Dalla Sicilia in America, con successo. Stiamo parlando della scienziata Anna Grassellino, nata a Marsala 39 anni fa, e di recente nominata dal Fermilab (Fermi National Accelerator Laboratory) di Chicago a capo del nuovo laboratorio Superconducting Quantum Materials and Systems Center (Sqms, sqms.fnal.gov), uno dei cinque che si sono aggiudicati fondi per un totale di 625 milioni di dollari, stanziati dalla Casa Bianca, per l’innovazione in campo quantistico. Il suo gruppo, in particolare, avrà a disposizione 115 milioni di dollari, con circa 200 ricercatori da lei coordinati, coinvolgendo anche l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e l’Università di Padova.
Con oltre 100 pubblicazioni al suo attivo, Anna Grassellino ha negli anni ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali, nel 2016, quello da parte dell’Institute of Electrical and Electronic Engineers (IEEE) Nuclear and Plasma Sciences Society come miglior contributo allo sviluppo degli acceleratori di particelle e, nel 2017, il Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers conferitole dall’allora presidente Barack Obama. In questa intervista la scienziata italiana ci parla della ricerca nel campo dei quanti e delle prospettive per il futuro.
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Lei è nata a Marsala e vive a Chicago. La prima un centro di circa 80.000 abitanti sulla costa Ovest della Sicilia, dove sbarcarono i Mille di Garibaldi, e si produce l’omonimo e famoso vino. La seconda una metropoli di 2,7 milioni di abitanti (la seconda degli Stati Uniti), dominata dagli altissimi grattacieli. Partiamo dalla sua storia, dal suo percorso di studi e dalle esperienze professionali che l’hanno poi portata a questo viaggio fino alla carriera nel Fermilab…
Dopo la maturità scientifica sono partita per Pisa a studiare ingegneria elettronica. Un anno prima della laurea, nel 2004, mi sono trasferita presso il Fermilab come ‘summer student’ nell’ambito di un programma che aveva selezionato 9 studenti in tutta Italia. Un’esperienza positiva e ricca di stimoli sia come ambiente che come argomenti di studio. Ecco che sono rimasta affascinata dalla fisica ad alta energia e dai grandi sistemi deputati allo studio della particella elementare, candidandomi con successo per un PHD (Philosophiae Doctor) presso la University of Pennsylvania. Dopo la laurea, nel 2005 a Pisa, sono tornata negli Stati Uniti, restando a Filadelfia per due anni, approfondendo tra le altre materie proprio la fisica quantistica. Nel 2008 ho poi ho avuto l’opportunità di passare al TRIUMF di Vancouver, il laboratorio di fisica nucleare canadese, presso la University of British Columbia. La tesi la realizzai con l’allora direttore Nigel Lockyer che mi propose di restare in America a fare ricerca. Mi sono quindi specializzata in cavità a radiofrequenza per poi essere assunta al Fermilab di Chicago, del quale lo stesso Lockyer è oggi direttore, prima come post doc, quindi student scientist, scientist e in fine attualmente senior scientist, l’equivalente del professore ordinario in Italia.
Può spiegaci meglio che cosa intendiamo con il termine superconduttività in radiofrequenza?
Prima di tutto va detto che si tratta della tecnologia chiave per la realizzazione degli acceleratori di particelle. Tecnicamente si parla dell’assemblaggio di oggetti cilindrici metallici cavi (i risonatori), realizzati oggi in lega di niobio-titanio, all’interno dei quali si riflettono onde elettromagnetiche. Quando il fascio di elettroni passa al loro interno la particella viene sincronizzata con l’onda, che ha una dimensione legata anche alla tipologia di fascio sparato, provocando una spinta di fino a 50 milioni di volt di potenza utilizzando l’energia equivalente a quella di una lampadina. Se portata alla temperatura di 9 gradi kelvin, questo tipo di struttura perde tutta la sua resistenza elettrica in corrente continua, ma non completamente in corrente alternata, trasformandosi quindi in superconduttore a radio frequenza con resistenza di superficie vicina allo 0. Inoltre, è caratterizzata da una bassissima dissipazione di watt rispetto a una controparte in rame, i cui consumi sono invece molto elevati. E con il vantaggio di poter restare sempre accesa rispetto alla seconda, che al contrario si scioglierebbe.
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Approfondiamo questo punto…
Quando si utilizza una cavità in rame per accelerare un fascio bisogna passare da una continua alternanza tra una fase di accensione a una di spegnimento tra ciascun impulso per permettere alla struttura di raffreddarsi. Invece, grazie alle nuove leghe, l’acceleratore può restare acceso sempre. Ad esempio la macchina in costruzione a Stanford della lunghezza di circa 1km ha proprietà rivoluzionarie. Di fatto rispetto a quella di vecchia generazione in rame, che opera a 10 impulsi di luce al secondo, questa potrà arrivare a 1 milione di impulsi al secondo. Con la possibilità di inviare i fasci per osservare in modo estremamente più preciso l’evoluzione di eventuali reazioni chimiche in tempo reale, producendo molte più immagini del fenomeno. Nel contempo questa tecnologia può essere utilizzata non solo per accelerare, ma anche per rilevare ad esempio le onde gravitazionali. In generale ci riferiamo, come struttura macroscopica ingegnerizzata, a fattori di qualità nell’ordine di 10 elevato alla 11.
Oggi è alla guida del Superconducting Quantum Materials and Systems Center (Sqms) il centro del Fermilab dedicato alla ricerca nell’ambito del calcolo quantistico. Cosa intendiamo quando parliamo di meccanica dei quanti e quali sono i vantaggi che questo tipo di acceleratori producono in questo particolare campo?
Di meccanica dei quanti se ne parla da più di un secolo ma oggi siamo arrivati al punto in cui i suoi principi possono essere concretamente sfruttati per un progresso tecnologico importante. Tali principi enunciano la possibilità di sovrapporre gli stati quantistici tra loro dando vita a un altro stato valido con tutta una serie di conseguenze anche per i sistemi di calcolo. E in tutto il mondo – dalla Cina all’Europa fino appunto agli Stati Uniti – si sta investendo su tale fronte per far sì che i progressi fin qui compiuti possano essere messi a frutto. Si parla di computing (i sistemi di elaborazione) e sensive (la sensoristica) – che sono due obiettivi del nostro centro – ma anche di communication (i sistemi di comunicazione) e della la loro sicurezza. Non è infatti un mistero che un grande driver degli studi per lo sviluppo di supercomputer quantistici nasca dal fatto che con le loro proprietà si può arrivare a violare facilmente i codici che sono alla base degli algoritmi di cifratura delle comunicazioni oggi utilizzati. Ma le applicazioni in realtà sono innumerevoli ed è la ragione per cui nella nostra ricerca abbiamo partner che provengono da svariati settori, come ad esempio quello finanziario o avionico, nella fattispecie Goldman Sachs e Lockheed Martin.
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Andiamo nel dettaglio del funzionamento di questo approccio e delle opportunità che può effettivamente generare per il progresso ulteriore dei sistemi di calcolo. Quali sono le sue potenzialità rispetto ai processori più tradizionali che operano sulla base dei bit anziché sui qubit? Possiamo fare un confronto?
Prima di tutto va detto che la possibilità di realizzare un sistema di calcolo eccezionalmente potente deriva proprio dalla durata estremamente lunga degli impulsi. Di fatto, se non osservati, un elettrone o un fotone si trovano in una sovrapposizione di stato, e non in uno stato specifico, ossia sono una cosa e contemporaneamente un’altra. Ecco che possiamo usare questo principio contro intuitivo a nostro vantaggio su più fronti, compreso quello informatico. Il bit lavora infatti in modo binario, alternando sequenze di 1 e 0, per gestire le informazioni e impartire i comandi al computer. Il qubit lavora anch’esso con 1 e 0 senza però alternarli ma facendoli coesistere, proprio per il principio di sovrapposizione. Nel contempo ogni qubit può correlarsi (fenomeno dell’entanglement) a un altro, moltiplicando quindi la potenza computazionale in modo esponenziale. Si tratta di qualcosa di particolarmente adatto ai calcoli probabilistici per cui ritengo che un computer quantistico possa essere destinato ad applicazioni come quelle di simulazione dei fenomeni naturali che sono anch’essi basati sulla meccanica dei quanti. Lo stesso può accadere per la fisica particellare e per quelle simulazioni di collisioni che oggi effettuiamo con modelli ed equazioni sottoposti all’elaborazione di un computer classico, che in ogni caso continuerà a esistere ed essere utilizzato.
Sul fronte della sensoristica invece di cosa si parla?
Un’opportunità è quella, ad esempio, di realizzare rilevatori dell’esistenza o meno della materia oscura, di particelle rilevabili come fotoni in eccesso. Oggi le tecnologie esistenti non lo consentono in quanto a temperatura ambiente convivono milioni di fotoni, e anche arrivando a un raffreddamento a 2 gradi kelvin la loro quantità resta elevata. Ora per la prima volta presso il Fermilab portiamo queste strutture a temperature di milli kelvin e quindi vicine allo zero assoluto dove appunto non vi è presenza di fotoni. Il traguardo è di dare vita ai sensori più sensibili mai esistiti.
Quali sono gli ostacoli che ancora oggi vanno superati per arrivare a creare supercomputer quantistici capaci di risolvere problemi sempre più complessi?
I processori finora dimostrati, anche quelli più potenti, sono comunque limitati per il fatto che i qubit hanno una vita che è inferiore ai microsecondi per cui ogni volta che ‘muoiono’ il calcolo va riavviato. Una delle sfide chiave che come centro ci prefiggiamo di risolvere è appunto l’aumento del tempo di coerenza, ossia la durata dello stato di sovrapposizione di un qubit. Nei nostri lab tramite uno studio condotto insieme ad Alexander Romanenko (marito di Anna Grassellino, e anch’egli ricercatore n.d.r) abbiamo dimostrato in passato che, con la cavità vuota, si può arrivare a un tempo di vita di due secondi. Ora l’obiettivo del primo anno di questo progetto quinquennale è dimostrare che connettendo questa cavità con il transmon qubit, ossia il circuito quantistico, si potrà dare vita a una unità di qubit più potente con tempi di coerenza nell’ordine dei secondi, anche se già un importante traguardo sarà arrivare alle decine di millisecondi. Al terzo anno prevediamo di dimostrare il primo prototipo spingendo in parallelo il tempo di coerenza delle cavità così come quello del qubit, per giungere entro il quinto anno alla meta che ci siamo prefissati.
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Qual è l’elemento principale che influisce sulla perdita di coerenza dei qubit e come può essere quindi risolto?
Il problema principale è quello del rumore termico. Per risolverlo ci prefiggiamo di costruire il sistema di raffreddamento più grande al mondo in termini diametro. Attualmente al primo posto si trova quello del INFN sotto al Gran Sasso che ne ha uno di 1 metro e mezzo. Ecco che noi prevediamo di arrivare a 4 metri per contrastare le elevate temperature causate dalla presenza di un grande numero di qubit. Anche se certamente importante la sfida tecnologia è comparabile a quella della costruzione di un acceleratore di particelle – con le variabili di criogenia, precisione, vibrazioni – applicabili qui in un regime diverso. Tenendo inoltre conto che in un acceleratore ci sono milioni di trilioni di fotoni mentre qui stiamo parlando di un unico fotone. In generale si tratta di aiutare l’industria non solo a sviluppare un chip tridimensionale ma anche a migliorare quelli bidimensionali portandoli anch’essi a un tempo di coerenza migliore. Per fare questo abbiamo previsto una combinazione di talenti specializzati su più discipline, dalla fisica dei materiali ai superconduttori passando per le interfacce a livello nanometrico.
Andando quindi nel dettaglio del centro SQMS, come è organizzato il suo team?
L’iniziativa globale è stata finanziata per 620 milioni di dollari (dei quali 115 assegnati al nostro centro) stanziati direttamente dalla Casa Bianca per il Department of Energy, che è incaricato della supervisione dell’Office of Science. Quest’ultimo ha deciso di creare cinque centri nazionali dedicati a tale ricerca in campo quantistico, e noi siamo stati tra quelli che hanno vinto la gara. L’iniziativa rappresenta un segnale del fatto che per arrivare a dei risultati concreti e di successo, e farlo per primi, si deve lavorare in cooperazione mettendo insieme diverse esperienze su discipline chiave. In tal senso il nostro centro SQMS, guidato appunto dal Fermilab, ha coinvolto nel progetto 20 istituzioni anche fronte industriale. In questo caso il nostro partner principale è Rigetti Computer, una realtà nata nella Silicon Valley dedicata esclusivamente al quantum computing. E poi ci sono il NIST (National Institute of Standards and Technology) e tante altre organizzazioni compresi IFNM e Università di Padova.
Quale sarà il ruolo e coinvolgimento dell’Italia in questo progetto?
Intanto bisogna essere orgogliosi del fatto che, insieme al Canada, l’Italia è l’unico partner internazionale. E questo non può che far piacere considerando anche la sensibilità del tema fronte sicurezza nazionale. Più nel dettaglio, INFN è un partner partner storico del Fermilab contribuendo in modo importante alla ricerca e compiendo nel loro laboratorio sotto il Gran Sasso studi importanti proprio sul tempo di coerenza dei qubit e sull’effetto che le radiazioni ambientali hanno su di esso. L’Università di Padova invece approfondisce il tema della materia oscura e degli algoritmi. Da parte mia, sarei contenta di stabilire delle summer school in Sicilia, presso il Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana di Erice, per formare le nuove generazioni di studenti che poi lavoreranno sui quanti. Un’altra proposta in tal senso arriva dall’IFNM e riguarda la sua sezione di Firenze.
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Lei lavora negli Stati Uniti. In Italia si parla spesso di fuga di cervelli. Quali sono a suo parere le eventuali differenze che esistono in termini di approccio alla ricerca scientifica tra Italia e USA che hanno portato a questo fenomeno?
Premetto che in realtà in Italia ho condotta poca ricerca essendo partita subito per gli Stati Uniti, per cui non posso fare una vera e propria comparazione tra i due Paesi. Tuttavia posso affermare che, pur esistendo alcune eccezioni, in Italia manca un ambiente di ricerca che sia veramente internazionale. Inoltre in America esiste molta attenzione per il tema della differenza di genere e mi sono state date diverse opportunità, tra l’altro molto giovane (a 35 anni promossa a guidare una divisione di un centinaio di persone) che difficilmente avrei avuto in Italia ma anche in Europa in generale. Detto questo non ritengo che in sé il concetto di ‘fuga di cervelli’ sia in realtà così negativo, a patto però di registrare un saldo positivo tra chi lascia l’Italia e chi invece vi si trasferisce a fini di ricerca. Ed è questo il vero problema del nostro Paese: non riuscire a esercitare la stessa potenza attrattiva e di inclusione che hanno gli Stati Uniti e che è la loro vera forza e la direzione verso cui è necessario andare. Un altro aspetto importante è quello della retribuzione, pur non avendo rappresentato il motivo principale della mia decisione. Gli stipendi dei ricercatori in Italia sono molto bassi – anche un quarto rispetto a quelli degli standard americani – e lo stesso vale per i laureati in materie scientifiche.
Quali suggerimenti darebbe agli studenti che oggi si trovano a dover scegliere una facoltà nelle cosiddette ‘scienze dure’? Esistono oggi delle aree di approfondimento più stimolanti e con maggiori prospettive future sulle quali indirizzarsi?
Nel corso della drammatica emergenza vissuta con la pandemia da Covid-19 ci si è resi conto di come le materie scientifiche siano fondamentali per la nostra vita quotidiana, a cominciare dalla salute. Se non si investe nella formazione di menti e cervelli in grado di far avanzare la conoscenza di quanto ci circonda non avremo un futuro. Sulla scelta da fare, di fatto non deve essere obbligatoriamente qualcosa di definitivo in partenza. Io mi sono laureata in ingegneria elettronica per poi passare a studiare fisica. Fondamentale è non rinunciare ai propri interessi, sfatando anche alcuni miti sul fatto che queste materie possono essere troppo astratte. Anche la fisica, in definitiva, mi dà la possibilità di esprimere la mia creatività tipicamente femminile facendo un’ipotesi, verificandola e quindi materializzandola in un esperimento.
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