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I data center devono diventare infrastrutture strategiche

L’onorevole Giulia Pastorella racconta l’evoluzione dei data center in termine di efficienza e sostenibilità
28 Luglio 2025 |
Gianmarco Nebbiai

Se i dati sono il nuovo petrolio, è forse giunto il tempo di pensare ai data center come raffinerie strategiche? A rispondere è l’onorevole Giulia Pastorella, che in questa intervista illustra la sua proposta di legge per riconoscere i data center come infrastrutture cruciali, semplificandone gli iter autorizzativi. Al centro del colloquio, l’urgenza di una strategia nazionale sui dati, il ruolo degli enti locali come motore di innovazione, in una prospettiva che guarda all’Europa e alle sfide geopolitiche, senza trascurare sostenibilità e competitività.

Onorevole Pastorella, partiamo dalla proposta di legge che lei ha presentato, in cui i data center vengono considerati infrastrutture strategiche. Ritiene che l’Italia debba dotarsi di una strategia nazionale sui dati, paragonabile a quella energetica o industriale, per valorizzare appieno questa risorsa?

Assolutamente sì. In passato, ci sono stati tentativi di elaborare una strategia nazionale sui dati, come alcune bozze redatte da AgID o dal team per la Trasformazione Digitale guidato da Diego Piacentini, ma purtroppo non hanno mai trovato piena attuazione. L’Italia soffre di una frammentazione significativa in questo ambito; esistono normative sulla sicurezza dei dati e iniziative come il Polo Strategico Nazionale per i dati sensibili della pubblica amministrazione, ma manca una visione organica. Non si tratta solo di proteggere i dati, ma di riconoscerne il valore aggiunto e sfruttarlo in modo strategico. È ormai un dato acquisito che i dati rappresentino il “nuovo petrolio”, ma in Italia questa consapevolezza non si è ancora tradotta in politiche coerenti.

Al tempo stesso, però, gli enti locali stanno iniziando a comprendere il potenziale dei dati che gestiscono, utilizzandoli per migliorare le politiche pubbliche e favorire lo sviluppo di nuovi servizi da parte del settore privato. Purtroppo, questa consapevolezza non si riflette ancora in una strategia nazionale chiara, né nelle politiche del sottosegretario Butti, né in quelle del ministro Urso. A livello europeo, invece, si è compresa l’importanza dei dati non personali, in particolare quelli legati alla produzione industriale, come dimostrato dal Data Governance Act e da altre normative che facilitano lo scambio e l’utilizzo di questi dati. L’Italia, pur partecipando a iniziative internazionali come l’Open Government Partnership, fatica a tradurre i principi in azioni concrete.

Per questo motivo, ritengo che una strategia nazionale sui dati sia indispensabile, ma deve essere sviluppata tenendo conto del contesto europeo, evitando sovrapposizioni normative che potrebbero penalizzare le nostre imprese, come sta rischiando di fare il DDL sull’intelligenza artificiale.

Parliamo dei data center, al centro della sua proposta di legge. In estrema sintesi, il disegno di legge nasce dall’esigenza di semplificare l’iter autorizzativo per queste infrastrutture. Ci può spiegare meglio il razionale di questa iniziativa?

Certamente. L’esigenza di semplificare l’iter autorizzativo è emersa con forza, paradossalmente, non tanto dagli operatori del settore, quanto dagli enti locali. Questi ultimi si trovano spesso a gestire investimenti di grande portata, talvolta miliardari, senza un quadro normativo chiaro che li supporti. I data center non sono solo luoghi di stoccaggio e processamento dei dati, ma rappresentano infrastrutture con ricadute positive sui territori, offrendo benefici economici e occupazionali, spesso con un impatto ambientale inferiore rispetto ad altri tipi di investimenti, come i poli logistici o le industrie pesanti. Inoltre, possono essere un’opportunità per riconvertire siti industriali dismessi.

Gli enti locali, tuttavia, si trovano in difficoltà nel classificare i data center a livello urbanistico e autorizzativo, dovendo ricorrere a normative non sempre adeguate. Questa complessità ha portato a una concentrazione dei data center principalmente nell’area di Milano e in Lombardia, dove si è riusciti in parte a colmare il vuoto normativo grazie a un maggiore dinamismo locale. Altre regioni, invece, faticano a entrare in questo mercato, nonostante l’Italia offra numerosi siti potenzialmente adatti, sia per connettività che per disponibilità di energia.

La proposta di legge, che è una legge delega, parte proprio da questa esigenza di semplificazione, indicando principi chiari, come la definizione di una destinazione d’uso urbanistica specifica, la classificazione tramite il codice Ateco e la creazione di un’unità centrale di supporto agli enti locali. Parallelamente, poniamo grande attenzione alla sostenibilità, favorendo, ad esempio, l’uso di energia rinnovabile o, come ho proposto in un emendamento, l’energia nucleare, quando sarà disponibile nel nostro Paese. È importante sottolineare che il testo, essendo unificato in commissione, ha integrato le migliori proposte di tutti i gruppi parlamentari, rendendolo un documento completo e condiviso.

Interessante notare come, nella sua analisi, gli enti locali non siano un ostacolo, ma addirittura un motore per lo sviluppo dei data center. Può approfondire questo aspetto?

Esattamente, il ruolo degli enti locali è fondamentale e, in molti casi, sono proprio loro a chiedere un quadro normativo che li supporti. Ho avuto modo di partecipare recentemente a un convegno in Puglia, organizzato dall’agenzia regionale InnovaPuglia, dove è emersa chiaramente la volontà di attrarre investimenti in data center, non solo per il loro valore economico, ma anche per il contributo che possono dare alla competitività delle imprese locali e alla capacità computazionale del territorio. Gli enti locali vedono in queste infrastrutture un’opportunità di crescita, anche in termini di urbanizzazione e servizi per la cittadinanza, ma necessitano di strumenti adeguati per gestirle.

Non si tratta, quindi, di un problema di resistenza locale, ma di un’esigenza di supporto normativo e operativo. Inoltre, i data center non rispondono solo a un tema di sovranità digitale – che riguarda principalmente i dati sensibili, già protetti da normative nazionali ed europee – ma anche a una questione di competitività economica e innovazione tecnologica.

Un altro aspetto cruciale è la localizzazione dei data center. Quanto è importante avere queste infrastrutture distribuite sul territorio, e quali sono i benefici concreti?

È un tema sentito dal mercato per diverse ragioni. In primo luogo, la vicinanza fisica riduce la latenza, un fattore cruciale per garantire servizi efficienti, soprattutto per le imprese che necessitano di capacità computazionale in tempo reale. In secondo luogo, la presenza di data center sul territorio genera un indotto occupazionale e stimola l’innovazione locale, incentivando, ad esempio, le imprese a passare al cloud o a sviluppare nuovi servizi digitali.

Tuttavia, è importante chiarire che la localizzazione dei dati in Italia non deve essere vista come una questione di sicurezza in senso stretto. La sicurezza dei dati non dipende tanto dal fatto di averli “sotto casa”, quanto da un’adeguata protezione tecnologica e normativa, che può essere garantita anche a livello europeo. Sono scettica, ad esempio, sull’approccio di alcune normative, come il DDL sull’intelligenza artificiale, che al Senato ha introdotto l’obbligo di mantenere tutti i dati sul territorio italiano. Ritengo che tale obbligo debba riguardare solo i dati sensibili legati alla sicurezza nazionale, mentre per gli altri dati si debba puntare a un’ottimizzazione e a una valorizzazione, anche in un’ottica di sovranità digitale europea. Questo approccio, sostenuto dalla Commissione Europea già dal primo mandato von der Leyen, è diventato ancora più urgente nel mutato contesto geopolitico, che richiede una maggiore autonomia digitale del nostro continente.

Come si concilia l’attrazione di investimenti esteri in questo settore con le esigenze di sovranità digitale e competitività nazionale?  

Gli investimenti esteri rappresentano un’opportunità importante per il nostro Paese, e questo principio è riconosciuto anche dall’attuale governo, nonostante il suo approccio sovranista. Lo dimostra, ad esempio, l’accoglienza positiva riservata agli investimenti annunciati da fondi come BlackRock, che pure sono stati oggetto di critiche ideologiche. Al di là dell’origine del capitale, ciò che conta è dove e come si genera valore aggiunto. Nel caso dei data center, i benefici sono evidenti: il territorio ne guadagna in termini di sviluppo economico e occupazionale, mentre le imprese locali possono accedere a servizi avanzati, migliorando la propria competitività. Non vedo, quindi, rischi di dumping o svendita agli investitori stranieri, anche perché esistono strumenti normativi per tutelare gli interessi strategici nazionali.

Inoltre, si possono creare sinergie virtuose. Ho avuto modo di osservare numerosi progetti in cui aziende straniere collaborano con promotori immobiliari locali, che conoscono meglio il territorio e le sue specificità. Un’iniziativa interessante, che apprezzo pur essendo all’opposizione, è quella annunciata dal Ministero, che sta lavorando a una mappatura nazionale dei siti idonei per i data center, sulla base di criteri come la connettività energetica, le telecomunicazioni e la disponibilità di risorse idriche. Questa mappatura sarà uno strumento prezioso non solo per gli investitori stranieri, che spesso non hanno una conoscenza approfondita del nostro territorio, ma anche per quelli italiani, che potranno valutare opportunità in regioni diverse, come la Sicilia, senza limitarsi alle aree tradizionalmente più sviluppate come la Lombardia.

Va detto, però, che è necessario un approccio equilibrato. Dobbiamo evitare gli eccessi visti in altri Paesi, come l’Irlanda, dove un’eccessiva concentrazione di data center ha causato problemi alla rete elettrica, con conseguenti blackout. In Italia, considerata la complessità della nostra infrastruttura elettrica, è fondamentale essere preparati a gestire eventuali investimenti, garantendo sostenibilità e stabilità del sistema.

A che punto è l’iter della proposta di legge?  

Siamo a una fase cruciale (maggio ndr.). Al momento, speriamo di concludere il passaggio in commissione entro la fine di maggio o, al più tardi, all’inizio di giugno. Gli emendamenti sono stati presentati e sono pronti per essere votati. Una volta completato questo passaggio, il testo approderà in aula. Sono ottimista sulla possibilità di un’approvazione rapida, considerando che si tratta di un testo ampiamente condiviso, privo di particolari politicizzazioni. L’obiettivo è completare l’iter alla Camera prima della pausa estiva, per poi passare al Senato.

Essendo una legge delega, quali saranno i passaggi successivi?  

Il compito di una legge delega è definire i principi generali e le linee guida, mentre l’implementazione concreta avverrà successivamente, attraverso decreti attuativi e il coinvolgimento dei ministeri e degli stakeholder. Questo approccio è necessario, data la natura tecnica e specifica del tema. Personalmente, fin dalla prima stesura della proposta, ho ritenuto che una legge delega fosse la strada più appropriata, perché consente agli esperti dei ministeri, in consultazione con gli attori del settore, di tradurre i principi generali in misure operative efficaci.

Un esempio concreto di come questo processo possa funzionare è rappresentato dal tema del codice Ateco, che abbiamo inserito nella proposta di legge. Questo codice, che serve a classificare le attività economiche, è fondamentale per inquadrare correttamente i data center. Grazie alla nostra iniziativa, il ministro è intervenuto tempestivamente, introducendo due codici Ateco provvisori, in attesa di una revisione definitiva che avverrà in coordinamento con Eurostat, l’ufficio statistico europeo. Questo dimostra come, anche al di fuori dell’iter parlamentare, sia possibile ottenere risultati concreti, soprattutto quando il governo comprende l’urgenza di un intervento. Tuttavia, i tempi della democrazia richiedono pazienza, e l’iter parlamentare rimane essenziale per garantire un quadro normativo solido e condiviso.

Onorevole, ampliando lo sguardo a una visione più generale, quali ritiene siano le tre priorità che l’Italia dovrebbe affrontare nel brevissimo termine in ambito di innovazione digitale, al di là del tema specifico dei data center?

Individuare solo tre priorità è una sfida, ma credo sia utile per focalizzare l’attenzione. La prima, senza dubbio, è il tema delle competenze digitali. Senza un’adeguata preparazione, nessuna tecnologia, per quanto avanzata, può essere compresa, utilizzata o sfruttata appieno, sia dalle imprese, sia dai cittadini, sia dalla pubblica amministrazione. La seconda priorità è la connettività. L’Italia presenta ancora troppe aree prive di connessione adeguata, le cosiddette “aree bianche”, e siamo in ritardo anche sull’adozione delle tecnologie più innovative, come la connettività satellitare. A livello europeo si sta accelerando su questo fronte, anche per ragioni geopolitiche, ma nel nostro Paese resta un problema significativo.

La terza priorità riguarda la ricerca, intesa in senso lato. Non parlo solo della ricerca pubblica, dove l’Italia investe notoriamente meno rispetto ai partner europei, ma anche e soprattutto della ricerca e dell’innovazione nel settore privato. La struttura economica italiana, caratterizzata da poche grandi imprese, limita gli investimenti in ricerca e sviluppo. A ciò si aggiunge la difficoltà di creare e far crescere nuove imprese, in particolare startup, un ambito in cui siamo particolarmente indietro. Su questo punto, si stanno facendo passi avanti, ad esempio con misure che incentivano il capitale di rischio, come l’emendamento che permette ai fondi pensione di investire una quota in venture capital, ma c’è ancora molta strada da fare.

Non possiamo non affrontare il tema dell’intelligenza artificiale, che sembra essere il “convitato di pietra” in ogni discussione sull’innovazione digitale. Come vede il suo ruolo in relazione a queste priorità, anche in connessione con lo sviluppo di nuove infrastrutture come i data center?

È un tema cruciale ma in Italia, e in parte anche a livello europeo, si tende a concentrarsi prevalentemente sulla regolamentazione, trascurando le strategie di adozione. Si presta grande attenzione, giustamente, agli aspetti etici e normativi – come l’uso dell’IA nel mondo del lavoro o nella sanità – ma si dedica meno spazio a come favorire l’adozione di questa tecnologia in modo strategico. La strategia nazionale sull’intelligenza artificiale, elaborata ormai diversi anni fa, è rimasta in gran parte lettera morta, e anche la versione più recente non sembra aver ricevuto l’impulso necessario per essere attuata con decisione.

A mio avviso, è essenziale bilanciare la regolamentazione – che a livello europeo è già molto avanzata, grazie all’AI Act e ad altre normative correlate – con politiche di incentivo e facilitazione. Non si tratta di trasformare lo Stato in un innovatore diretto, sviluppando, ad esempio, modelli di intelligenza artificiale pubblici, come è stato proposto in alcune idee che ritengo poco praticabili, come quella di un Large Language Model di Stato. Lo Stato non deve sostituirsi al settore privato, che è molto più efficiente in questo ambito, ma deve creare le condizioni affinché le imprese possano innovare, adottando l’IA in modo responsabile e rispettoso delle normative.

In questo contesto, le infrastrutture come i data center giocano un ruolo chiave, perché forniscono la capacità computazionale necessaria per sviluppare e utilizzare soluzioni di intelligenza artificiale. Tuttavia, per sfruttare appieno queste opportunità, è fondamentale che lo Stato si concentri sul ruolo di facilitatore, promuovendo l’adozione dell’IA e garantendo che i benefici siano accessibili a imprese di tutte le dimensioni, non solo alle grandi realtà.

Tornando al tema delle competenze, che ha indicato come priorità assoluta, e al problema del digital divide, potrebbe approfondire cosa intende per competenze digitali?

Certamente, e colgo l’occasione per aggiungere una precisazione importante. Quando parlo di competenze digitali, non intendo che tutti debbano diventare sviluppatori di software o esperti di programmazione. Non si tratta di trasformare ogni cittadino in un ingegnere informatico, ma di fornire a tutti le competenze di base necessarie per essere cittadini digitali consapevoli. Questo significa, ad esempio, comprendere cosa sia un algoritmo, sapere come funziona l’intelligenza artificiale, essere in grado di interagire con i servizi digitali della pubblica amministrazione, ma anche riconoscere i rischi, come le immagini false o le manipolazioni digitali.

Spesso si cade nel fraintendimento che puntare sulle competenze digitali significhi voler insegnare a tutti linguaggi di programmazione come Python. Non è questo l’obiettivo. L’obiettivo è piuttosto creare una consapevolezza diffusa, che consenta ai cittadini di navigare il mondo digitale con sicurezza e spirito critico, comprendendo sia le opportunità sia i potenziali pericoli. Solo così potremo colmare il digital divide e costruire una società realmente inclusiva dal punto di vista digitale.

Permetta una domanda più personale, considerando il suo background, che si distingue per una formazione e un’esperienza internazionale nel settore digitale non proprio comuni nella nostra classe politica. In che modo queste esperienze hanno influenzato il suo approccio alla politica e, in particolare, alle politiche tecnologiche in Italia? E quali modelli internazionali ritiene possano essere utili per il nostro contesto?

Le mie esperienze professionali hanno avuto un impatto profondo sul mio approccio alla politica. Lavorare in due grandi aziende tecnologiche mi ha permesso di comprendere dall’interno le dinamiche di questo settore, superando i luoghi comuni che spesso dipingono le big tech come entità intrinsecamente positive o negative. Ho imparato che queste aziende agiscono nel loro interesse, e compito della politica è capirne le logiche per regolamentarle in modo efficace. Questa esperienza mi ha aiutato a valutare rischi e opportunità dell’innovazione tecnologica con un approccio pragmatico, e mi ha fatto comprendere quanto la regolamentazione possa influire sulle decisioni di investimento.

Ad esempio, una delle aziende per cui ho lavorato decise di non proporsi al settore pubblico italiano proprio a causa della complessità burocratica, un segnale chiaro di come anche un singolo articolo di legge possa compromettere la competitività di un Paese. Questa consapevolezza mi ha spinto a vedere il settore privato e quello pubblico non come realtà contrapposte, ma come due facce della stessa medaglia, che devono dialogare per il bene del sistema Paese.

Anche il mio passato di lobbista è stato formativo. Oggi, quando incontro rappresentanti del settore privato, so distinguere chi porta argomentazioni solide da chi persegue interessi meno trasparenti. Questo mi permette di interagire con gli stakeholder in modo costruttivo, mantenendo però un giudizio autonomo e critico, senza mai limitarmi a recepire passivamente le loro posizioni.

Non meno importante è stata la mia esperienza accademica. Il percorso di dottorato, con il suo focus su un approfondimento dettagliato e specialistico, mi ha abituato a un approccio rigoroso e analitico, che applico oggi nel lavoro legislativo, in particolare nella redazione di emendamenti e nel lavoro di commissione. Ammetto di essere un po’ “nerd” in questo senso: mi appassionano i dettagli tecnici e il confronto sulle norme, che considero fondamentali per costruire politiche efficaci.

Quanto ai modelli internazionali, non credo esista un’unica ricetta valida per l’Italia, ma ci sono certamente esperienze da cui possiamo trarre ispirazione. Ad esempio, il modello estone di digitalizzazione della pubblica amministrazione è interessante per la sua capacità di semplificare i servizi ai cittadini, pur tenendo conto delle differenze di scala e contesto. Allo stesso modo, il Regno Unito offre spunti utili sul fronte dell’attrazione di investimenti in innovazione, grazie a politiche che favoriscono il dialogo tra pubblico e privato. L’importante è adattare questi modelli alla nostra realtà, valorizzando le nostre specificità.

Lei considera il digitale non solo come un settore economico, ma come una forza trasversale con un impatto determinante sulla società, sulla democrazia e su molti aspetti della vita quotidiana. Quando ha maturato questa consapevolezza? E come si riflette nel suo lavoro parlamentare? Inoltre, percepisce un interesse su questi temi da parte dei cittadini?

Non sono nata con questa consapevolezza, e in effetti il mio ingresso nel mondo della tecnologia è stato quasi casuale. Come racconto spesso, tutto è iniziato per un errore di un algoritmo, che confuse il mio dottorato sui governi tecnici – in inglese “Technocratic Government” – con un’esperienza in tecnologia. Questo mi portò a essere contattata da un’azienda come Palantir, che, pur rendendosi conto del malinteso, mi aprì le porte a un mondo che non avevo inizialmente considerato. Da lì, con il mio primo impiego in Hewlett-Packard, ho iniziato a esplorare il settore digitale, ma sempre con un approccio che definirei “tecno-scettico”.

Ritengo che questo scetticismo sia un atteggiamento sano: chi vede la tecnologia come la soluzione a tutti i mali è pericoloso tanto quanto chi la demonizza. La tecnologia è uno strumento, e il suo impatto dipende da come la utilizziamo. Questa visione equilibrata è quella che cerco di portare nel mio lavoro parlamentare, evitando approcci ideologici e concentrandomi su politiche che valorizzino le opportunità senza trascurare i rischi.

Purtroppo, nella scena politica italiana, spesso prevalgono visioni polarizzate, con posizioni che oscillano tra l’entusiasmo acritico e il rifiuto totale. Questo si riflette anche nell’interesse dei cittadini, che non sempre percepiscono il digitale come un tema prioritario. Durante la campagna elettorale, ad esempio, ho cercato di parlare di innovazione digitale ma ho notato che altri temi, come la conciliazione vita-lavoro o il ruolo delle donne in politica, riscuotevano maggiore attenzione. È un peccato, perché il digitale è una realtà pervasiva e trasversale, che meriterebbe un dibattito più ampio e consapevole.

Un cambiamento si è visto con l’avvento dell’intelligenza artificiale, che, grazie alla sua visibilità, ha suscitato un interesse più diffuso. Tuttavia, anche in questo caso, il dibattito pubblico tende a concentrarsi sugli aspetti etici e sui rischi, piuttosto che sulle opportunità e su come adottare queste tecnologie in modo equilibrato e strategico.

Torniamo al tema dei data center, con un focus sull’impatto ambientale. La sua proposta di legge include criteri ambientali stringenti, ma ci sono preoccupazioni più generali sull’impatto climatico di queste strutture e, in senso lato, dello sviluppo tecnologico. È realistico immaginare data center a impatto zero? E come si inserisce questo tema nel più ampio contesto della transizione ecologica?

Le preoccupazioni ambientali sono legittime e condivise a livello globale, e i data center stanno già evolvendo verso una maggiore sostenibilità, non solo per ragioni etiche, ma anche economiche: un data center che consuma meno energia ha costi operativi inferiori, il che lo rende più competitivo. Nella nostra proposta di legge abbiamo inserito indicazioni specifiche per ridurre l’impatto ambientale, come il riutilizzo di siti industriali dismessi, la limitazione del consumo di suolo e l’uso preferenziale di energie rinnovabili.

Detto questo, è importante affrontare il tema con realismo. Ad esempio, alcune procedure, come la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), considerano i data center come se i loro gruppi elettrogeni fossero in funzione 24 ore su 24, 7 giorni su 7, mentre in realtà questi dispositivi sono utilizzati solo in situazioni di emergenza o per test periodici. Questo tipo di approccio rischia di burocratizzare eccessivamente il settore, applicando modelli che non riflettono il reale funzionamento di queste infrastrutture.

Inoltre, è necessario sfatare alcuni miti. Si parla spesso di emissioni, ma in realtà i data center moderni hanno un impatto emissivo molto ridotto, grazie alle tecnologie avanzate. Lo stesso vale per l’inquinamento acustico, che è ormai minimizzato dalle innovazioni tecnologiche. Questi pregiudizi alimentano talvolta una sindrome NIMBY (“Not In My Backyard”), che porta i cittadini a opporsi a queste infrastrutture, nonostante il loro impatto sia spesso inferiore rispetto ad altri tipi di impianti industriali.

L’obiettivo di un data center a impatto zero è ambizioso, ma non irrealistico, soprattutto se accompagnato da un aumento della disponibilità di energia pulita. Tuttavia, questo non è un problema esclusivo dei data center, ma una sfida trasversale a tutti i settori. Una maggiore diffusione di fonti rinnovabili, e in prospettiva anche del nucleare, sarebbe un passo avanti non solo per i data center, ma per l’intera economia. La transizione ecologica, quindi, deve essere vista come un contesto più ampio, in cui i data center possono e devono giocare un ruolo responsabile, ma senza essere penalizzati da normative sproporzionate o da percezioni distorte.

Concludiamo guardando al futuro; come immagina lo sviluppo dell’Italia nel digitale nei prossimi cinque anni? E quale ruolo vorrebbe avere in questo percorso di transizione? Come le piacerebbe essere ricordata?

Nel mio piccolo, se riuscissi a portare a casa il riconoscimento dei data center come infrastrutture strategiche, con una legge che ne faciliti lo sviluppo, mi riterrei soddisfatta, soprattutto considerando che rappresento una forza di opposizione con il 3% dei consensi. Il fatto che questa proposta sia stata calendarizzata rapidamente e abbia trovato un consenso trasversale dimostra che abbiamo individuato un problema reale e urgente, e non si tratta certo di un favore personale, ma di un riconoscimento della centralità del tema.

Per quanto riguarda una strategia digitale futura del paese, credo che per incidere davvero sia necessario essere al governo. Quindi, magari, mi riservo di affrontare questo aspetto in futuro, se ne avremo la possibilità.


Cofondatore e Direttore responsabile di Innovazione.PA. Giornalista e Comunicatore d’impresa, scrive di ICT e del suo impatto sulla società e l’economia dal 1995. Segue tutti i temi legati alla trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione, all’innovazione dei processi e dei servizi a disposizione dei cittadini, con particolare attenzione all’innovazione sociale e al digital health.