Alessandro Vespignani

Direttore del Network Science Institute e professore presso la Northeastern University
16 Settembre 2020 |
Gianmarco Nebbiai

“Sono sei mesi che stiamo facendo il servizio militare” inizia così, scherzando sulla densità di impegni di chi affronta in ogni Paese il Covid-19, questa intervista con Alessandro Vespignani, professore di Fisica, Informatica e scienze della salute alla Northeastern University di Boston, dove dirige anche il Network Science Institute, uno dei massimi esperti mondiali di epidemiologia computazionale.
Con il suo aiuto cerchiamo di riflettere sull’importanza che i dati, hanno avuto nell’analisi e nella possibilità di prevedere gli sviluppi di questa Pandemia e, quindi, quanto siano importanti di fronte alla necessità di assumere scelte di fronte all’emergenza.

Professore, non possiamo non iniziare chiedendole una valutazione sull’andamento dell’epidemia in Italia e una previsione sulla sua evoluzione? (ci troviamo a fine giugno al momento dell’intervista ndr)
“L’italia, per quello che abbiamo visto a giugno è entrata in una fase ‘virtuosa’. Il numero di casi è stato abbattuto.
Ora è più semplice concentrarsi su tutti gli aspetti fondamentali come testing, tracciamento, l’isolamento dei focolai.
Questo aiuta a far scendere ulteriormente il numero di casi e innesca, appunto, un ciclo virtuoso che al momento consente, con un intenso lavoro degli operatori sanitari, di tenere l’epidemia sotto controllo.

In questi giorni credo sia importante congratularsi con tutti. È stato fatto un lavoro enorme da medici, infermieri, clinici, virologi, le unità di crisi, su fino alla task force e al governo, nel senso più ampio del sistema politico e di decisione centrale e locale, che hanno dovuto gestire una crisi senza precedenti per la quale, diciamocelo, non esistono i manuali di istruzioni”.

Possiamo dire che l’emergenza è finita?
“Dobbiamo essere molto umili di fronte al virus. Non abbassare la guardia. Bisogna guardare fuori dei confini nazionali e comprendere che questa vicenda ancora non è finita. Solo per restare agli esempi recenti: la Germania ci insegna che ci si può svegliare con un evento di super diffusione tra le fabbriche di macellazione; altri Paesi ci hanno dimostrato di non essere stati in grado di tenere sotto controllo una seconda ondata come l’Iran.
Pensiamo a quanto sia difficile la gestione della situazione negli Stati Uniti.
Bisogna tenere conto della situazione internazionale. Questa è una pandemia, non possiamo limitarci ad analizzare solo quanto accade nel nostro Paese. Non è un problema nato in Italia, è giunto da fuori e, allo stesso modo, può tornare in molti modi.

Dobbiamo abituarci ad agire sul nostro territorio ma guardando a cosa succede nel mondo?
“Sì è un aspetto fondamentale per due motivi: serve alla comprensione epidemiologica ma anche sul piano della ripresa economica.
Se esistono polmoni di popolazione di miliardi di persone che si trovano in enorme difficoltà, come in India o in Pakistan o, ancora, in sud america, pensare a una ripresa globale risulta difficile”.

Veniamo al ruolo dei dati in questo scenario, che cosa è l’epidemiologia computazionale e come si integra con le altre branche di questa scienza?
“È una forma di epidemiologia che poggia sui dati e le tecnologie informatiche per acquisire capacità di comprensione sulla traiettoria epidemiologica di un evento, come il Covid. Se vogliamo fare un paragone immediatamente comprensibile, questa disciplina è una sorta di meteorologia dell’epidemia. Si integrano grandi masse di dati: sulla popolazione, sul metodo di trasmissione della malattia ma anche sui trasporti, la mobilità e altro per acquisire, appunto, capacità di intelligence.

Cosa si intende con intelligence?
“In primo luogo si genera consapevolezza situazionale. Facciamo un esempio: l’Oms segnala, il 10 gennaio, che risulta un cluster atipico di polmoniti in Cina; non è ancora noto quanti siano e non si conoscono ancora con certezza i meccanismi di trasmissione. Il primo aspetto è cercare di capire cosa sta succedendo. In questo caso ci si interroga sulla dimensione del problema. È molto probabile che non possono essere soltanto i venti casi che vengono dichiarati in quel momento. In questo caso quello che si fa è guardare se e quanti casi vengono identificati all’estero, importati attraverso la rete di trasporto internazionale, avendo la possibilità di conoscere tutti i voli provenienti dalla Cina. Partendo da questi dati si possono compiere dei calcoli che permettono una stima di quanto può essere estesa l’epidemia. Posso dire che il 17 gennaio, avevamo già stimato che a Wuhan dovessero esserci almeno tra 1.000 e 10.000 casi mentre, ancora, i casi accertati erano solo 45”.


L’epidemiologia computazionale poggia sui dati e le tecnologie informatiche per acquisire capacità di comprensione sulla traiettoria epidemiologica di un evento come il Covid. Se vogliamo fare un paragone immediatamente comprensibile, questa disciplina è una sorta di meteorologia dell’epidemia. Si integrano grandi masse di dati: sulla popolazione, sul metodo di trasmissione della malattia ma anche sui trasporti, la mobilità e altro per acquisire capacità di intelligence.

Avete ragionato anche sui flussi del traffico aereo per capire quanto potesse essere diffuso il contagio?
“Sì è un aspetto rilevante dell’epidemiologia computazionale di cui vale la pena parlare. Si usano dati nuovi rispetto all’approccio epidemiologico consueto.
Ad esempio, per lo studio di questa pandemia è stato molto importante capire quale impatto ha la mobilità delle persone. I dati sulla telefonia mobile e di altri tipi di device personali permettono di creare delle mappe molto dettagliate di quanto e come la popolazione si muove, o converge in certi luoghi, in certi orari.
Da qui è possibile ricavare stime importanti anche sul rischio epidemiologico o quali sono le leve su cui si può agire per limitarlo.
Andando oltre, si va verso l’impiego dell’intelligenza artificiale e di dati sempre più diversificati e non aggregati: come le ricerche su internet. Negli Stati Uniti, si utilizzano i dati che provengono dalla prenotazione dei ristoranti per capire se la popolazione sta tornando alla normalità o meno. Sono fonti ed elementi diversi che aiutano a creare una ‘tomografia della società’ che possiamo usare per capire cosa sta succedendo su un andamento epidemiologico e quali potrebbero essere le sue evoluzioni.
Io lo ricordo sempre, nella guerra ad una epidemia, il nostro non è un lavoro di prima linea; quello lo svolgono gli infermieri e i medici. Quello che cerchiamo di fare noi è offrire degli strumenti per anticipare le mosse del nemico”.

Che possibilità esistono di creare scenari realistici sulla diffusione del virus?
“In termini chiari, possiamo porci domande e fare ipotesi come: dove arriverà l’epidemia? se arriva da noi cosa possiamo fare? sulla base dei dati è possibile creare uno scenario di valutazione del rischio, anche in relazione alla possibilità di prendere diverse misure di contenimento: se non si fa nulla; se si chiudono le scuole e le attività produttive; se si limitano gli spostamenti.
Da queste ipotesi scaturisce quello che possiamo chiamare un portafoglio di possibili futuri, su cui si ragiona e si possono definire le politiche d’azione.
È un’attività molto importante in fase iniziale, intanto per capire se è necessario fare qualcosa.
Faccio un esempio: anche nel 2009 abbiamo avuto una pandemia influenzale ma la maggior parte delle persone quasi neanche lo ricorda perché, in effetti, nessun Paese prese iniziative analoghe a quelle di oggi. Questo avvenne perché alla luce dell’analisi dei rischi del tempo, anche lo scenario senza interventi, faceva ipotizzare un andamento simile a quello di una stagione influenzale. Nel caso attuale, uno dei contributi dell’epidemiologia computazionale è stato quello di rilevare per tempo che c’erano enormi rischi che il sistema sanitario potesse saltare sotto la pressione dell’epidemia”.

Perché abbiamo visto adottare strategie diverse nella gestione di questa crisi?
“Perché nessun modello matematico, nessun epidemiologo, può dire: questa è la strategia giusta. Quello che si deve fare è fornire ai decisori è una serie di strategie, una serie di livelli di rischio, con una serie di incertezze chiaramente espresse. Gli scenari sono una cosa diversa dalle previsioni; a questo livello ci si basa anche su assunzioni, incertezze, conoscenze limitate della malattia ad un dato momento. Soprattutto si assumono delle capacità logistiche e di intervento che vanno valutate a seconda delle risorse e dell’economia di ogni paese”.

Invece, che affidabilità hanno le previsioni in questo campo?
“Sono qualcosa di analogo a quello che vediamo in televisione con il meteo. Si usano diversi modelli e si cerca un consenso tra di essi sull’andamento del fenomeno; le differenze che restano sono quelle che vanno a costituire il cono di incertezza su quanto previsto.
È chiaro che in questo caso l’orizzonte temporale non può essere di lungo termine, si parla di settimane. Le previsioni sono destinate ad un uso ‘tattico’. In questo momento stiamo osservando un innalzamento dei casi in alcune zone degli Stati Uniti, possiamo immaginare cosa accadrà nell’arco delle prossime due-quattro settimane al sistema sanitario”.

Alla luce di quanto ci spiega, possiamo dire che molte delle polemiche sul modo di affrontare l’emergenza sono state legate alla valutazione ex post di scenari, piuttosto che di previsioni?
“Certo, all’inizio hanno riguardato soprattutto gli scenari, che sono delle ipotesi di lungo termine e soprattutto vengono modificati dalle azioni che si intraprendono nel frattempo. Torniamo al paragone con le previsioni meteo. Non posso modificare il previsto arrivo di un tornado, invece posso agire sulla prevista distruttività di un’epidemia con una serie di azioni che muteranno le probabilità di concretizzazione dello scenario.
Io non ho mai collaborato con il comitato tecnico italiano ma so, per esempio, che hanno elaborato decine e decine di possibili scenari. Non ha senso prenderne in esame uno e criticare il fatto che non si sia avverato. Il governo ne ha considerati alcuni, ha agito di conseguenza e, in quel caso, si sono concretizzate alcune situazioni. Previsioni, scenari e modelli danno un portafoglio di futuri che possiamo cercare di evitare o di raggiungere”.

Possono essere viste in questa luce anche le discussioni sui diversi livelli di lockdown scelti nei diversi paesi?
“C’è stata una grande polarizzazione nell’opinione pubblica e sui media tra i vari modelli di lockdown. In realtà le unità di crisi, in tutti i paesi hanno avuto a disposizione tutte le possibili alternative ipotizzabili dagli epidemiologi. Poi le differenze nelle decisioni sono state prese, giustamente, dai policy maker che normalmente sono politici e devono considerare una mole di altri aspetti, come la gestione economica della crisi o le risorse a disposizione. Ad esempio, quello che per semplificazione è stato chiamato modello svedese e, in realtà, fa riferimento a modelli di lockdown parziali è stato preso in considerazione soprattutto da Paesi in cui ci sono determinate condizioni: popolazioni piccole, grandi risorse di welfare, sistemi sanitari molto omogenei sul territorio. Dove i livelli del sistema sanitario sono eterogenei, dove l’epidemia è partita prima con minore possibilità di intervento, dove la popolazione ha una densità diversa, molti governi hanno scelto di non correre rischi e usare il principio di massima precauzione. A posteriori possiamo dirlo, neanche la stessa Svezia è riuscita a gestire la situazione in modo indolore.”.

Quanto è importante la circolazione delle informazioni e quanto collaborazione c’è stata nella comunità internazionale?
“Mai come in questa occasione, tutti i Paesi hanno avuto accesso a tutte le informazioni disponibili. Il Covid da questo punto di vista ha segnato un cambio di paradigma per tutta la comunità scientifica. L’intercomunicazione tra i vari paesi, lo scambio di dati, il confronto sulle scelte, non ha precedenti. Se lo confrontiamo con quanto successe nel 2002 con la Sars e non c’è paragone.

Anche se non ha usato l’espressione è chiaro che molte delle risposte fornite dal suo campo di ricerca derivano dalla capacità di utilizzare i big data. Dati spesso non direttamente collegati all’ambito sanitario o dell’igiene pubblico. Quanto questi invece possono aiutare nella gestione dei sistemi sanitari di Paesi complessi e fragili come il nostro? Quanto vengono utilizzati?
“Si può fare molto di più. Siamo veramente ancora all’inizio di tutto questo. Quando parliamo di epidemiologia computazionale usata per casi come il Covid, parliamo di qualcosa che ha al massimo 15 anni di storia. Già la Sars fu gestita in un altro modo. Parliamo di un patrimonio di conoscenza, di tecnologie e di strumenti che si stanno consolidando adesso. L’uso dei dati di telefonia mobile per la mappatura e la comprensione della mobilità per sviluppare i modelli di contatto tra le persone e, quindi, ottimizzare il social distancing, è un’idea completamente nuova usata su questa scala.
Più in generale, anche andando oltre la gestione delle crisi, parlando di sanità pubblica c’è sicuramente molto da fare. I sistemi informatici sanitari nella maggior parte dei casi hanno bisogno di essere innovati. Almeno sul piano dell’intercomunicabilità, di standardizzazione e di digitalizzazione del lavoro sul campo. Ovviamente sono tutti aspetti che cambiano di giorno in giorno, viviamo un’accelerazione enorme, eppure ci sono ancora tanti limiti. Se qualcuno si chiede come mai i casi di Covid non siano aggiornati in tempo reale ogni giorno è perché si immagina che ovunque sia normale e possibile alimentare in tempo reale enormi basi dati. Non è così. I processi sono ancora macchinosi e frammentari. Questi flussi di dati seguono percorsi laboriosi e complicati in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. I dati di oggi sono sempre delle approssimazioni su informazioni che riguardano un periodo precedente e sono sempre ‘rumorosi’. L’idea di una digitalizzazione nella quale tutto diviene immediatamente dato, aggregato, utilizzato e velocemente analizzato in sanità ancora non c’è per motivi storici, infrastrutturali, aspetti etici e di privacy. C’è ancora una lunga strada da fare ma l’esperienza vissuta con il Covid credo abbia insegnato molto a tutti su come potrebbe essere più agile ed efficace il sistema di acquisizione dei dati”.


Fare ricerca significa confrontarsi con certi fenomeni, in determinati momenti, con la disponibilitàdi adeguate tecnologie

Anche per questo è più semplice pensare a dati come quelli sulla mobilità per usarli nel campo della salute?
“Sicuramente, intanto per motivi di privacy. Il dato sanitario è un dato complesso da gestire: al centro c’è un paziente e una specifica tipologia clinica, ma riguarda anche tante altre informazioni personali; quindi va gestito con enorme cura.
Invece, il dato sulla mobilità o quelli che provengono dai dispositivi mobili sono già pensati per essere aggregati e utilizzati. Il dato di origine sanitaria o clinica è protetto all’interno di silos informativi per impedire, giustamente, che se ne facciano usi impropri e questo crea rigidità. Dati come quelli sulla mobilità sono stati generati negli ultimi dieci anni e quindi con una visione molto moderna della struttura dati, del sistema di acquisizione, dell’interoperabilità.
Tuttavia, va detto che si stanno facendo grandi passi avanti anche sui sistemi informativi sanitari.
Credo che quello che succederà all’epidemiologia, soprattutto a quella territoriale, nel momento in cui riusciremo a liberare questi dati, riuscendo ad incrociarli con le masse di dati che possiamo acquisire da altre ambiti, tra i quali l’ambiente, porterà ad un enorme passo avanti nella comprensione dell’andamento delle diverse patologie, anche oltre quelle trasmissibili, come l’incidenza dei tumori o delle patologie legate al lavoro”.

Se dovesse azzardare una previsione, tra quanto sarà possibile pensare a una gestione delle strategie sanitarie basata su un approccio data driven e integrato?
“Questo processo è già in moto e sta avvenendo in diversi ambiti ma, bisogna essere onesti, la cautela con la quale si procede spesso è anche giustificata. Sarebbe molto facile cadere nella tentazione di pensare all’affidamento di tutto il processo di gestione unificata dei sistemi informativi sanitari ai grandi attori informatici ma mi sembra evidente che si tratterebbe anche di uno scenario inquietante. Bisogna evolvere ma con grande attenzione. È difficile fare delle previsioni, dipende dalle strutture dei Paesi, dagli investimenti che potranno essere fatti.
Ritengo che molti aspetti nel capo della salute siano già sufficientemente data driven ma la cosa che sta emergendo con il Covid è che per la gestione delle emergenze è molto importante è che il ‘sistema’ sia già pronto quando accadono certi fenomeni.
Per esempio, se uno pensa alle app di tracciamento è evidente che si tratta di strumenti importanti, che sarebbe stato bello avere già pronti senza dover affrontare tutti i dibattiti e i dubbi collegati al tema, nel pieno dell’emergenza”.

Abbiamo anche scoperto quanto siano fragili i sistemi sanitari dei Paesi avanzati
“Certo la fragilità esiste ma vorrei spezzare una lancia a favore di chi sta affrontando la situazione; quello che è accaduto è uno tsunami. Puoi innalzare delle barriere ma può sempre arrivare un’onda più alta. Alcuni paesi hanno delle fragilità evidenti. Per quanto riguarda l’Italia, nonostante il fatto che siamo abituati a sentire quanti problemi abbia la nostra sanità, ha gestito questa crisi meglio di tanti altri Paesi che, sulla carta, avevano strutture sanitarie più efficienti e questo perché quando ‘arriva l’onda’ entrano in gioco tanti altri fattori che riguardano per esempio la flessibilità e la generosità del sistema Paese.
Prima ho parlato di umiltà perché di fronte al Covid dobbiamo anche essere pronti a riflettere, ritracciare, tornare indietro, e capire che occorre trovare una nuova strada. Abbiamo molte evidenze che perseverare su una sola linea strategica può diventare un errore. In questa fase dobbiamo imparare e prepararci per la prossima volta con la consapevolezza che non puoi essere a prova di pandemia.
Certo una cosa che va detta è che tutti i sistemi sanitari occidentali da anni sono tarati al limite della funzionalità. I margini di risorse disponibili dovrebbero essere più ampi e pronti. In Italia è stato fatto molto, penso alla Lombardia: aveva di fronte una situazione inquietante e, aldilà delle polemiche, è riuscita a gestirla. Tornando al dato, anche riuscire a guadagnare qualche giorno nella velocità di acquisizione permette di migliorare la risposta nelle crisi. Cerchiamo di perseguire questo miglioramento”.

Quali filoni tecnologici, legati al mondo della salute, vede con maggiore interesse per il futuro?
“Mi viene da dire che in ambito health sono importanti le stesse cose che contano per gli altri settori dell’amministrazione pubblica e della vita civile. La rivoluzione digitale deve essere cucita intorno ai valori umani. Sembra un concetto vago ma il fatto è che l’accelerazione in ambito tecnologico e informatico è spesso sorprendente. Solo pochi anni fa si parlava ancora di block chain come di una nicchia riservata a ‘pirati informatici’, oggi è utilizzata dalla finanza e dalle amministrazioni pubbliche. Il problema è gestire un cambiamento che è molto rapido cercando di cavalcare la trasformazione nel modo più efficace.
Purtroppo l’evoluzione tecnologica vive di continue disruption che introducono nuovi paradigmi e non è semplice innestarli in settori come la salute, per i vincoli di cui abbiamo già parlato. D’altra parte liberare il dato consente di sviluppare conoscenza, agilità, visione e questo è di grande importanza per lo sviluppo della società. Qualunque Paese abbia voglia tenere il passo della competitività per riuscire a muoversi di fronte alle situazioni di crisi o di stallo deve per forza investire nell’innovazione. L’Italia non può mancare a questa chiamata perché ha grandi forze sia nel campo della ricerca che della tecnologia.
Il Paese spesso si dipinge meno bene di come è in realtà. l’Italia ha delle eccellenze nel mondo dei dati e delle tecnologie di livello mondiale”.
Un’ultima curiosità, in molti hanno sottolineato il suo approdo all’epidemiologia dopo un viaggio lungo, iniziato in un campo apparentemente distante come la fisica, proseguito poi nell’informatica e nello studio di fenomeni sociali. Quanto conta oggi l’approccio multidisciplinare e multiculturale per la comprensione dei fenomeni?
“Fare ricerca significa confrontarsi con certi fenomeni, in determinati momenti, con la disponibilità di adeguate tecnologie. Io arrivai ad occuparmi di virus informatici perché mi occupavo di alcuni aspetti di fisica della materia. A quel tempo, i meccanismi di propagazione dei virus informatici avevano aspetti in comune con quelli reali e così nato un lavoro che mi ha portato verso l’epidemiologia. Ma si tratta di percorsi lunghi e individuali, serve anche una certa dose di fortuna. La mia è stata quella di trovarmi in una giuntura temporale nella quale alcune cose potevano essere finalmente fatte. L’idea di mappare la trasmissione delle epidemie analizzando i flussi del traffico aereo alcuni colleghi l’avevano avuta negli anni ‘80 ma si erano dovuti fermare di fronte al limite della disponibilità dei dati. Quando sono entrato in questo campo mi sono reso conto che le cose erano cambiate, si potevano interrogare database che mappavano il traffico aereo in tempo reale.
In realtà, nel nostro campo molti ricercatori hanno provenienze diverse: dalle scienze informatiche, dalla fisica, dalla statistica.
D’altra parte il concetto di ‘contagio’ è qualcosa di molto più ampio di quanto generalmente si pensa e non sempre è negativo. Esistono tante forme di contagio sociale e sono quelle grazie alle quali si diffondono tra gli esseri umani le idee, i gusti e la conoscenza”.


Gianmarco Nebbiai
Cofondatore e Direttore responsabile di Innovazione.PA. Giornalista e Comunicatore d’impresa, scrive di ICT e del suo impatto sulla società e l’economia dal 1995. Segue tutti i temi legati alla trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione, all’innovazione dei processi e dei servizi a disposizione dei cittadini, con particolare attenzione all’innovazione sociale e al digital health.

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