Elena Cattaneo

Docente alla Statale di Milano e Senatrice a vita
10 Marzo 2020 |
Valerio Imperatori

Professoressa Elena Cattaneo, lei dal 2013 siede su uno scranno del Senato della Repubblica, chiamata a farne parte a vita dall’allora Presidente Giorgio Napolitano. Se le fosse possibile ricordare, quali furono le sue primissime sensazioni, impressioni…

Ricordo veramente tutto, anche come diedi notizia di quella inaspettata nomina all’allora Rettore della mia università, la Statale di Milano. Non sapendo quali parole utilizzare, ricordo cominciai dicendo che “a volte succedono cose nella vita che davvero non ti aspetti”. Forse non è un pensiero particolarmente originale, ma non avrei davvero saputo come altro presentare quella novità. In quei primi giorni mi era perfino difficile immaginare tutte le implicazioni di quella nomina così importante. Quando, una sera di qualche settimana prima, in laboratorio avevo ricevuto una telefonata da parte del presidente Napolitano che “desiderava vedermi”, confesso di non aver affatto pensato a un’eventualità del genere: i miei pensieri spaziavano dalla possibilità che il Presidente volesse una consulenza scientifica fino al “che avrò fatto mai di male”. Poi, una volta arrivata nel suo studio, con il cuore in gola, lo ascoltai parlare della storia d’Italia (recente e meno recente), dei padri costituenti, della Costituzione. Le sue parole davano forma e sembianze concrete a eventi e a persone che, fino ad allora, per me esistevano solo come parole di un libro di storia studiato a scuola, tanti anni prima. Alla fine, arrivò alla sua idea. Mi disse di aver deciso di nominare i nuovi Senatori a vita e che, tra di loro, avrebbe voluto ci fosse una scienziata, ancora attiva, dentro e fuori dal laboratorio. E che aveva pensato al mio nome. Mi chiese quindi cosa ne pensassi e poi si fermò.
Rimasi senza parole, e chi mi conosce sa quanto sia difficile ‘silenziarmi’. Per molti, molti minuti non riuscii a rispondere, tanto che il Presidente mi scosse leggermente, addirittura mi chiese, come in uno sceneggiato d’epoca, se gradissi “un cordiale”. Quella domanda gentile mi bastò a riprendere conoscenza e a esprimere il timore che una scelta del genere mi avrebbe costretto ad abbandonare il laboratorio, i malati di Huntington, le ricerche sul gene antico che causa la malattia a cui da sempre dedico la mia vita, l’attività scientifica che tanto amo. Ma le sue parole centrarono il punto e dissolsero la mia ansia: “l’ultima cosa che voglio – mi disse – è togliere una risorsa alla ricerca. Le sto chiedendo di continuare a essere uno scienziato attivo dentro e fuori il laboratorio, le offro la possibilità di farlo potendo intervenire e contribuire ai lavori del Senato della Repubblica”.
La decisione si materializzò istantaneamente, anche se non avevo alcuna consapevolezza di come si sarebbe attuata. Sapevo solo che si sarebbe tradotta in un impegno serio, una responsabilità cui rispondere ogni giorno. Così è stato: sono in Senato ogni settimana, dove ho costruito un gruppo di collaboratori con i quali studiare e individuare le situazioni o gli argomenti su cui impegnarmi per poi identificare passi e azioni, da spiegare sempre pubblicamente. Da allora cerco ogni giorno, con la mia attività scientifica e politica, di corrispondere degnamente all’onore che ha rappresentato per me questa nomina.

D’altra parte veniva catapultata nell’agone del politichese dove si gareggia sempre… e forse si ricerca poco

Entrando in Parlamento, da persona le cui competenze hanno molto più a che fare con la scienza che con la politica, mi sono stupita di come spesso, nel processo decisionale, si prescindesse dai dati e dalle prove che pure sono disponibili, grazie al metodo scientifico, scegliendo invece di privilegiare opinioni, sensazioni, paure (molte delle quali infondate) pur di non intaccare il consenso a breve termine. Ma decisioni di policy prese senza tener conto dei fatti, per timore dell’impopolarità, portano inevitabilmente una società a stare peggio nel lungo termine, in tutti gli ambiti. Il costo, spesso immenso, delle decisioni sbagliate e dei “deragliamenti” della politica dalla scienza non sono immediatamente evidenti. Le conseguenze negative possono anche manifestarsi dopo molto tempo. Servono quindi strategie a lungo termine, che partano dall’analisi della realtà e dalle migliori conoscenze di volta in volta disponibili per immaginare un futuro migliore e lavorare per realizzarlo. Parlo del campo della ricerca, perché lo conosco meglio, ma sono convinta che valga per tutti i settori, dall’agricoltura all’industria alla cultura, scientifica e umanistica. Nel Regno Unito, dal 1964 vige la tradizione di affiancare al primo ministro un consigliere scientifico (science advisor), vale a dire un esperto di riferimento a cui rivolgersi in tutti i casi in cui il governo è chiamato a prendere una posizione su questioni legate alla scienza e all’innovazione. Una sorta di ‘braccio destro scientifico’ che, ad oggi, è previsto anche per ogni ministero. In Italia non si è mai realizzato nulla di simile, sebbene esistano autorevoli organi di consulenza tecnici e/o scientifici come ad esempio, in materia di sanità pubblica, l’Istituto Superiore di Sanità e il Consiglio superiore di sanità.
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La politica è sempre stata considerata l’arte del possibile -a partire da Otto von Bismarck- ma per altri anche dell’impossibile. Lei ha più volte dichiarato che la ricerca scientifica deve fare in modo da rendere possibili cose che oggi ci appaiono come impossibili. Scienza e politica (anche scienza politica) i princìpi metodologici possono essere assimilabili? Oppure la prospettiva teleologica risulta essere profondamente diversa?

Il metodo scientifico mi ha affascinata e continua ad affascinarmi perché è un insieme riproducibile di procedure e di esperimenti che consente di costruire ipotesi e verificarne la validità per poi spostare via via in avanti la ‘frontiera della conoscenza’. Solo così, valutando a ogni passo la solidità e l’aderenza alla realtà di quanto si sta facendo, i progressi compiuti possono essere considerati stabili e condivisibili. Ma il metodo è anche etica: l’etica del ricercatore, affermava Jacques Monod, si basa su un impegno tacito, ma non negoziabile, ad essere sinceri, a dire come stanno le cose, a riportare i fatti, a mettere in atto ogni comportamento affinché si aprano spazi di libertà che permettano ad ogni idea razionale di essere messa a confronto con le altre e valutata.
L’immensa libertà che ci viene concessa nell’indagare l’ignoto in nome della conoscenza va controbilanciata con una responsabilità altrettanto grande, cioè quella di dire la verità sulle nostre scoperte, e di ammettere i fallimenti, quando la strada scelta si rivela sbagliata. Non è soltanto l’amore per il mio lavoro che mi ha impedito di lasciare il laboratorio dopo la nomina a senatrice a vita, ma anche la convinzione che la continua pratica del metodo e dei valori scientifici, l’abitudine all’oggettività, avrebbe probabilmente reso migliore il mio apporto al Paese come senatrice. Del resto, si parla spesso, soprattutto nei Paesi anglosassoni, di “evidence-based policy making”, ovvero di elaborare le politiche pubbliche basandosi su dati e prove ottenuti grazie al metodo scientifico che, lungi dall’essere perfetto, è però l’antidoto più efficace che siamo riusciti fino ad oggi a inventare e perfezionare rispetto ai nostri pregiudizi, i cosiddetti bias, e limiti cognitivi. Uno dei bias più frequenti – e, soprattutto nell’ambito della decisione pubblica, pericolosi – è quello detto “di conferma”: una volta che ci siamo convinti profondamente di una cosa, è molto difficile cambiare idea. Se anche milioni e “chili” di prove dimostrassero che quella convinzione non è valida, preferiamo purtroppo sempre continuare a crederci, per evitare di affrontare il disagio conseguente alla consapevolezza e all’ammissione di avere sbagliato. Applicare il metodo scientifico insegna proprio a superare questi limiti, ad affrontare a viso aperto fallimenti ed errori: nell’attività di ricerca capita di innamorarsi di un’idea, di trasformarla con fatica in un progetto strutturato, di impegnarsi anima, mente e corpo su quel progetto per mesi, per anni, realizzando esperimenti su esperimenti, e poi alla fine ci si accorge che quella strada era sbag liata, che quell’idea non regge al confronto con la realtà. È inevitabile concludere di aver fatto un errore e di dover ricominciare da capo.
Eppure (anche se, certo, siamo umani e un momento di sconforto è inevitabile) nella scienza non c’è spazio per la frustrazione: magari il percorso condotto fin lì, pur non essendo servito a dimostrare la nostra idea, avrà aperto nuovi spunti interessanti da indagare; o può darsi che, tra due, dieci o vent’anni, nuove ipotesi razionali renderanno possibile dimostrare la validità di quell’idea ; oppure il lavoro fatto avrà offerto occasione di venire in contatto con colleghi che ci inviteranno a sviluppare qualcosa di nuovo insieme a loro; oppure ancora, semplicemente, il fallimento ci avrà resi consapevoli dei limiti del nostro progetto, e allora lo ripenseremo, in modo da superare quei limiti. Praticare il metodo ci insegna a non fermarci mai, perché le strade da esplorare nell’avventura della conoscenza sono infinite, e non sappiamo a priori dove ci porteranno, ma ci ricorda anche che di ogni passo che facciamo siamo responsabili, nel senso di poter essere chiamati a risponderne in ogni momento. Il metodo scientifico è la ‘bussola’ che tutti noi abbiamo a disposizione per non smarrirci nei nostri bias e mantenerci sempre in equilibrio tra libertà e responsabilità, tra innovazione e consapevolezza del passato.
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La scienza non può essere democratica. L’applicazione del metodo scientifico nell’ambito della cura, della salute e della ricerca non ammette deviazioni. Ma, grazie anche alle nuove forme di comunicazione, social in particolare, molti cittadini rivendicano il diritto alla libertà di pensare che per esempio che la terra è piatta, che i vaccini sono pericolosi e così via…

La scienza e la libertà di scelta di ogni individuo. Impossibile discutere di libertà di scelta se non si tiene conto dei molti bias, appena richiamati, della mente umana. Come scrive Telmo Pievani in “Imperfezione”, bisogna studiare per comprendere a fondo l’imperfezione – appunto – della mente umana, una macchina straordinaria ma tarata per un contesto di pura sopravvivenza che non corrisponde a quello attuale. I processi che si sviluppano nel nostro cervello, per molti versi, restano identici a quelli dei primi uomini, che vivevano in caverne e praterie, e che, se volevano arrivare sani e salvi al giorno dopo, dovevano mangiare a sazietà ogni volta che trovavano cibo perché non sapevano quando avrebbero avuto di nuovo l’occasione di un buon pasto; dovevano fuggire ogni volta che vedevano un cespuglio muoversi, senza perdere tempo ad accertarne le cause, perché dietro ci poteva essere un animale feroce pronto a divorarli; dovevano temere e combattere chi non aveva le loro stesse sembianze, perché i rapporti fra clan e tribù rivali erano regolati dalla forza e non dalla diplomazia. Il contesto, oggi, è cambiato completamente. Negli ultimi cento anni l’aspettativa di vita è più che raddoppiata, grazie alle conquiste scientifiche nei campi della medicina e dell’agricoltura: conquiste che sono arrivate anche a prezzo di errori e ripensamenti, ma i cui benefici sono sotto gli occhi di tutti. Siamo stati capaci di costruire società inclusive, di toglierci dai pericoli dello stato di natura, facendo passi da gigante, sempre più grandi e veloci, grazie alla conoscenza. Quegli impulsi primitivi, però, sono ancora ‘scritti’ dentro di noi, e scattano ogni volta che agiamo senza riflettere, o che qualcuno, più consapevole di noi sa come sfruttarli e mette in atto delle strategie per manipolarci. Sul web e sui social network, dove si usa un linguaggio semplice e le comunicazioni sono estremamente rapide, il rischio è proprio di cadere vittime di istinti e impulsività. Vista la facilità con cui si possono trovare notizie si può cadere nell’errore di pensare che leggere un tweet di poche battute sia sufficiente per farsi un’opinione o per sentirsi esperti di una materia.
La conoscenza invece richiede tempo, approfondimento, studio. Con questo non voglio “bocciare” social e blog. Questi nuovi mezzi di comunicazione negli ultimi anni hanno infatti permesso di diffondere in modo capillare anche saperi, dati scientifici e scoperte che altrimenti non avrebbero raggiunto una platea molto ampia. L’importante è riuscire a filtrare i risultati dei motori di ricerca e selezionare le fonti dei messaggi rivolgendosi solo a quelle accreditate: si tratta di accompagnare al salto tecnologico un senso di cittadinanza e consapevolezza digitale tutto da costruire e alimentare.
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E ancora, come la scienza può supportare le scelte politiche e le conseguenze di una politica che decide per tutti senza considerare quanto la ricerca scientifica accerta?

Come studiosi, nei confronti della società in cui viviamo abbiamo il diritto-dovere di informarci sull’agenda politica ed esprimere pubblicamente il nostro dissenso rispetto a decisioni prese senza tener conto di dati e prove scientificamente validi. Spesso mi pare che tra membri della comunità scientifica non si riesca a “fare squadra” per agire in maniera coordinata nei confronti del decisore politico e sulle semplici regole dell’accertamento dei fatti: sarebbe invece importante che ogni ricercatore mettesse a disposizione dei nostri rappresentanti in Parlamento le conoscenze che ricava dalla sua quotidianità fatta di studio e di esperimenti, uscendo dalla logica degli “addetti ai lavori” per onorare il nostro ruolo pubblico di scienziati. Guardando al passato recente del nostro Paese, la possibilità di contare su esperti pronti a consigliare e indirizzare il governo verso scelte scientificamente valide avrebbe evitato diversi pericolosi deragliamenti.
Mi riferisco al caso Stamina, all’epidemia di Xylella che dalla Puglia si sta diffondendo sempre più a nord perché le misure suggerite dalla scienza sono state disapplicate per troppo tempo, alle assurde discussioni ascoltate in Parlamento in tema di vaccini o di organismi geneticamente modificati, agli irrazionali divieti italiani alla derivazione di staminali embrionali per fini di ricerca o, ancora, alle immotivate limitazioni della legge sulla sperimentazione animale (con tardive proroghe) che sono valse l’avvio di una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea. Ma ci sarebbero tanti altri casi di cui parlare.
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A proposito di Pubblico, periodicamente sale alla ribalta della cronaca la grande questione del finanziamento alla ricerca. Recentemente lei ha sollevato qualche obiezione a proposito della Fondazione Human Technopole, il nuovo istituto italiano di ricerca per le Scienze della Vita. in particolare in relazione proprio alle risorse economiche pubbliche destinate alla Fondazione per le quali lei sta sostenendo un’iniziativa parlamentare. A partire da questo caso, qual è la situazione e come potrebbe essere migliorata garantendo alla ricerca scientifica le risorse necessarie. E, infine, cosa accade negli altri paesi europei?

Quando la politica promuove la ricerca, deve tener presente che esiste “una scienza per fare scienza” e rispettare il metodo delle migliori pratiche internazionali per garantire che la selezione delle idee avvenga con criteri certi, trasparenti e competitivi, con massima libertà di accesso per chiunque abbia ipotesi razionali da proporre. Lo Human Technopole sconta il “peccato originale”’ di essere nato senza competizione, da una urgenza politica avulsa da una pianificazione scientifica. La scelta politica di scommettere sul post Expo, per realizzare una nuova “casa della scienza”, era legittima di per sé, ma è stata irragionevole e arbitraria nel momento in cui non c’è stato interesse a verificare quel che sarebbe stato utile e necessario mettere in quella nuova casa della scienza, per il sistema della ricerca e per il Paese. La conseguenza di quella scelta, ormai chiara a molti, è che il progetto cui si sta dando seguito oggi, sebbene migliorato nella sua struttura dal governo Gentiloni, non è stato pensato per rispondere ad una analisi dei bisogni della ricerca e delle innovazioni necessarie al Paese. Va sempre tenuto presente che i cittadini sono i committenti degli investimenti in ricerca pubblica, e come tali hanno diritto a vedere assegnare i fondi con procedure trasparenti, competitive, aperte, studiate per minimizzare e possibilmente eliminare l’impatto di eventuali conflitti di interesse sulla valutazione e per evitare privilegi per alcuni studiosi e discriminazioni nei confronti di altri. Nel momento in cui rispondo a questa domanda, è stato da poco approvato all’unanimità in Commissione bilancio al Senato un emendamento a mia prima firma, sottoscritto anche da altri due Senatori a vita, Carlo Rubbia e Liliana Segre, insieme ad oltre 50 colleghi senatori tra maggioranza e opposizione, volto a far sì che una quota maggioritaria dei 140 milioni/anno che lo Stato italiano assegna ad HT ogni anno, per sempre e senza competizione, sia vincolata alla costruzione e all’uso aperto dei laboratori di ricerca dotati di tecnologie all’avanguardia di cui la Fondazione si doterà affinché possano accedere per diritto, su base competitiva, i ricercatori e le idee di Università, IRCCS ed enti di ricerca pubblici di tutta Italia. In questo modo, studiosi provenienti da Messina, da Bergamo, da Cagliari, da tutti i centri di eccellenza diffusa del nostro Paese potranno competere per realizzare la parte tecnologica dei loro progetti presso le facilities di Human Technopole. Il lavoro svolto è stato ispirato, ampliando la visuale al contesto europeo, anche dall’esempio dello Science for Life Laboratory svedese: un centro nazionale per le scienze della vita, nato nel 2010 in collaborazione tra quattro università (Karolinska Institutet, KTH Royal Institute of Technology, Università di Stoccolma e Università di Uppsala), voluto e finanziato dal governo per rispondere alle necessità della ricerca nazionale, con 40 facilities a cui chiunque nel Paese abbia un’idea approvata e un progetto da sviluppare può accedere. Nel caso di HT, è indispensabile che risorse come ad esempio strutture di imaging molecolari, macchine di intelligenza artificiale, modelli di studio della genomica e strumenti, ma anche centri di calcolo per bioinformatica siano concentrate e non disperse sul territorio, e disponibili a tutti i ricercatori sulla base di circostanziati progetti di ricerca. Il rischio concreto che questo emendamento scongiura è che Human Technopole si strutturi come centro di ricerca a sé, non integrato con il resto del sistema-Paese, dotato di un flusso di risorse pubbliche abnorme rispetto agli altri assegnate senza merito e senza competizione: basti pensare che, mentre HT, qualunque cosa accada, ogni anno, per sempre e senza competizione riceve 140 milioni dalle casse dello Stato, allo stesso tempo i 51 ospedali di ricerca italiani (IRCCS – Istituti di ricovero, ricerca e cura a carattere scientifico) messi insieme si dividono, competendo tra loro, 159 milioni per i loro progetti. Nel triennio 2015-2017, i bandi PRIN, volti a finanziare la ricerca di base italiana in tutte le discipline, umanistiche e scientifiche, hanno avuto una dotazione complessiva di appena 90 milioni di euro, da ripartire su tre anni. In questo quadro di incertezza di risorse e sotto finanziamento, bene ha fatto il presidente Conte, inaugurando la sede di Human Technopole, a sottolineare la necessità che le infrastrutture della Fondazione siano sistematicamente aperte al resto della ricerca pubblica del Paese e che le risorse stanziate dallo Stato in HT siano garantite da bandi competitivi. La legge di Bilancio 2020, con il voto del Parlamento, ribadirà – attraverso l’intervento su HT –il principio in base al quale le risorse pubbliche per la ricerca debbano essere assegnate per via competitiva.
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Ai finanziamenti pubblici, pochi o tanti che siano, si aggiungono anche quelli privati, di aziende che in alcuni casi hanno forti motivi d’interesse sui risultati della ricerca stessa. Una sorta di conflitto d’interesse che inevitabilmente richiama da un lato il tema dell’etica del ricercatore e dall’altro la trasparenza e la diffusione dei risultati della ricerca verso i cittadini. Qual è la sua visione?

L’etica della scienza, rigorosamente applicata, non ammette scorciatoie. È necessario scegliere da che parte stare e poi mantenere la propria coerenza nello spiegare le conseguenze di tale scelta e le responsabilità che essa comporta. Se ci si fa guidare da questo principio, non esistono compromessi: si può collaborare col pubblico, col privato (che spesso porta esperienze e competenze meno presenti, quando non assenti, nel pubblico – basti pensare agli aspetti di registrazione dei farmaci) o con entrambi, purché siano chiari i possibili conflitti d’interesse e ci si impegni a riportare la realtà dei fatti così come li si scopre e li si accerta con il metodo scientifico. È il ricercatore stesso che, dopo mesi, anni d’impegno su un progetto, di fatica fisica e mentale ininterrotta, accetta di sottoporne i risultati a quelli che in laboratorio chiamiamo “esperimenti killer”, in cui si prova in ogni modo a distruggere quanto raggiunto. Soltanto se un risultato sopravvive a tale verifica si procede con le fasi successive, e soltanto se la comunità dei pari lo valuta nel complesso positivamente viene pubblicato. E poco importa che sia stato ottenuto con collaborazioni private o pubbliche. È al dato finale che bisogna guardare. A quel punto, tutti coloro che conoscono e applicano il metodo sono liberi di giudicarlo e provare a riprodurlo, e la comunità scientifica nel suo complesso ne valuta anche l’aderenza alle regole etiche vigenti. È la comunità scientifica il primo (anche se non l’unico) controllore dell’eticità del lavoro dei singoli scienziati e della loro capacità di rendere conto ai cittadini di quanto realizzano e del perché compiano certe scelte. Si tratta di milioni di occhi competenti e specializzati che scrutano, analizzano, replicano o smentiscono, guardando da ogni parte del mondo, osservando e dissezionando ogni dato che il metodo della scienza, affinché si possa chiamare “scienza”, obbliga a pubblicare e quindi consentendo a chiunque di verificarne o contestarne, con altrettante prove, la solidità. Sono occhi e menti implacabili, il cui consenso passerà sempre e solo attraverso un dato che si rivelerà sempre più solido a valle dalla sperimentazione di altri.
Si può e si deve declinare l’etica in ogni aspetto della nostra attività scientifica: da quelli ‘interni alla professione’ – la cosiddetta ‘integrità della ricerca’, ma anche aspetti del lavoro del ricercatore come la sperimentazione animale o quella sulle staminali embrionali – a quelli, importantissimi, che potremmo definire ‘esterni alla professione’, di responsabilità verso i decisori pubblici e soprattutto verso i cittadini nel cui nome e interesse l’attività di ricerca è in ultima analisi condotta. Su queste direttrici etiche ‘interne ed esterne’ dobbiamo fare affidamento come comunità scientifica. Solo in questo modo si potrà conservare quello spazio di libertà proprio dell’attività scientifica che ciclicamente viene ad essere minacciato da leggi e politiche volte a comprimerne i sempre nuovi orizzonti.
Esistono comunque molti casi in cui la collaborazione tra il mondo della ricerca e le aziende farmaceutiche è stata decisiva per raggiungere risultati terapeutici eccezionali. Penso – rispetto al campo biomedico che meglio conosco per ragioni di ricerca – allo Spinraza, un farmaco basato sul silenziamento genico prodotto da IONIS Pharmaceuticals, utile al trattamento dell’atrofia muscolare spinale (SMA), una malattia congenita che impedisce al corpo di muoversi, essendo causata dalla ridotta produzione della proteina necessaria ai motoneuroni che garantiscono al corpo posizione eretta e attività motorie. Spinraza, somministrato a bambini affetti da SMA a seguito di una diagnosi precoce e tempestiva, ha consentito ad alcuni di loro di reggersi in piedi, imparare a camminare e in qualche caso addirittura andare in bicicletta. Sono stati necessari 30 anni di ricerca prima di giungere a questi risultati senza precedenti. Ma penso anche all’università di Modena e Reggio Emilia, dove Michele De Luca e Graziella Pellegrini, tra i più importanti staminologi a livello mondiale, con la collaborazione della Chiesi Farmaceutici sono riusciti a mettere a punto il primo farmaco approvato al mondo a base di cellule staminali.

Lei si è sempre battuta contro quella che ha definito “insensata paura” per gli Ogm da parte del decisore politico. A che punto è la ricerca pubblica italiana, un tempo, mi risulta, tra le più avanzate al mondo?

Partiamo da un presupposto: la storia dell’agricoltura è fin dal suo inizio una storia di modifiche che l’uomo ha cercato (in molti casi con successo, altrimenti oggi non saremmo qui) di indurre sull’ambiente e sulle varietà coltivate. Le spighette striminzite del teosinte, l’antenato del moderno mais, non hanno nulla a che vedere con le pannocchie che vediamo oggi nei campi e che fanno parte delle cinque principali commodities che alimentano il mondo; le prime varietà di pomodoro e melanzana erano bacche minuscole e tossiche. Da sempre i coltivatori tentano, con le tecnologie e le conoscenze a disposizione, incrociando varietà ed esemplari con diverse caratteristiche, di ottenere colture più produttive e più resistenti a parassiti e condizioni di campo avverse.
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È in questo spirito che, nelle nostre università ed enti di ricerca pubblici, molti ricercatori conducono progetti di ricerca all’avanguardia sul miglioramento genetico di diverse colture tipiche della nostra tradizione: penso a Vittoria Brambilla dell’Università di Milano che studia i risi Arborio e Vialone nano, ma anche ad altri progetti sul pomodoro San Marzano e su alcune varietà di vite resistenti alle principali malattie. In realtà, in Italia fare studi con finalità non commerciali su varietà vegetali geneticamente migliorate che rientrano nella definizione di “organismi geneticamente modificati” non è vietato ‘di diritto’, ma sperimentare le varietà ottenute in campo aperto viene reso di fatto impossibile per via burocratica: non sono mai stati adottati i protocolli, né individuati i siti necessari. Sarebbe invece utile poter osservare, seguendo regole e protocolli di sicurezza vigenti nei Paesi dove tali sperimentazioni sono permesse ed effettuate, come si comportano queste varietà in condizioni di campo, per identificarne con più precisione i punti di forza e gli eventuali aspetti problematici, che, con ulteriori ricerche, si potrebbero controllare e risolvere. La conoscenza più dettagliata e approfondita dei risultati della ricerca può aiutare a dissipare le paure che in questi vent’anni sono state instillate nei cittadini da organizzazioni che fanno del “marketing della paura” il loro principale punto di forza per ottenere autorevolezza e finanziamenti. Gli studiosi stessi oggi rinunciano a presentare richieste di sperimentazione, sapendo che, come nel caso del professor Eddo Rugini dell’università della Tuscia, le colture cui hanno dedicato tempo, fatica, lavoro, anni di ricerca possono finire “in fumo”, letteralmente, bruciate (erano alberi da frutto) per la mancata proroga delle autorizzazioni faticosamente concesse.
Oggi le nuove biotecnologie, penso in primo luogo al tecnologia Crispr Cas9, rendono possibile una precisione d’intervento impensabile fino a nemmeno un decennio fa, ma noi scontiamo ancora l’irresponsabilità di aver assecondato una narrazione ‘terroristica’ rispetto alla ricerca sul miglioramento genetico delle varietà vegetali, per cui tutto ciò che viene associato alle modifiche genetiche ha assunto una connotazione negativa a prescindere. È, a mio avviso, una grave responsabilità della politica, che nel tempo ha preferito assecondare paure basate su percezioni errate piuttosto che legiferare basandosi sui dati e sulle prove disponibili.
Ma il paradosso principale è che le varietà di cui è impedita la sperimentazione sul territorio italiano, anche a fini non commerciali, si possono poi liberamente importare come mangimi per il bestiame da cui si producono formaggi e prosciutti che rappresentano le eccellenze del Made in Italy. E, senza quelle importazioni, la filiera non sopravvivrebbe. I nostri maiscoltori sono attualmente sull’orlo del baratro perché una percentuale del nostro mais che in alcune annate arriva anche al 40%, è inutilizzabile, anche per l’alimentazione animale, in quanto infestato da fumonisine, possibile causa di tumori e di sicuro inibitrici dell’assorbimento di acido folico. Tale malassorbimento può causare, in gravidanza, malformazioni del feto che vanno dal labbro leporino alla spina bifida. Ebbene, esiste una varietà di mais geneticamente migliorata per resistere alle fumonisine, chiamata BT, che una metanalisi dell’Università di Pisa nel 2018 ha ribadito essere sicura per l’uomo e l’ambiente, ma che per gli imprenditori agricoli italiani resta un “sogno proibito”. Anche per il mais BT, come per tutti gli altri organismi geneticamente migliorati, vige infatti nel nostro Paese il divieto di coltivazione a scopi commerciali, non supportato da alcuna evidenza scientifica, ma solo da una volontà, ribadita spesso anche esplicitamente da esponenti di molte forze politiche, di assecondare le narrazioni del, già richiamato, “marketing della paura”. È così che ogni anno i produttori della filiera del Made in Italy spendono, per importare mais (e soia) ogm dall’estero, milioni di euro che, se cadesse questo divieto, potrebbero andare a imprenditori italiani. Altro paradosso: la chiusura ideologica alle varietà geneticamente migliorate che impedisce non solo la coltivazione per il commercio, ma anche la sperimentazione a fini di ricerca scientifica, fa sì che il monopolio di tale ricerca resti nelle mani delle grandi aziende multinazionali, che hanno i mezzi economici e tecnologici per operare nei Paesi con una legislazione più aperta, ma, per ragioni finanziarie, si concentrano su pochi grandi progetti più redditizi. A perderci è la ricerca pubblica, sono i tanti bravi studiosi nei tanti eccellenti laboratori diffusi su tutto il nostro territorio, che non vedono prospettive per i loro progetti volti a recuperare e migliorare varietà antiche della nostra tradizione agroalimentare; noi tutti perdiamo l’occasione di accrescere la biodiversità in agricoltura e la varietà sulle nostre tavole. Credo che, in questo come in altri campi, si debba tornare a separare con chiarezza i fatti, i dati e le prove, accessibili e verificabili da chiunque, dalle opinioni che, per quanto in sé legittime, possono creare danni a volte irreparabili se confuse con i dati di realtà.

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