Cooperazione significa trasformazione

In questa intervista Marco Riccardo Rusconi, Direttore dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, spiega come fare cooperazione significhi mettere in grado il paese partner di poter provvedere da sé ad alcune necessità migliorando le condizioni di vita dei cittadini
4 Ottobre 2024 |
Gianmarco Nebbiai

Ha da poco compiuto dieci anni la Legge 125/2014 relativa alla “Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo”.  Si tratta di una di quelle leggi ‘civili’ nelle quali tutte le forze interessate hanno saputo mettere a frutto le proprie visioni per arrivare a dare un assetto efficace e completo alle politiche italiane di intervento per lo sviluppo.

Le novità introdotte da quella riforma restano attuali a partire dalla definizione di ‘paese-partner’ che esprime quel concetto di collaborazione tra pari, alla base delle progettualità portate avanti oggi del Governo italiano e dall’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo attraverso il Piano Mattei.

Innovazione.PA ne parla insieme a Marco Riccardo Rusconi, Direttore dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, cercando di capire in che modo opera il nostro Paese in questo ambito e quali sfide sta affrontando l’Agenzia insieme alla grande rete dei cooperatori che opera per la riduzione delle grandi disuguaglianze mondiali.

“Sono direttore dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo dallo scorso mese di dicembre e sono giunto a questo incarico dopo aver svolto il ruolo di Direttore dell’Ufficio Africa della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Credo, quindi, che si possa leggere una certa coerenza in questo passaggio dal Ministero, che detta le linee strategiche e le priorità della cooperazione per lo sviluppo, all’Agenzia che in base alla legge istitutiva 125/2014 è incaricata della messa in atto dei progetti di cooperazione e dello sviluppo finanziati con risorse pubbliche del governo italiano e dell’Italia”. 


Come descriverebbe il ruolo dell’Agenzia all’interno del sistema di cooperazione allo sviluppo italiano?

 

“L’Agenzia è uno strumento centrale della cooperazione per lo sviluppo che, come previsto chiaramente dalla legge, è una componente qualificante e integrale della politica estera del Paese.

La legge dice “integrale” perché, se non ci fosse la cooperazione allo sviluppo, alla nostra politica estera difetterebbe una dimensione; e dice “qualificante” perché, se non ci fosse la cooperazione per lo sviluppo, la posizione internazionale del Paese sarebbe anche meno efficace, meno importante e meno qualificata.

L’Agenzia, rispetto a questa linea strategica della nostra politica estera, è l’attore tecnico che appunto disegna, formula, finanzia, esegue e monitora i progetti di cooperazione allo sviluppo”. 

 

La legge 125/2014 che ne definisce i compiti ha da poco compiuto dieci anni, cosa ne pensa? 

 

“È stata una legge importante, approvata a grande maggioranza in Parlamento, con spirito bipartisan e, a fronte di uno scenario complesso, ha consentito di disegnare il sistema di cooperazione italiano basato sul preciso ruolo di tanti attori diversi: innanzitutto il Ministero, l’Agenzia e, fondamentale, una terza gamba rappresentata da Cassa Depositi e Prestiti che, oltre alle altre funzioni ad essa assegnate è deputata anche alla finanza di sviluppo.

Vicino a questi tre attori la legge affianca poi altri protagonisti fondamentali per la realizzazione dei programmi di cooperazione, come le Pubbliche Amministrazioni, gli enti locali, quindi le regioni e i comuni o le università, quindi tutto il mondo legato all’accademia e alla formazione.

Inoltre, parlando sempre di soggetti della Cooperazione, hanno un ruolo attivo e rilevante le Organizzazioni della Società Civile, rappresentate da quelle che il pubblico conosce generalmente come organizzazioni non governative ma anche dal mondo del volontariato, delle fondazioni e delle diaspore insediatesi in Italia, quindi del settore privato, che a determinate condizioni diventa anche esso un soggetto di cooperazione”.

 

Quali sono queste condizioni? 

 

“Essenzialmente sono quelle di rispettare i principi della legge e di allinearsi ai criteri e alle finalità dell’Agenda 2030, in particolare rispetto al Global Compact, il cui scopo è mobilitare il settore privato per conseguire gli obiettivi dell’Agenda 2030.  In effetti, nei programmi di cooperazione esiste una dimensione di investimenti, di creazione di lavoro, innovazione e anche formazione che l’impresa privata può fare molto bene a condizione che questo crei posti di lavoro pagati in maniera dignitosa, stabili, rispettosi dei diritti umani, dei principi di Good Governance, di sostenibilità ambientale e sociale.

Tutto questo grande mondo si appoggia all’Agenzia, perché questa è l’ente che materialmente finanzia le attività, ma anche perché essa è depositaria del know-how di cooperazione. In altre parole l’Agenzia è sostegno, appoggio ma anche guida di alcuni di questi attori nella loro attività di cooperazione internazionale. 

In fondo, è uno scenario molto coerente con la struttura del nostro Paese. A differenza di altri Paesi dove c’è una forte accentramento sulla cooperazione centrale dello Stato, l’Italia, grazie alla sua vibrante società civile, al suo mondo così ricco di realtà locali che sono impegnate, dal piccolo al grande, nella cooperazione internazionale, vede invece interagire realtà diverse con conoscenze e competenze distintive e approfondite”.

 

Il termine Cooperazione, quindi, non si riferisce soltanto ai Paesi ma alla capacità di far collaborare tante realtà diverse?

 

“Mi piace ricordare le parole del Presidente della Repubblica in occasione di Coopera 2022, un grande happening della cooperazione per lo sviluppo. In quella sede, il Presidente Mattarella parlò della cooperazione come “patrimonio collettivo della nostra comunità nazionale” sin dalla fondazione della Repubblica. 

In effetti, c’è una specie di naturale propensione negli italiani e nelle loro organizzazioni a fare cooperazione che banalizzando, ma a fin di bene, vediamo tutti i giorni intorno a noi: dalle parrocchie ai circoli associativi, soprattutto in conseguenza di eventi di grande impatto umanitario. 

Esiste una pulsione naturale a intervenire e a mettere a disposizione risorse, finanziarie o di altro tipo, per accompagnare, per venire in soccorso, per fornire assistenza a Paesi, a comunità che sono in difficoltà. 

Tuttavia, questo attivismo, così legato al modo ‘italiano’ di porsi al mondo, per tradursi in un’azione efficace ha bisogno anche di un coordinamento importante, facendo in modo che tutte le ‘forze applicate a un punto’ spingano nella stessa direzione ottimizzando le risorse a disposizione. Uso questa immagine quando occorre parlare dell’efficacia della cooperazione generale dell’Italia in alcuni paesi, in alcuni quadranti del mondo, dove troviamo moltissimi attori, che vanno dalle congregazioni religiose ai sindacati, dalle organizzazioni della società civile alle università che, se non sono coordinate, se non sono sinergiche, potrebbero anche fare singolarmente del bene, ma non farebbero cooperazione nel vero senso della parola”.

 

Cosa distingue quindi un intervento umanitario o solidale da uno di cooperazione?

 

“Partiamo dal principio che la cooperazione ha uno scopo di trasformazione, un intervento trasformativo che cambia le condizioni di partenza costruendo qualcosa. Cerco di spiegarmi. Esistono campagne umanitarie come quelle dei medici oculisti che vanno periodicamente a curare malattie degli occhi delle popolazioni beduine esposte ai venti del deserto. Si tratta di iniziative lodevoli e utili ma non sono cooperazione trasformativa. La cooperazione trasformativa consiste nell’impiantare un centro di formazione, una facoltà di oculistica, o trovare il modo di formare i medici locali per poter adempiere a questa funzione di assistenza alle popolazioni affette da malattie di questo genere. 

Trasformativo vuol dire mettere in grado il paese partner di poter provvedere da sé ad alcune necessità e a migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini. 

Un altro attributo chiave della Cooperazione è la sostenibilità. Gli interventi, infatti, una volta realizzati, devono lasciare sul campo un’iniziativa in grado di andare avanti, perché sono state create le premesse affinché prosegua senza più necessità, o con necessità diciamo decrescenti, di contributi e di assistenza”.

 

Occorre quindi anche pensare a un trasferimento di competenza e responsabilità sull’iniziativa? 

 

“La fase di trasferimento è richiesta e prevista sin dall’ipotesi di cooperazione. Si chiama Ownership ed è un altro concetto chiave alla base della nostra idea di Cooperazione. Tutte le attività e le iniziative che la cooperazione italiana fa si inquadrano in strategie o programmi di ampio respiro che i paesi partner, come li chiamiamo, hanno individuato autonomamente, perché ovviamente hanno tutte le capacità di farlo. Ci sono Paesi che hanno bene chiaro quale deve essere il futuro della propria nazione; la Cooperazione li accompagna; nel senso che nell’ambito, nel quadro, di queste linee programmatiche da loro tracciate si inserisce mettendo a disposizione quello che l’Italia ha di meglio da offrire”.

 

E in quali ambiti interviene principalmente la Cooperazione italiana?

 

“Gli ambiti tradizionali della nostra cooperazione sono l’educazione e la formazione.

La formazione, in particolare, è uno degli assi essenziali del piano Mattei insieme al settore della salute. Ci sono paesi in Africa, ad esempio, in cui la cooperazione italiana è stata realizzata con risorse e strutture governative ma anche con l’intervento di altri soggetti, come le congregazioni religiose per costruire sistemi sanitari ispirati al modello italiano, inclusivo, accessibile e universale.

Inoltre operiamo nel campo della sicurezza alimentare che, oggi, richiede capacità di trasformazione dei sistemi agroalimentari. Si tratta di un tema chiave perché l’agricoltura in diversi paesi partner, in particolare in Africa, continua a essere il settore di maggiore rilevanza sia per reddito, sia per generazione di prodotto interno, sia per impiego di mano d’opera.

La cooperazione italiana affianca paesi per migliorare la produttività dell’agricoltura e per renderla maggiormente sostenibile.

Ricordiamoci che in questo settore siamo un modello di riferimento, avendo un’agricoltura, tra i paesi avanzati, con il minore impatto sul territorio e con elevatissimi standard di qualità. A questo si collegano i temi della salvaguardia dell’ambiente, del contrasto al cambiamento climatico, che si affrontano su diverse dimensioni, tra le quali la lotta alla desertificazione e la gestione delle acque. Rispetto a queste sfide l’Italia vanta un grande patrimonio di tecnologie, di know-how sia pubblico sia privato, nell’utilizzo sostenibile dell’acqua, nel riutilizzo delle acque e delle tecniche di irrigazione intelligente.

 

E sui temi legati alla crescita economica, quale ruolo ha l’Italia attraverso la Cooperazione?

 

“In Africa esiste un tema continuo di accesso al mercato del lavoro per masse di giovani che devono essere formati per potersi collocare in maniera dignitosa.

Non solo, i giovani, se opportunamente formati, possono diventare “homo faber fortunae suae”. La cooperazione italiana lavora molto per stimolare spirito di imprenditorialità, per creare start up e mettere a disposizione strumenti utili a generare attività economiche indipendenti puntando sui giovani e sulle donne.

Pensando ai dieci anni trascorsi dall’istituzione della legge 125/2014 è il momento di pensare ad un adeguamento utile a dare più possibilità di coinvolgimento alle imprese. Il nostro strumento principale in questo ambito è il Bando Profit. Questo bando è stato lanciato tre volte e finanzia progetti privati che, avendo finalità di profitto, contribuiscono alla cooperazione e allo sviluppo nei paesi partner. Il Bando Profit offre un cofinanziamento 1:1 per le aziende che investono in progetti che non comportano delocalizzazione, ma sviluppo di competenze, tecnologia e occupazione nei paesi partner. Secondo uno studio di Ambrosetti, ogni euro investito dall’Agenzia ha generato 1,5 euro di investimenti da parte delle imprese. Cosa vuol dire? Vuol dire che le imprese hanno creduto così tanto nello strumento da metterci più di quanto richiesto.

Tra i progetti sostenuti ricordo quello che, in Kenya, ha visto un’azienda italiana creare un sistema innovativo per la riforestazione attraverso una piattaforma digitale. Questo progetto non solo contribuisce alla sostenibilità ambientale ma stimola anche lo sviluppo economico locale.

Il Bando Profit è indubbiamente uno strumento innovativo che lo studio Ambrosetti ha dimostrato essere molto apprezzato dalle imprese più attente alla cooperazione. È uno strumento che contiene potenzialità ancora non pienamente espresse a causa di alcuni vincoli normativi in materia di codice dei contratti e di aiuti di Stato sui quali stiamo lavorando.

 

Che ruolo è riservato a temi quali l’innovazione e la trasformazione digitale?

 

“Sinora ho indicato i filoni ‘tradizionali’ e prioritari della Cooperazione italiana ma il tema dello sviluppo digitale assume sempre maggiore rilevanza. È ormai un dato acquisito che la digitalizzazione consente il ‘leapfrogging’ nei paesi in via di sviluppo; l’avanzamento per grandi balzi in tanti ambiti superando molti degli steps che hanno caratterizzato lo sviluppo classico dei paesi industrializzati. Pensiamo all’altissima penetrazione della telefonia cellulare e delle reti mobili in Africa; magari è caratterizzata dalla diffusione di apparecchi che non sono iperaccessoriati come i nostri, che non hanno il costo dei nostri, ma sono essenziali per scambiare voce, dati, informazioni e servizi in paesi che non avevano infrastrutture e connessioni fisse. Attorno al digitale c’è una forte spinta allo sviluppo, perché il digitale consente l’accessibilità a una vasta gamma di servizi anche nelle zone remote dell’Africa. Nei villaggi in cui non c’è mai stata e mai ci sarà una banca, grazie all’intervento digitale è possibile avere dei depositi bancari, anche di quantità modeste, o accedere al mondo della finanza. In altre parole, lo sviluppo digitale prospetta grandi opportunità economiche e sociali perché può migliorare l’attività economica e sostenere il reddito di comunità o di persone che altrimenti non avrebbero avuto possibilità.

Operiamo   in questo settore anche in collaborazione con l’Unione Europea che è la nostra partner chiave e pensiamo che la digitalizzazione rappresenti una grande opportunità di empowerment per figure altrimenti fragili come giovani o donne. Abbiamo un bel progetto sulle ragazze, sulla loro formazione digitale in un paese africano che serve appunto a dare loro gli strumenti per ritagliarsi un ruolo attivo sul piano economico, guadagnando conseguentemente anche maggiore considerazione sociale e, alla fine l’inserimento di concetti di parità di diritti di genere nelle comunità. Da sottolineare, poi, l’impegno italiano nel D4D Hub dell’Unione Europea.

D4D vuol dire Digital for Development, con la creazione, sia a Bruxelles sia in diverse aree del mondo, di strutture che possono supportare l’identificazione e il disegno di progettualità in ambito digitale. 

A questo scopo la Commissione Europea ha fatto appello alle Agenzie di Sviluppo per fornire competenze e know-how e, ovviamente, l’Agenzia italiana ha aderito.

Ora siamo partner di un progetto finanziato con fondi europei, cofinanziato dalle agenzie dei Paesi partecipanti tra cui Spagna, Francia e Germania. 

Noi mettiamo a disposizione esperti appositamente assunti dislocati sia a Bruxelles, sia nei quadranti geografici di nostro interesse, che sono Mediterraneo, Africa Subsahariana e America Latina. Questi avranno il compito di accompagnare i Paesi partner nel disegno e nella messa a punti di progetti in ambito digitale, che poi troveranno finanziatori che potranno essere la Banca Mondiale, l’Unione Europea o le stesse Agenzie per la cooperazione. L’operazione è molto originale, l’Agenzia si è inserita da subito e ovviamente ha portato con sé gli attori che agiscono proprio in questo ambito a partire dall’Agenzia per l’Italia Digitale con la quale abbiamo appena firmato una convenzione di collaborazione su questi temi, sotto la regia della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale”.

 

In questo grande e composito affresco della cooperazione italiana come si inserisce il Piano Mattei?

 

“Il Piano Mattei dà una spinta ulteriore a questi principi e consacra il definitivo superamento della dicotomia tra ‘donatore’ e ‘beneficiario’. Noi parliamo di paesi partner che sono appunto i paesi con i quali lavoriamo e che noi accompagniamo, non dirigiamo e neanche, vorrei dire, assistiamo.

Questo è un concetto molto forte, insito nella legge 125/2014, particolarmente sentito dall’Agenzia, che il Piano Mattei ha consacrato e in qualche modo universalizzato. L’altra importante funzione del Piano Mattei è che lavora molto sulla concretezza, sulle sinergie e sulle dimensioni di scala e di impatto dei progetti. Concretezza vuol dire mettere in piedi progettualità grandi, che abbiano però rapidi tempi di messa a terra, cosa che non sempre si è verificata nel passato.

Stiamo parlando di contesti che a volte possono essere complicati e mutevoli; basta dire che è sufficiente un colpo di Stato per bloccare un progetto di cooperazione bilaterale.

Tuttavia, il Piano Mattei vuole che, almeno nei paesi dove c’è stabilità, si raggiunga un maggiore livello di concretezza arrivando alla messa a terra dei progetti in maniera più veloce, in maniera sinergica, unendo diversi attori, utilizzando anche strumenti meno consueti per il nostro ambito come i partenariati commerciali, che possono essere assolutamente utili. Su nove progetti del piano Mattei alcuni coinvolgono grandi imprese partecipate dal Ministero delle Finanze con partenariati commerciali e economici, che porteranno benefici anche sul lato del trasferimento dell’innovazione”.

 

Quali altri elementi caratterizzano questo Piano strategico? 

 

“Metterei in risalto la ‘sinergia’ tra impatto immediato e l’efficacia evidente degli interventi che ci rende credibili rispetto ai nuovi ‘competitor’ della Cooperazione.

Insomma, è inutile che ce lo nascondiamo, a differenza di 30-40 anni fa, quando la comunità dei donatori in Africa era caratterizzata dal fatto di appartenere tutti all’area del mondo occidentale, oggi esiste una forte concorrenza politica e strategica tra i donatori in Africa. La Cina si muove in maniera molto incisiva e per certi versi intensiva, ma ci sono anche i paesi del Golfo che fanno importanti azioni di cooperazione, non necessariamente in linea con quelle dei paesi che seguono le regole dell’Ocse. C’è un attore come la Turchia che si è inserito con importanti interventi, quindi è chiaro che dimostrare l’efficacia di un’azione è importante anche per mostrare ai partner quanto credibile possa essere la cooperazione italiana e quindi quella europea sviluppata su base paritaria e non predatoria con lo scopo di contribuire alla crescita, sviluppo e progresso nei paesi partner senza condizioni o opporre condizionalità come invece fanno altri donatori”.

 

Quali iniziative sono state prese rispetto all’Agenzia con l’avvio del Piano Mattei?

 

“L’Agenzia ha preso molto sul serio questo nuovo impegno a partire dalla recente apertura di due nuove sedi in Africa.

La nostra presenza nel continente è consistente e legata alle aree di interesse per l’Italia quindi è tradizionalmente molto radicata nel nord Africa per prossimità geografica; nell’Africa orientale per ragioni storiche; in Africa occidentale saheliana per le iniziative politiche degli ultimi anni; in Mozambico perché l’Italia è stata protagonista del processo di pacificazione dei primi anni ’90.

A queste sedi storiche dell’Agenzia ne aggiungiamo due nuove. La prima, in Costa d’Avorio, a Abidjan, che va a coprire anche la parte atlantica dell’Africa occidentale.

Si tratta di un quadrante di grande rilievo per l’Italia anche perché alimenta molta  immigrazione irregolare. Avere la possibilità di agire in questo territorio, sviluppando nuovi partenariati, offrirà opportunità di lavoro ai giovani e alle giovani della Costa d’Avorio e dei paesi circostanti.

La seconda nuova sede viene aperta a Kampala, in Uganda. In questo modo rafforziamo la nostra presenza in quella regione dell’Africa orientale andando a seguire da vicino i nuovi paesi prioritari della cooperazione italiana. È un momento di importante protagonismo dell’Agenzia ma anche di spinta all’innovazione”.

 

In quali settori?

 

“Beh intanto concentrandoci su settori nei quali la cooperazione italiana non era entrata prima, ma anche portando nuove metodologie dove invece vantiamo grande esperienza.

Prima ho menzionato il settore digitale che però non è a sé stante; accompagnare i paesi nei loro piani di creazione di infrastrutture digitali significa aumentare l’accessibilità alle tecnologie, alla connettività anche delle comunità più lontane. Inoltre, significa approcciare ai settori ‘tradizionali’, dove noi eravamo già molto forti e riconosciuti come partner e digitalizzare per creare nuovi servizi e possibilità. Pensiamo per esempio al settore della salute e della medicina. Ci sono paesi dove magari c’è una sola facoltà di medicina, che prepara pochissimi medici ogni anno, che tra l’altro hanno una bassa propensione ad andare nelle zone più remote. In questo caso si può lavorare molto sul digitale, con la telemedicina o con tecnologie che consentano a personale infermieristico, opportunamente formato, di intervenire a distanza per condividere dati e quindi compiere attività sanitarie.

Grazie alla tecnologia possiamo fare grandi passi in avanti anche in settori come quello agricolo, cui abbiamo già accennato, ma anche sulla sicurezza alimentare, dove la digitalizzazione può accompagnare, aiutare, evitare sprechi alimentari.

La Cooperazione italiana vanta una grande specializzazione nel campo della riduzione dei rischi e dei disastri, maturata sulla grande esperienza della nostra struttura di protezione civile.

È un modello organizzativo e tecnologico molto avanzato che diversi paesi africani ci chiedono di esportare per prevenire le emergenze naturali e avvisare la popolazione in tempo utile.

È un servizio che nasce per salvare vite di fronte ad una possibile tragedia ma può servire anche per salvare una semina o un raccolto (evitando di seminare se le condizioni sono avverse).

Lo stesso ragionamento può essere fatto per la la formazione e l’educazione che con il digitale danno una spinta molto importante a tante iniziative. Mi capita di dirlo in tanti incontri che faccio: l’agricoltura ha bisogno certamente di attrattori, ma ha bisogno anche di laboratori, di laboratori specializzati per poter tracciare e per poter certificare i prodotti. 

Il Mali, che produce il mango migliore del mondo, non riuscirà mai a esportarlo in Italia o sul mercato europeo se non attivando una filiera di certificazione idonea fatta di strutture, processi e competenze idonee”. 

 

Ma che livello di competenze e investimento in tempo e risorse richiedono progetti di una tale complessità? Non rischiano di essere troppo impegnativi?

 

“Certo la complessità esiste. Tuttavia è bene sgombrare il campo da un preconcetto diffuso. Oggi, è veramente molto raro essere chiamati ad intervenire sul greenfield

Nella maggior parte dei casi si interviene su una base importante, ci sono già dei centri, ci sono già persone formate. Molti sarebbero stupiti nel vedere che in Africa ci sono piantagioni monitorate con i droni, come da noi si possono trovare per monitorare i vitigni più pregiati. Generalmente ci si inserisce su un terreno che ha già una serie di appigli importanti che devono essere rafforzati, estesi e accelerati. 

L’altro tema è quello della durata del progetto. In partenza un progetto è pensato nella durata di tre anni, poi nella pratica può accadere che duri di più o che occorra procedere per fasi successive. 

Restando nel campo della sicurezza alimentare mi vengono in mente degli esempi nei quali interveniamo inizialmente con una prima fase di irrigazione e di estensione dei campi coltivati in zone desertiche. In una seconda fase, progressivamente, abbiamo introdotto sistemi di coltivazione che hanno migliorato la produttività; quindi abbiamo portato la meccanizzazione e, a questo punto, abbiamo accompagnato i produttori con lo sviluppo di laboratori, certificazioni e sistemi di tracciabilità. Si procede un passo dopo l’altro, fino a quando non c’è più bisogno di intervento perché si è impiantato un meccanismo che poi va avanti da solo e si può anzi duplicare spontaneamente anche in altre parti, in altre regioni”.

 

Può darci un esempio concreto? 

“Stiamo portando avanti un’importante progettualità su input del Ministero degli Esteri che, pur non facendo parte tecnicamente del Piano Mattei, si inserisce a pieno nella filosofia del piano e riguarda la filiera del caffè

Sappiamo tutti che l’Italia dal punto di vista del consumo e anche della qualità è leader mondiale nel caffè. Tuttavia sappiamo anche che non c’è un chicco di caffè, o meglio una bacca di caffè, che venga prodotto in Italia, a parte forse qualche esperienza in Sicilia. 

Invece c’è una produzione importantissima in tutta la fascia dell’Africa orientale, che riguarda l’Etiopia, l’Uganda, il Kenya, la Tanzania e il Mozambico. 

In Etiopia ci sono 5 milioni di piccoli contadini che coltivano caffè e in Kenya un milione. Se moltiplichiamo per 6 o per 7 il numero dei componenti delle famiglie, abbiamo milioni di persone che dipendono dalla coltivazione del caffè. 

Ora, c’è un tema di impatto del cambiamento climatico sulle attuali varietà di caffè che vengono coltivate, per cui alcuni studi mostrano che con l’evoluzione e il peggioramento del clima, una parte importante delle raccolte verranno progressivamente perse e non sarà più possibile produrle. Abbiamo messo a disposizione il nostro know-how, la nostra tecnologia di Paese che processa il caffè, sia per orientare su varietà che siano più resilienti rispetto al cambiamento climatico, ma anche per spostare in Africa fasi di processazione che in questo momento avvengono da altre parti del mondo”.

 

Sono problemi di natura ecologica, economica e produttiva di questi Paesi che però toccano anche noi come produttori e consumatori; andiamo a migliorare le capacità dei nostri fornitori?

 

“Fa molta differenza esportare la bacca di caffè così come viene colta, oppure portarla già essiccata o torrefatta, magari alla fine riuscire a fare il caffè localmente. È chiaro che il valore aggiunto cambia. L’Italia sta aiutando i paesi della regione a fare questi passi. Naturalmente qui nessuno vuole fare concorrenza ai grandi produttori italiani attenti alla sostenibilità come Illy o Lavazza che, anzi, sono protagonisti loro stessi di questo processo, di questa grande iniziativa, perché essi stessi puntano ad avere forniture di qualità e soprattutto sostenibili. La filiera italiana è una delle più attente e monitorate, c’è un’importante spinta e fortissimo interesse delle nostre grandi aziende italiane a che tutta la filiera sia rispettosa massimamente dei principi di sostenibilità sociale e ambientale. 

Siamo di fronte a grandi imprese che diventano soggetti integranti della cooperazione, perché hanno il know-how, possono aiutare in maniera importante a trasferire alcuni segmenti di trasformazione alimentare in Africa, e un domani potrebbero aver dato una mano a far nascere una Illy etiope, una Illy keniana. Questo non dà affatto fastidio alle nostre imprese, anzi il mercato è talmente grande, talmente in crescita che c’è spazio veramente per tutti.

È un tipo di progettazione che risponde a molti dei valori insiti nel Piano Mattei, prende una filiera che mette insieme più paesi della stessa fascia, creando dei centri di competenza regionali. Mette in risalto le nostre eccellenze e crea valore per una filiera che coinvolge milioni di contadini ma arriva silenziosamente al singolo consumatore”.

 

Quali sono i punti in comune con la filosofia del Piano Mattei?

 

“I grandi progetti previsti dal Piano Mattei nascono da una visione nata durante il vertice di gennaio con i leader africani, convocato dalla Presidenza del Consiglio a Roma. Questa iniziativa è stata sviluppata attraverso interlocuzioni politiche con diversi paesi con l’idea di sviluppare una collaborazione incrementale: partire con alcuni grandi progetti, con l’intenzione di aggiungerne altri che rispettino criteri di dimensione, impatto, concretezza e, soprattutto, che possano mobilitare partenariati rilevanti. Quando parliamo di progetti legati al caffè, ad esempio, coinvolgiamo diverse parti delle nostre istituzioni pubbliche che lavorano sulla qualità dei prodotti, il settore privato e organizzazioni della società civile che conoscano bene i territori. L’obiettivo non è stravolgere il sistema produttivo locale, ma rafforzarlo. Se ci sono 5 milioni di coltivatori in Etiopia, il nostro paese, con le sue organizzazioni e federazioni agricole, centinaia di migliaia di piccoli agricoltori, non ha certo intenzione di cambiare un modello che, in fondo, è molto simile al proprio. Questo spiega anche perché siamo così attraenti, oggettivamente, come partner di cooperazione per questi paesi, e perché il Piano Mattei ha questo grande potenziale di successo”.

 

Vogliamo progetti ambiziosi ma collaborazione alla pari?

 

“Il Ministro Tajani ha spesso sottolineato che c’è uno “stile italiano” nel fare cooperazione, soprattutto verso l’Africa. Il nome “Piano Mattei” stesso richiama un’epoca in cui l’Italia, avendo perso le sue colonie, si è presentata ai paesi africani senza un’agenda nascosta, senza secondi fini. Anzi, l’Italia ha accompagnato la Somalia verso l’indipendenza sotto mandato fiduciario delle Nazioni Unite, diventando uno dei primi paesi indipendenti in Africa negli anni ‘60.

In questo contesto, l’Italia ha perso lo stigma coloniale agli occhi dei paesi africani. La figura di Mattei, con la sua carica di innovazione ed equità verso i paesi in via di sviluppo, incarna perfettamente questo approccio. In generale, il nostro modo di porsi è caratterizzato da ascolto, a tutti i livelli: dai missionari che vanno in Africa per accompagnare lo sviluppo delle popolazioni locali, fino ai militari italiani che, come ha ricordato il Ministro Tajani, rimangono sul campo anche quando altri vengono espulsi. Questo perché le forze armate italiane, nelle operazioni di collaborazione pacifica e formazione, integrano sempre una componente di cooperazione.

I contingenti italiani, infatti, parlano con i locali, li ascoltano e si impegnano per soddisfare i bisogni essenziali e portano sempre avanti anche piccole iniziative di cooperazione: costruiscono pozzi d’acqua, riattivano comunicazioni, e così via. Questo è il nostro approccio generale, che va dal missionario al militare di una missione di peace-keeping, e che si basa su un’idea di partenariato finalizzata alla crescita e allo sviluppo del paese ospitante. Il nostro modo di operare è evidente anche nelle Organizzazioni delle Società Civile, caratterizzate da una grande capacità di dialogo e comprensione delle dinamiche locali, delle piccole comunità. Le nostre Organizzazioni della Società Civile conoscono bene i territori, lavorano a stretto contatto con le comunità locali, e questo rende i nostri interventi più efficaci e rispettosi delle realtà etniche e comunitarie.

Conoscere quello che chiamo “il primo miglio” è essenziale: significa essere presenti sul territorio, vivere le dinamiche locali, dialogare e comprendere i fenomeni per inserirsi in modo armonioso, evitando di generare conflitti e, anzi, contribuendo a mitigarli con una logica di condivisione e ripartizione equa”.

 

Abbiamo parlato molto di Africa, su quali altri aree del mondo opera la Cooperazione italiana?

 

“Tradizionalmente, le aree di intervento della cooperazione italiana includono il Mediterraneo e l’Africa subsahariana, che ora sta diventando sempre più rilevante. Bisogna considerare che esiste un documento programmatico, il Documento Triennale di Programmazione e di Indirizzo, che definisce le linee guida della cooperazione. Questo documento stabilisce anche i paesi prioritari per l’intervento. L’attuale documento, che è in fase di aggiornamento perché viene rinnovato ogni tre anni, prevede una ventina di paesi d’intervento prioritario, la metà dei quali sono africani. L’Africa, quindi, era già centrale e il numero di paesi africani aumenta col nuovo documento, il che li renderà ancora più significativi nell’elenco complessivo dei paesi.

Oltre all’Africa, troviamo il Mediterraneo tra le aree prioritarie, con paesi come Palestina, Libano e Giordania, dove siamo storicamente presenti. In Palestina, ad esempio, operiamo sia sul fronte dello sviluppo che in ambito emergenziale, come dimostra la nostra assistenza a Gaza, ad esempio con l’iniziativa “Food for Gaza”. Nei Balcani, il nostro impegno è stato tradizionalmente significativo e ha accompagnato i paesi dell’area nei rispettivi processi d’integrazione nel sistema europeo. La cooperazione italiana è stata mirata anche ad accompagnare questi processi di integrazione. Tuttavia, rimaniamo presenti in modo importante in Albania e in Bosnia-Erzegovina.

In Bosnia, ad esempio, ci occupiamo anche di cooperazione culturale, che è una delle nostre specialità. Interveniamo in progetti di costruzione di musei o valorizzazione del patrimonio culturale, con l’obiettivo di dare valore a simboli che uniscono il paese. Un esempio è il sito archeologico di Baalbek in Libano, un luogo riconosciuto come patrimonio collettivo dalle tre principali comunità del paese. L’intervento della cooperazione italiana, in questo caso, non è solo la ricostruzione fisica del Tempio di Giove, ma anche la valorizzazione di un simbolo di unità, contribuendo così alla pacificazione e allo sviluppo economico, grazie alle attività generate intorno a questi progetti, come la formazione di guide turistiche e altre attività commerciali connesse.

Nel Medio Oriente, nei Balcani, in Bosnia-Erzegovina e in altre regioni, promuoviamo il rafforzamento della cooperazione interregionale e l’integrazione tra paesi che non sono ancora del tutto integrati. Un caso particolare è l’Ucraina, dove, a seguito dell’aggressione russa, abbiamo aperto una sede a Kiev lo scorso anno. Qui stiamo lavorando su progetti di ricostruzione delle infrastrutture energetiche distrutte, potenziamento del sistema sanitario, e assistenza umanitaria. Inoltre, accompagniamo l’Ucraina nel suo processo di avvicinamento e integrazione nell’Unione Europea.

Abbiamo anche una presenza tradizionale in America Latina, con tre sedi operative: una a Cuba, una in El Salvador, che copre tutti i paesi dell’America centrale, e una in Colombia, dove, tra l’altro, gestiamo un importante progetto sulla foresta amazzonica, finanziato dall’Unione Europea.

Questo riferimento ai fondi europei di cooperazione mi permette di sottolineare che la cooperazione italiana non si limita all’utilizzo di risorse pubbliche italiane, ma con l’Agenzia è in grado di cercare finanziamenti anche al di fuori di essi, come quelli dell’Unione Europea. L’Agenzia è accreditata presso l’Unione Europea, e questo le ha permesso di gestire, in soli otto anni, un volume di fondi europei che è passato da circa 40 milioni di euro a 400 milioni. Questo risultato è dovuto alla solidità dell’Agenzia e alla sua capacità di eseguire i progetti in modo efficace, grazie allo stile di cooperazione che menzionavo prima.

Infatti, in alcuni paesi africani, dove altre agenzie europee potrebbero trovare difficoltà ad operare, l’Italia gode di un alto grado di accettazione, che ci permette di portare avanti progetti con successo. Siamo anche presenti in Asia, con sedi in Pakistan e in Vietnam, dove gestiamo la cooperazione nell’area del Sud-Est asiatico. In questi paesi, molti bisogni essenziali sono stati superati, quindi lavoriamo su ambiti più avanzati.

 

Tra i vari soggetti della Cooperazione ha citato le amministrazioni pubbliche e gli Enti Locali quale ruolo possono avere amministrazioni così vicine al proprio territorio?

“Le amministrazioni pubbliche e gli enti locali, essendo profondamente radicati nei propri territori, possono avere un ruolo significativo nella cooperazione internazionale. In Italia, i comuni sono fornitori di servizi di base e giocano un ruolo centrale nel benessere dei cittadini, specialmente in un paese con una grande varietà di contesti locali. Questi comuni, quando hanno realizzato best practices in Italia, possono trasferire la loro esperienza e competenza anche all’estero.

Per esempio, in molte regioni africane, dove i governi centrali sono spesso fragili e poco efficienti nelle aree remote, le organizzazioni locali, sebbene talvolta deboli, rappresentano un punto di riferimento essenziale per le comunità. Questi soggetti, anche se non sempre formalmente strutturati, sono cruciali per fornire servizi di base e supporto essenziale. In questo contesto, trasferire le competenze e le esperienze delle amministrazioni locali italiane a queste realtà può avere un impatto notevole e contribuire alla stabilizzazione delle aree in difficoltà.

Un esempio concreto di come questo approccio viene applicato è il recente bando della cooperazione italiana, il più grande mai lanciato, che prevede 180 milioni di euro per progetti presentati da organizzazioni della società civile ed enti territoriali. La scelta di riservare una quota significativa delle risorse del bando (60 milioni di euro) agli enti territoriali italiani dimostra un forte impegno politico per coinvolgerli nella cooperazione internazionale, riconoscendo la loro importanza e le loro specificità”.

 

Che risposta avete avuto?

 

“La risposta al bando è stata molto positiva, con un numero di candidature che ha notevolmente superato le aspettative e le disponibilità. Questo indica non solo una grande mobilitazione da parte degli enti territoriali italiani, ma anche un interesse crescente per la cooperazione internazionale, stimolato dal Piano Mattei. È importante notare che il Piano Mattei ha anche incentivato il coinvolgimento di attori italiani che non erano precedentemente attivi nella cooperazione internazionale, come l’Agenzia delle Dogane. Si tratta di enti che, pur avendo competenze riconosciute a livello nazionale, hanno iniziato solo recentemente a estendere la loro esperienza anche fuori dai confini italiani, con l’accompagnamento dell’Agenzia per adattarsi alle realtà locali e alle sfide specifiche dei paesi partner”.

 

Tante comunità italiane con le loro amministrazioni sono diventate territorio di accoglienza e inclusione di persone che vengono da paesi africani; questo bagaglio può essere messo a frutto nei progetti di Cooperazione?

 

“Le comunità italiane che accolgono e integrano persone provenienti da paesi africani possono certamente mettere a frutto questa esperienza nei progetti di cooperazione. Il legame tra diaspore e cooperazione, infatti, è particolarmente rilevante, come dimostra il progetto “DRAFT the future! Towards a diaspora forum in Italy”. Questo progetto ha creato una rete ufficiale delle diaspore italiane, con fondi dedicati per permettere loro di sviluppare e realizzare iniziative di cooperazione che partano dalle comunità insediate in Italia.

Le diaspore rappresentano una risorsa preziosa perché, una volta integrate, possono contribuire sia allo sviluppo dell’Italia che dei loro paesi d’origine. Ad esempio, molti membri delle diaspore hanno avviato attività imprenditoriali in Italia, creando posti di lavoro e stimolando l’economia. Allo stesso tempo, possono utilizzare la loro esperienza e le loro connessioni per promuovere progetti di cooperazione che favoriscano lo sviluppo nei loro paesi di origine.

La cooperazione italiana, attraverso l’Agenzia, riconosce l’importanza di coinvolgere attivamente le diaspore e di integrare le loro competenze e risorse. Questo approccio si estende anche al livello territoriale, dove comuni e enti locali possono collaborare con le diaspore e altri attori locali, come il mondo accademico, gli enti di formazione professionale come gli ITS e le organizzazioni della società civile. In Italia, ci sono esempi di ITS che lavorano con paesi africani, dimostrando come l’integrazione tra vari settori – pubblico, privato e no-profit – possa replicare modelli di successo già sperimentati a livello nazionale. Il patrimonio di esperienza e competenza accumulato dalle comunità italiane che accolgono migranti può essere un elemento chiave nella cooperazione internazionale. Integrare le diaspore nei progetti di cooperazione non solo rafforza i legami tra Italia e paesi d’origine, ma favorisce anche uno sviluppo più sostenibile e inclusivo, basato su un modello di collaborazione che valorizza le competenze locali e l’ancoraggio territoriale”.


Gianmarco Nebbiai
Cofondatore e Direttore responsabile di Innovazione.PA. Giornalista e Comunicatore d’impresa, scrive di ICT e del suo impatto sulla società e l’economia dal 1995. Segue tutti i temi legati alla trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione, all’innovazione dei processi e dei servizi a disposizione dei cittadini, con particolare attenzione all’innovazione sociale e al digital health.

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