quark chiesero puntate altrettanto lunghe. Rilevai che sarebbe stato difficile fare due ore dedicate alla scienza. Per fortuna ero a conoscenza di bellissimi documentari sulla natura prodotti dalla BBC o dal National Geographic e di produttori indipendenti, e così pensai di trasmetterne alcuni, nel primo anno di Quark in numeri speciali estivi e inventando Nel Mondo di Quark, trasmesso nel pomeriggio e visto da generazioni di giovani, dalle 14.00 alle 15.00. Per me era come un test per verificare quale fosse il gradimento del pubblico. Così ho inserito in apertura i documentari più belli capaci di attrarre. Introdussi anche nuove modalità di narrazione, ricorrendo all’utilizzo dei disegni, di cartoni animati, o a personaggi rilevanti in diversi settori capaci di raccontare grandi storie. In questo modo abbiamo vinto la sfida degli ascolti. Se si guardano attentamente i palinsesti di quegli anni si scopre che il varietà, il grande varietà del sabato sera, durava 1 ora. Oggi questi programmi vanno oltre la mezzanotte. Questo ha inciso molto sui programmi. Diventando determinante l’ascolto e di conseguenza i budget, gli investimenti commerciali. Anche il più illuminato degli amministratori deve fare i conti con una realtà così determinata.

Lei è un giornalista e si è sempre considerato tale. Quando ha capito che si poteva fare della divulgazione scientifica e quando ha colto questa opportunità pensando che fosse una strada professionalmente corretta ma non solo per lei soprattutto per il pubblico radiotelevisivo?

Che si potesse fare divulgazione scientifica o tecnologica l’ho capito dai primissimi servizi che ho fatto alla radio nel 1952. Ricordo molto bene perché il primo servizio era un breve documentario radiofonico sulla Valle D’Aosta, dedicato alla scoperta di quella valle. In quell’occasione mi ero divertito a raccontare come funzionasse una centrale idroelettrica cioè, più banalmente, come l’acqua potesse accendere una lampadina. Mi resi conto con una serie di esempi, con l’utilizzo di metafore, quanto fosse semplice spiegare i passaggi intermedi del processo. Il linguaggio è la chiave d’accesso, credo che quasi tutto si può comprendere anche da parte di chi non ha particolari conoscenze. Il nostro pubblico è molto curioso. Tutti abbiamo bisogno di divulgazione. La scienza e l’economia hanno bisogno di essere raccontate e spiegate con linguaggio e modalità accessibili a tutti. Quando realizzai quel documentario ero un cronista e come vuole la buona tradizione, dovevo occuparmi di tutto. In seguito mi inviarono a fare una sostituzione di tre mesi a Parigi e ci rimasi nove anni. Divenni corrispondente dalla capitale francese. Erano anni segnati dall’entrata in scena di De Gaulle, dalla guerra franco-algerina, dal terrorismo, e così fui completamente assorbito a raccontare questi avvenimenti. Nel frattempo era nata la televisione e io migrai professionalmente sul piccolo schermo, nel 1956. Mi capitava di fare servizi di scienza e tecnologia in particolare per una rubrica televisiva settimanale che si chiamava Arti e Scienze, nella quale le due discipline si mescolavano. Anche perché Parigi offriva molto da questo punto di vista. La città era un vero e proprio centro culturale animato da artisti, scrittori, pittori, musicisti, studiosi.
Ma professionalmente il mio principale lavoro era il telegiornale, l’attualità. Da Parigi a Bruxelles per altri quattro anni. Mi occupavo di economia. Il Belgio, paese che divenne importante nel corso degli anni nello scacchiere europeo, già negli anni Sessanta, ospitava tavoli, diciamo tecnici, per armonizzare i trattati comunitari con le legislazioni nazionali, nella consapevolezza che per unire dei Paesi dovevi darti delle regole riconosciute da tutti. Così da Bruxelles facevo soprattutto l’inviato verso i Paesi Scandinavi occupandomi anche di Pubblica Amministrazione.

La stragrande maggioranza delle persone non accetta comportamenti che tengano conto del risparmio energetico, della necessità di ridurre l’inquinamento dell’aria, insomma si vive una grande contraddizione: tutti si lamentano delle montagne dei rifiuti che produciamo ma poi non vogliamo i termovalorizzatori sui nostri territori, il famoso effetto NIMBY (Not In My Back Yard, letteralmente “Non nel mio cortile”)

Già negli anni Sessanta si potevano cogliere nell’organizzazione dello Stato nel Nord Europa insegnamenti che avremmo potuto fare nostri in Italia?

Scoprii una cosa apparentemente rivoluzionaria, ma in fondo solamente logica. I ministri svedesi non risiedevano nel proprio ministero, ma i loro uffici erano tutti raccolti in un’unica sede. I ministri davano ovviamente direttive ma non potevano interferire nel funzionamento della macchina amministrativa. Nella cultura di quei Paesi il governo rappresenta una maggioranza provvisoria, mentre il Ministero e la sua organizzazione rappresentavano gli interessi generali dei cittadini, insomma la struttura sopravviveva ai diversi governi. Inoltre per evitare uno strapotere della Pubblica Amministrazione, due alti magistrati eletti dai due rami del Parlamento, quindi con pieni poteri, due ombudsman se vogliamo difensori civici, indagavano su fatti segnalati da cittadini e/o dalla stampa, casi di disservizio, di diritti calpestati e così via. Forse anche per questo le cose già in quegli anni funzionavano abbastanza bene. Non solo, scoprii che tutti i documenti pubblici erano veramente pubblici. Persino la posta del ministro. Con un collega dell’agenzia stampa nazionale ricordo andammo nell’ufficio del Ministro delle Poste, in quel momento assente. Il collega, con mia massima sorpresa, chiese alla segretaria di poter leggere la posta del ministro, persino le lettere personali, se in esse vi fosse un riferimento a questioni pubbliche. Capii una cosa importante: lì i ruoli di Stato e Governo erano ben chiari, in Italia ancora oggi spesso non appaiono tali. Un politico non può mai dire lo Stato siamo noi così come la Rai non è il governo. La Rai ha una sua autonomia. Già la commissione parlamentare di vigilanza costituisce una prima forma di ingerenza, sarebbe meglio istituire un’authority. Che siano i parlamentari, sempre maggioranze transitorie, che decidano di istituti appartenenti a tutti i cittadini è sicuramente pratica poco ortodossa. Come potrebbe in questo caso essere garantita l’effettiva obiettività?

Beh, questo dipende anche dalla nostra professionalità, non solo dai controllori…

Ho sempre sostenuto che l’obiettività, la corretta informazione stanno nella sensibilità di chi ci lavora. Si possono stabilire sulla carta tutte le regole immaginabili, ma poi il garante dell’obiettività è colui che informa. Nella vecchia sede del New York Times campeggiava una scritta “Tutte le notizie che meritano di essere pubblicate”, da tutti sempre citata. Ma il sottotitolo, che invece è poco ricordato, recitava “senza l’intenzione di favorire o danneggiare qualcuno”. Mi ricordo che quando andò in pensione Walter Leland Jr. Cronkite, il famoso anchorman della CBS considerato “l’uomo più creduto negli Stati Uniti d’America”, tutti si chiesero, se votava repubblicani o democratici. Questo fa capire quale fosse la sensibilità e la professionalità di quel giornalismo, che sicuramente nei momenti topici della vita americana, Watergate, Vietnam ecc…prendeva posizione, ma non per una parte politica, economica, militare, semplicemente per la parte della professionalità e sensibilità dei giornalisti. Tutto ciò è sempre stato agevolato dal fatto che in America dal dopoguerra lo scontro politico non si è mai manifestato in una contrapposizione frontale come da noi, dove si opponevano due mondi. Repubblicani e Democratici si riconoscevano nello stesso stile di vita, nello stesso sistema di regole, nello stesso modello di capitalismo. Insomma il modello politico americano è accettato sia da democratici che repubblicani. Poi le politiche possono differenziarsi, se ci si rivolge a chi ha più soldi o a chi ha meno soldi, oppure se si vuole o meno una sanità pubblica, una politica di sostegno ai più poveri e così via.

Torniamo alla divulgazione scientifica. Lei non si è mai sentito frustrato per il fatto che la sua attività di trasferimento di conoscenze, di cultura, di allarme per i danni che i nostri comportamenti e stili di vita possono provocare, non abbiano sortito effetti e cambiamenti non solo tra i cittadini ma soprattutto nelle scelte politiche?

C’è una certa sordità. Io ho attraversato la guerra, costretto a ben altro risparmio rispetto a quello energetico. Si trattava di risparmio totale, sul cibo, vestiti, carburanti ecc… Una condizione certo obbligata. Oggi le persone sono restie ad accettare stili di vita che fanno del risparmio (energetico o dei consumi in generale) una delle bussole per orientarsi nelle scelte. La stragrande maggioranza delle persone non accetta comportamenti che tengano conto del risparmio energetico, della necessità di ridurre l’inquinamento dell’aria, insomma si vive una grande contraddizione: tutti si lamentano delle montagne dei rifiuti che produciamo ma poi non vogliamo i termovalorizzatori sui nostri territori, il famoso effetto NIMBY (Not In My Back Yard, letteralmente “Non nel mio cortile”). Una delle maggiori cause della dispersione energetica è determinata dalla costruzione delle case. Oggi ci sono materiali e sistemi che costano un poco di più ma che rendono tantissimo dal punto di vista del risparmio energetico. Queste politiche da noi sono poco diffuse perché non c’è la cultura, la conoscenza, l’educazione al rispetto ambientale.

Certo educazione e formazione ma anche scelte politiche che guardino al futuro.

Il politico deve gratificare l’elettore, in breve periodo. Non si ragiona purtroppo pensando al mondo che lasceremo alle future generazioni. Io scrissi un libro “A cosa serve la politica”, partendo dall’assioma che la politica non produce ricchezza. Mi spiego meglio. Per secoli e millenni la gente è rimasta povera malata, aveva vita breve, faceva lavori duri, e questo fino a ieri. Fino all’Unità d’Italia il 70-80% delle persone lavoravano la terra, erano contadini veri, quelli di Ermanno Olmi magistralmente raccontati ne L’albero degli zoccoli. Quando io sono nato la speranza di vita era di 55 anni, adesso di 80 anni, l’analfabetismo era al 25%, ma quando nacque mio padre era al 70%. Allora come mai è cambiato così tanto nel modo in cui viviamo? Da dove viene questo cambiamento? Inizia dal momento in cui le ruote hanno cominciato a girare grazie a un motore, cosa ancora più importante della nascita della ruota. E quando girano le ruote nei campi, nelle officine, nelle città, ci sono i trasporti ci sono le macchine, tutto sembra moltiplicarsi.
E allora tutti si arricchiscono, nel senso che per i contadini non c’è più bisogno di stare nei campi, oggi solo il 4% degli italiani lavora la terra e negli Usa meno dell’1%. Tutto ciò vale anche per le fabbriche, il numero degli addetti nell’industria diminuisce, adesso le “nuove ruote” della tecnologia informatica fanno sparire anche gli impiegati. Basti pensare al sistema bancario, quanti sportelli sono stati chiusi negli ultimi anni. La tecnologia riduce il numero di persone addette alla produzione di beni e adesso anche di servizi, ma al tempo stesso moltiplica beni a disposizione delle persone. Tutta questa ricchezza deve essere gestita, governata. Intanto il ruolo della politica è quello di distribuire in modo equo la ricchezza, ma soprattutto garantire che questa macchina giri sempre in modo migliore. Questo è il solo modo per tenere insieme i vari pezzi, non solo le macchine, ma anche la capacità educativa per poter gestire un sistema. La lampadina, il computer, sono già stati inventati, così come tutti i sistemi di management. Ma se lei trasferisce tutto questo in un paese arretrato è pura illusione pensare che il giorno dopo quel paese superi la sua condizione di sottosviluppo. Perché al di là delle risorse economiche necessarie più o meno disponibili serve la formazione, l’educazione, così come un’azienda moderna non ha solo il bisogno di produrre, ha bisogno di marketing, di educazione permanente, di aggiornamento, di promozione. Anche in questo caso serve la politica. Oggi in Italia ci sono 3.200.000 persone che lavorano nella Pubblica Amministrazione, a questi vanno aggiunti coloro che lavorano nella politica (senatori, deputati, consiglieri regionali, comunali, staff e segreterie, organizzazioni sindacali ecc…). Nessuno più produce. La politica deve governare al meglio questi processi consapevole che oggi la dimensione e la portata dei suoi interventi non sono limitati ai confini nazionali, ma in contesti internazionali, con la sempre più agguerrita competizione.

Insieme ad altri colleghi si è reso promotore del corso/programma di formazione Prepararsi al futuro. Di cosa si tratta?

Andando per scuole e università a tenere conferenze, mi sono reso conto che questi ragazzi hanno poche nozioni di ciò che avviene fuori quei contesti, perché lo si insegna poco e pure l’informazione è scarsa. Quando io ho fatto il liceo, ma è così ancora oggi, si insegnava il passato, greco, latino, filosofia, storia dell’arte, letteratura e poi le materie scientifiche, non la scienza, non il metodo, non la pervasività dell’etica. Tutte discipline importanti ma allo stesso tempo tutte volte al passato. Quindi ho pensato che per la formazione della futura classe dirigente fosse utile che i ragazzi fin dalla scuola capissero alcuni problemi fondamentali. Ad esempio, non si parla (e poco anche la si studia) della demografia. Abbiamo una società che non fa più figli e una vasta popolazione di anziani. Quello che erano i tre segmenti tipici della vita sociale, studio vita attiva e pensione, hanno cambiato completamente dimensione. Oggi abbiamo pochi giovani ma che studiano più a lungo, abbiamo molte persone in pensione che vivono sempre più a lungo. I due eserciti costituiscono la popolazione che o non lavora o non lavora più. E in mezzo rimangono quelli che devono sostenere il tutto. Una volta i giovani lavoravano molto nelle campagne, l’analfabetismo era dilagante, si viveva non molto e i contadini non andavano mai in pensione e pochi anni dopo la pensione, si moriva. Per questo la spesa pensionistica era bassa.
Oggi è esattamente il contrario. Non si tratta solo di un aspetto esistenziale, ma per le casse dello Stato un aspetto economico. E allora con il prof. Francesco Profumo, tra le altre cose anche ex ministro alla Pubblica Istruzione, abbiamo dato vita al progetto Prepararsi al futuro. Abbiamo scelto 400 studenti tra i migliori del Politecnico e delle scuole secondarie superiori e licei di Torino, per farli incontrare con personaggi di rilievo della modernità, del mondo esistente al di fuori dei contesti scolastici e accademici. Nei due cicli che si sono conclusi recentemente, ci siamo occupati di innovazione, democrazia, impresa, ricerca, sociologia, demografia, economia, nuove tecnologie, comunicazione, con la partecipazione di alte personalità da Raffaele Cantone al ragioniere dello Stato che si occupa di debito pubblico, ai politici come Carlo Calenda, Enrico Letta, Romano Prodi, come il direttore dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova Roberto Cingolani o come Massimo Livi Bacci che si occupa di demografia, imprenditori, comunicatori, direttore generale dell’Enel, studiosi di energie alternative, filosofi della scienza. La mia speranza è che l’incontro dei giovani con questi personaggi, possa offrire loro gli strumenti per capire quanto avviene attorno a loro. Perché l’ho fatto? Ho imparato nel mio lavoro che quello che si semina può sbattere contro il cemento ma può anche incontrare un terreno fertile e far crescere una rigogliosa pianta. Ecco quando io incontro delle persone che hanno successo soprattutto nelle discipline scientifiche e nelle attività di ricerca e che attribuiscono il loro successo in parte anche ai miei programmi televisivi e/o alle mie iniziative formative, beh il senso di frustrazione di cui parlavamo prima si dissolve.

Lei ha più volte sostenuto che la scienza non può essere democratica. Inoltre ha dovuto dimostrare la correttezza di questo assioma anche nelle aule di tribunale.

Agli inizi degli anni 2000 ho fondato il Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) dentro al quale stavano i più grandi scienziati, molti Premi Nobel, rinomati ricercatori e uomini di cultura. L’obiettivo era quello di confutare le svariate tesi di pseudo medicina e contrastare le fake news. Questo comitato, poi è diventato una onlus, organizza moltissime attività educative a partire dalle scuole. Nei primi anni 2000 realizzai un programma televisivo, insieme a Giangi Poli, molto critico sull’omeopatia, sulla preparazione dei medicinali omeopatici attraverso le infinite diluizioni. Un’impostazione che facevo risalire al ‘700 quando la gente stava male e si curava con i salassi, le purghe, una sorta di effetto placebo. Non era necessario scomodare Tita Levi Montalcini o Renato Dulbecco per suffragare le mie tesi. Comunque per quel programma venni denunciato per diffamazione dai medici omeopatici e mi accusarono inoltre di non aver rispettato la par condicio, alla quale la Rai è tenuta, non avendoli invitati in trasmissione. Insomma tra le altre cose avevo disatteso i doveri del servizio pubblico.
A lungo sono stato interrogato, ho subito 5 processi che ho sempre vinto. Durante quell’esperienze ho sostenuto che la scienza non è democratica. Se lei durante una trasmissione invitasse una persona che sostiene che la terra è sferica e un’altra che sostiene che è piatta, io sarei delegittimato in quanto quello non sarebbe un programma di scienza, la tesi terrapiattista non è suffragata da nessuna dimostrazione scientifica. Per cui la scienza non ha la par condicio, non è democratica, e in sede dibattimentale riportai un esempio non mio: la velocità della luce non si decide per alzata di mano a maggioranza, bisogna dimostrarla e tutti devono trovare e quantificare le misure. In politica uno può dire quello che vuole, ma non nella scienza. Una tesi deve essere giustificata e motivata con relativa documentazione e prova empirica, deve saper spiegare quale procedura ha seguito, che possa confermarla. Questo permettere a ciascuno di noi di compiere lo stesso percorso e se tutto fosse corretto raggiungere lo stesso risultato. Questa è la regola che da Gallileo in poi ha cambiato il mondo.

Oggi la sfida scientifica tecnologica si chiama intelligenza artificiale…

L’intelligenza artificiale può giustamente anche far paura. Sa perché? Queste straordinarie innovazioni scientifiche e tecnologiche si sviluppano a grande velocità rispetto allo scorrere della vita umana. Quest’ultima si allunga mentre i tempi dell’innovazione si accorciano. Si determina in tal modo uno squilibrio. Noi abbiamo persone che non sono in grado di gestire questo cambiamento a cominciare dal ceto politico, tranne rare eccezioni. La stragrande maggioranza della popolazione ancora non è pronta per questa importante rivoluzione scientifica e tecnologica. Per questo penso che occorra un grande sforzo nel campo dell’educazione e della formazione. Lo sviluppo tecnologico, l’intelligenza artificiale, inevitabilmente avranno ripercussioni sul lavoro, sulle professioni destinate a sparire, coinvolgendo e colpendo il ceto medio, la fascia impiegatizia, la classe media. Lo sviluppo inarrestabile del commercio elettronico modifica radicalmente usi e costumi della gente e anche in questo caso mette a rischio posti di lavoro. Il nostro sistema si basa sul consumatore e chi non lavora non può consumare, il commerciante non vende, l’azienda non produce più. Bisogna governare bene l’innovazione, diffondere la cultura digitale nella consapevolezza che non stai pensando al futuro ma al presente.

Il governo Conte ha recentemente varato un nuovo Piano Triennale per l’ammodernamento della PA in senso digitale. Hai mai pensato di collaborare con il Team Digitale e/o Agenda Digitale per la diffusione della cultura digitale nel nostro Paese?

Ho incontrato qualche tempo fa il nuovo Commissario per l’attuazione dell’Agenda Digitale, Luca Attias, il quale mi ha chiesto di collaborare nelle attività di sensibilizzazione della cultura digitale, anche attraverso dei programmi televisivi dedicati. Penso che l’efficientamento del sistema non possa essere più rinviato… Quanto e quando questo sarà possibile non lo so. Io credo sempre nel lavoro che faccio, so quanto siano importanti l’educazione e la formazione. Benissimo diffondere la cultura digitale.

Ma l’Italia registra ancora grandi ritardi nell’innovazione e ammodernamento della Pubblica Amministrazione.

Ma sono ritardi storici e non dipendenti dalla tecnologia. Un esempio? Quando tornai in Italia dal Belgio, dovetti cambiare la targa alla mia auto e con essa anche la patente. Avevo preso la patente internazionale a Parigi ma in Italia non andava bene. Mi hanno fornito un lunghissimo elenco di documenti che avrei dovuto fare, tanto che mi rivolsi a un’agenzia. Se avessi fatto tutto da solo ci avrei impiegato più di una settimana. Ma proprio in quel periodo mi sono recato per lavoro negli Usa e dovendo utilizzare l’auto per gli spostamenti, sono andato al consolato americano, ho presentato la mia patente internazionale e subito mi hanno fornito quella valida per poter viaggiare negli Usa. Fine, tutto in meno di un’ora. Questo cosa vuol dire? Io Stato Italiano non ha fiducia in te cittadino, per cui per le cose che mi chiedi mi devi presentare tutta la documentazione a garanzia dell’autenticità e legittimità delle tue richieste. Negli Usa accade esattamente l’opposto: lo Stato ha fiducia in te cittadino ma se ti becca che hai tradito la fiducia, tu hai finito di stare bene. È il tradimento della fiducia accordata che fa scattare per esempio la richiesta l’impeachment per un Presidente che ha dichiarato il falso o ha mentito. Noi ci sorprendiamo quando veniamo a conoscenza che per una bugia venga avviata la messa in stato di accusa di un Presidente di un paese come gli Usa. Insomma, se il rapporto tra Stato e cittadini non è fondato sulla fiducia, entrano in scena l’infinita burocrazia e i sistemi di controllo. Ma la cosa interessante è che il controllo in America viene fatto a posteriori e da noi in Italia molto meno. A quel punto si ricorre a espedienti non legali, o ci si affida all’arte dell’arrangiarsi. In altre parole, io ho l’impressione che si potrebbe avere una Pubblica Amministrazione più leggera e agile se si desse fiducia ai cittadini, e si controllasse dopo quello che hanno fatto. Forse mi sbaglio, perché in Italia c’è troppa raffinatezza nella truffa.

È una questione di storia, di cultura?

Si ma non solo. Un mio collega, divenuto cittadino americano, la prima volta che ha fatto la dichiarazione dei redditi negli Usa è andato dal commercialista e ha chiesto se fosse possibile “accomodare” qualche ricevuta o spesa. Il commercialista lo ha subito bloccato dicendogli: “Ma lei vuol finire in galera?”. Lì le pene sono severissime per chi evade le tasse. Da noi male che vada vengono ti notificano una multa irrisoria. Gli italiani che vanno a vivere negli Usa si adeguano subito, l’eventuale punizione funziona come deterrente. Le faccio un altro esempio. Mia figlia, nata a Parigi dove ha iniziato gli studi, quando siamo tornati a Roma ha frequentato il liceo francese. Nella sua classe nel corso dell’anno è arrivato uno studente americano, figlio di un diplomatico.
Durante una verifica di matematica, questo ragazzo si alza e denuncia due studenti che stavano copiando. Come ho detto a mia figlia, cosa sarebbe successo se non fosse stato un compito in classe ma un concorso per un posto di lavoro? La filosofia è nota, uno deve avere ciò che merita, non per truffa. Qui accanto anni fa abitava una famiglia olandese, il loro figlio era amico di Alberto, avevano 10 anni. Un pomeriggio siamo andati con questo ragazzo nella Tuscia a fare un pic-nic. Ci siamo sistemati in una piccola valle dove scorreva anche un corso d’acqua, poco più di un ruscello. Sulla riva ci stava un signore che pescava a pochi metri da un cartello con la scritta “vietato pescare”. Il ragazzino olandese, senza che nessuno gli dicesse nulla si è rivolto al trasgressore ricordandogli che vi era il divieto di pesca. Questo atteggiamento si chiama controllo sociale. In passato feci anche delle candid camera e una di queste fu illuminante, a proposito dell’assenza di controllo sociale. Noleggiammo un’ape car, quella specie di motocarro a tre ruote, con autista e lo riempimmo di rifiuti di ogni genere compreso un bidè. Giunto in corrispondenza della fermata di un autobus a Roma, il nostro autista scaricò il tutto sotto la palina della fermata, per poi dileguarsi. Tra le diverse persone presenti ci stava anche un nostro collega-complice che con un microfono nascosto avrebbe dovuto registrare le reazioni delle persone. Nessuno protestò, disse qualcosa o si indignò. L’unica voce che si sollevò fu quella di un signore che disse: “Poi noi vogliamo andare in Africa a insegnare l’educazione”. Se non vengono attuate pratiche di controllo sociale, questi sono i risultati.

Controllo sociale, prevenzione ma anche sanzioni?

Nel 2000 ho scritto un libro “Premi&Punizioni”, dedicato a questo tema. La nostra vita dall’inizio alla fine, è scandita da premi e punizioni, brutti e bei voti, battimani e fischi, elogi e insulti, guadagni e perdite, nascite e lutti. Certamente siamo orientati ad ottenere premi ed evitare punizioni, ovviamente in senso lato, dolori, brutte figure. Tutte le nostre invenzioni sono nate per risparmiarci dolori, disagi, pericoli, disturbi, incidenti. Ci vuole una strategia sociale per cui le leggi, i regolamenti, devono essere rispettati e non dovrebbe essere ammissibile il contrario. Se non vi fossero punizioni e sanzioni certe, tutti cercherebbero di farla franca. Il sistema deve insegnarci che non conviene commettere reati ma è conveniente essere onesto. A partire dai gesti quotidiani. Guidare con la cintura di sicurezza è ormai divenuta consuetudine e infatti gli incidenti sono diminuiti. Ma è stato necessario introdurre l’obbligo e prevedere sanzioni per coloro che non rispettano tale prescrizione. Molto spesso è l’impunità a prevalere, la prescrizione, il condono, l’amnistia, il ricorso, il cavillo legale, la corruzione e così via. Senza punizione certa non credo sia possibile cambiare questo sistema. Il problema è certamente culturale. Nel nostro Paese spesso si considera una legge dello Stato come un’imposizione, nel sud Italia storicamente lo Stato veniva percepito come un’autorità nemica. Al nord un po’ meno anche se gran parte della popolazione contadina ha vissuto in balia della tirannia dei proprietari terrieri e quindi avrebbe avuto la motivazione per considerare l’autorità come il nemico. In questo caso, credo abbiano avuto un ruolo determinante le dominazioni straniere, austriaci e francesi. Ma parliamo di tempi assai lontani. Io credo che non debba prevalere in noi cittadini l’individualità, al contrario dovremmo sempre privilegiare gli interessi comuni.

Lei è ottimista?

Io lo sono per natura. Il mio pessimismo nasce solo dall’evidenza dei fatti, dal fatto che non ci si mobilita come una volta. Ma credo che questo sia spiegabile anche ricorrendo a un fattore biologico. Tutta la nostra storia ci dice che noi reagiamo quando incontriamo un pericolo reale. Ma abbiamo difficoltà a simulare un pericolo che non c’è. Questo è un atteggiamento tipico degli animali che reagiscono sempre all’immediato. La capacità di immaginare il futuro è invece tipica dell’uomo, immaginarlo sulla base dell’esperienza, per cui sei in grado di sapere che mettendo insieme quattro diversi elementi vi sono altissime probabilità che si verifichi il fenomeno.

 

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