Gli alberi fanno bene al clima. E alle città

Le pratiche di riforestazione urbana si stanno diffondendo sempre di più, con molti benefici per la decarbonizzazione e i cittadini. Ma occorre distinguere tra i progetti che tutelano davvero l’ambiente e quelli che lo fanno solo in apparenza, nascondendo altre finalità
9 Agosto 2024 |
Giulia Galliano Sacchetto

Il verde è da sempre il colore associato alla speranza, ma i suoi effetti benefici sono anche molto concreti. Non si contano, infatti, gli studi che dimostrano la capacità degli alberi di assorbire Co2, essenziale nella lotta al cambiamento climatico. Ma anche i numerosi effetti positivi dello stare a contatto con il verde, con quella che viene chiamata Natura, purtroppo sempre meno presente nelle vite degli esseri umani, soprattutto di coloro che vivono in città.

L’Italia ha una copertura arborea pari a 12 milioni di ettari, equivalenti a circa il 40% di tutto il territorio nazionale. Si tratta di una delle percentuali più elevate d’Europa. Ma molte di queste aree verdi non si trovano in prossimità delle città, che pure ne avrebbero un gran bisogno. Proprio nelle aree urbane, infatti, le condizioni di vita sono peggiorate notevolmente negli ultimi anni, con caldo e inquinamento alle stelle, piogge improvvise e, in certi casi, esondazioni di fiumi sciaguratamente tombati, come accade a Milano con il Seveso. Un argine a questa deriva è costituito dalla forestazione urbana, una pratica per la quale, non a caso, il Pnrr ha stanziato 330 milioni di euro con l’obiettivo di piantare 6,6 milioni di alberi in 14 città metropolitane italiane. L’idea è quella di realizzare delle vere e proprie foreste urbane, che comprendono tutti gli alberi, gli arbusti e la vegetazione di un’area urbana e periurbana, inclusi quelli che sono presenti nei cortili, lungo le strade e nei parchi, considerando il verde sia pubblico che privato. Meno cemento e asfalto e più terra e verde dunque. Un’azione apparentemente semplice ma dagli innumerevoli benefici: gli alberi, infatti, migliorano la qualità dell’aria assorbendo gli inquinanti, mitigano il calore riducendo le temperature attraverso l’ombreggiatura e la traspirazione, riducono gli oneri sulle infrastrutture idriche tradizionali grazie all’assorbimento delle acque piovane, portano ad un aumento della biodiversità, migliorano la salute fisica e mentale dei cittadini, diminuendo lo stress e creando luoghi invitanti per l’attività fisica, riducono il rumore urbano, rafforzano la coesione della comunità favorendo l’interazione sociale e costruendo una coscienza ambientale condivisa, portano ad un aumento della produttività agricola nell’agroforestazione periurbana e riducono l’erosione del suolo.

Gli alberi, insomma, hanno la risposta giusta per la maggior parte dei problemi che affliggono le città. E la riforestazione urbana va di pari passo con la riqualificazione e la riduzione del consumo di suolo. Eppure questo sembra non bastare perché si intraprenda una politica seria basata sul verde. Ad esempio, i sopracitati fondi del Pnrr destinati alla riforestazione urbana, in alcune città, sono a rischio. Era prevista, infatti, una prima scadenza con almeno 1 milione e 600mila alberi da piantare entro fino 2022. Ma la Corte dei Conti aveva successivamente accertato che questo obiettivo, da più parti, non era stato raggiunto e che, anzi, in quel periodo, molte attività erano ancora in fase di progettazione o erano partire ma riscontravano difficoltà. Emblematico in questo senso è il caso di Milano, una delle città più inquinate d’Italia. Ma, nonostante questo, nel capoluogo lombardo è stato impossibile procedere ad un’opera di rimboschimento di 3 ettari. E così Milano ha perso 12 milioni di euro di fondi europei: 6 per il 2022 e altrettanti per il 2023. Risorse che dovevano servire per piantare 138mila alberi in ciascuno dei due anni considerati, con l’obiettivo di creare nuovi boschi su 276 ettari di territorio della Città Metropolitana. Una situazione a dir poco paradossale se si pensa che, sul territorio milanese, lo spazio si trova facilmente quando si tratta di costruire, che si tratti di nuovi edifici, stadi o altro. Per fare un esempio, nel 2022 i cantieri hanno occupato 24 ettari di terreno. E secondo i dati dell’Osservatorio permanente contro il consumo di suolo e la tutela del Paesaggio, sodalizio composto da una serie di associazioni ambientaliste attive nel Sud-Est Milano, solo in questa zona nel 2021 sono stati persi 10 ettari di suolo. Cifra raddoppiata nel 2022. Una percentuale destinata a peggiorare secondo le associazioni che costituiscono l’Osservatorio: “lo testimoniano i silenzi degli amministratori (…) su consumo di suolo e tutela del paesaggio – sostengono -, con solo una rara e lodevole eccezione: la sindaca di Vizzolo, con i recuperi della ex cava TEEM ed ex discarica di Montebuono. Per il resto le parole usate dai sindaci su suolo e paesaggio, salvo blande dichiarazioni di principio, sono state: parcheggi, rotatorie, nuova viabilità, nuove strutture”. In poche parole, per citare Celentano, “solo case su case, catrame e cemento”. Con buona pace dei polmoni dei cittadini e dei dati che mettono nero su bianco le più di 40mila morti premature in Italia nel 2021 causate dalla concentrazione eccessiva di inquinanti

Green solo a parole

L’Osservatorio porta poi all’attenzione alcuni esempi di Comuni che si stanno distinguendo in negativo dal punto di vista della riforestazione urbana.

Tra questi c’è San Donato Milanese, con un’amministrazione ambientalista più che altro sulla carta. Non a caso proprio San Donato vede all’orizzonte il mega-progetto del nuovo stadio del Milan nell’area di Cascina San Francesco per cui sono stati trovati 108mila metri quadrati da cementificare. Ma l’intera area interessata è di 480mila mq e, molto verosimilmente, una fetta ulteriore di suolo sarà sacrificata per le strutture di contorno del nuovo impianto. Tralasciando il numero di alberi che potrebbe essere piantato al posto del nuovo stadio, quando si potrebbe riqualificare quello già esistente a San Siro, bisogna anche considerare che il Comune sta perdendo alcuni grossi insediamenti industriali (come SAIPEM e SNAM) e ci saranno quindi palazzi vuoti che potranno diventare potenziali fonti di degrado. A meno che non vengano riqualificati, anche se la riqualificazione è qualcosa che va molto di moda a parole ma che poi spesso non viene fatta concretamente, come se l’uomo avesse un bisogno primordiale di espandere la sua impronta cementificatrice ovunque possibile. Sempre a San Donato si parla da tempo della riqualificazione, in un’ottica a forte vocazione naturalistica, del parco della “Campagnetta” di via Di Vittorio: si tratta di un importante polmone verde e un corridoio naturale che potrà diventare parte fondamentale del “Cammino dei Monaci”, il percorso che unirebbe le vicine Abbazie di Chiaravalle e di Viboldone. E poco importa se lo stadio di cui proprio il sindaco è un attivo sostenitore ostacolerebbe questo Cammino.

Anche il Comune di Melegnano non se la passa bene dal punto di vista della riforestazione. Sono infatti iniziati i lavori per la costruzione del Data Center che stanno sigillando oltre 200mila metri quadrati di suolo agricolo, ovvero il 4% dell’intero territorio comunale. Per il sindaco “tutto questo porterà molteplici benefici da svariati punti di vista: dalle opere pubbliche connesse al maxi-intervento agli oneri di urbanizzazione con i tributi annuali e l’indotto per le attività produttive locali”. Per rafforzare questa visione ci si fa scudo con i presunti benefici degli oneri di urbanizzazione. Resta poi ancora aperta la vicenda San Carlo, che avrebbe un impatto ancora maggiore. Altro suolo sarà infatti sigillato per costruire l’Ospedale di comunità del territorio. Visti gli enormi problemi della sanità, si tratta di un’opera necessaria che avrebbe però potuto trovare spazio in aree da rigenerare, che in città sono presenti, senza consumare suolo vergine. E pazienza se poi il nuovo cemento creerà nuove isole di calore che renderanno le temperature sempre più insopportabili affollando magari gli ospedali di persone con problemi legati al caldo. La nuova costruzione sarà realizzata a ridosso del vecchio cimitero di Pedriano, di cui restano un rudere di muro e una cappella votiva. L’area in questione copre una superficie di circa 3.000mq. E anche quest’area si chiama San Francesco, anche se le intenzioni sono decisamente lontane da quelle del santo amante della Natura. Verranno, inoltre, avviati anche alcuni piani che sono rimasti per anni nel cassetto e che sigilleranno nuovo suolo e un’area verde sarà sacrificata per creare nuovi parcheggi.

C’è poi chi si nasconde dietro la riqualificazione dell’ambiente urbano, mettendo in atto pratiche di dubbia finalità. É il caso del Comune di Cuneo e del progetto di riqualificazione di piazza Europa, che al momento ospita dieci esemplari di cedri dell’Atlante di circa 70 anni. Verrebbe quindi da pensare che in questo caso il verde ci sia già e che sarebbe opportuno riforestare altre zone della città, come Piazza Galimberti dove d’estate le temperature sono insopportabili. A dire il vero il progetto originario di “riqualificazione” di piazza Europa prevedeva la costruzione di un parcheggio sotterraneo e l’abbattimento dei cedri perché avrebbero interferito con la nuova struttura. Un’idea ampiamente bocciata dai cittadini, al punto che il bando per la vendita dei box e dei posti auto che sarebbero stati costruiti è andato praticamente deserto. Ma ecco che l’amministrazione è tornata alla carica con una nuova proposta di “riqualificazione” che prevederebbe l’abbattimento dei cedri e la messa a dimora di nuove piante. La giustificazione portata è che i cedri sono pericolosi, in quanto pericolanti; una tesi confutata dai residenti, ma anche diversi esperti e dalla totalità dei passanti, e ritrattata in un secondo tempo anche dalla giunta con l’assessore Pellegrino che ha sostenuto che i cedri non sono considerati pericolosi, ma ha sottolineato le difficoltà di mantenerli in un contesto urbano: “non possiamo considerare la durata in sicurezza di un albero in un bosco uguale a quella di uno che vegeta in un contesto urbano come quello di piazza Europa. I cedri, per come sono posizionati, potrebbero diventare pericolosi e probabilmente non dureranno più di dieci o quindici anni. Conservandoli, ci troveremmo in una situazione che renderebbe impossibile la riqualificazione strutturale della piazza e necessarie prove di carico annuali che rischierebbero di svuotarla in maniera definitiva”. Dunque, anziché pensare a come garantire ai cedri la più lunga e bella vita possibile, l’amministrazione sembra preferire l’eliminazione di un eventuale futuro problema: una logica che richiama l’ideologia consumistica attuale, che invita le persone a cambiare continuamente, sbarazzandosi di oggetti che magari funzionano ancora bene per sostituirli con altri.

Inoltre, secondo la giunta il nuovo progetto porterà più di 1000 metri quadrati di verde contro i 260 attuali. Secondo le opposizioni, l’agronomo che ha eseguito la perizia sui cedri, essendo già  stato incaricato della messa a dimora delle nuove piante, sarebbe in realtà in conflitto di interessi. L’eventuale abbattimento dei cedri, peraltro, non tiene conto delle proprietà che acquisiscono gli alberi man mano che crescono. Infatti, recentemente uno studio condotto da alcuni ricercatori britannici ha scoperto che gli alberi secolari immagazzinano il doppio del carbonio rispetto a quanto si pensava in precedenza. La ricerca è stata pubblicata sulla British Ecological Society e ha analizzato quasi 1.000 alberi della foresta di Wytham in Oxfordshire, ribadendo ancora una volta il ruolo fondamentale degli alberi secolari nel preservare le condizioni per la vita sulla Terra. Sono stati utilizzati un laser e un software di modellazione 3D per mappare i circa 1.000 alberi, soprattutto antiche latifoglie: un metodo, indolore per le piante, che ha permesso ai ricercatori di misurare il volume di ogni albero e quindi di valutare la quantità di carbonio immagazzinata nei suoi tronchi e rami. “Quando si conosce la densità del legno, si può convertire il volume in massa”, ha spiegato alla Bbc Mathias Disney, professore dell’University College di Londra. Metà di questa massa risulta essere carbonio, l’altra metà acqua. Di conseguenza, un pezzo di foresta britannica cattura quasi il doppio (1,77 volte più precisamente) di quanto suggerito dai calcoli precedenti. Uno studio importante che pone interrogativi sulla pratica sempre più diffusa di piantare nuovi alberi, ponendo l’attenzione sul valore e sulla protezione di quelli che vivono sulla Terra da ben più tempo di noi.

Una menzione va, infine, fatta anche per Cortina nonostante non si tratti di ambiente urbano. Il governo, contro il parere dell’opinione pubblica e del Comitato Olimpico, ha infatti dato il via libera all’abbattimento di un lariceto di 200 anni per avviare i lavori di costruzione della pista da bob in vista delle Olimpiadi. Eppure le soluzioni alternative c’erano: dalla riqualificazione degli impianti di Cesana Torinese fino alle alternative di Innsbruck o Saint Moritz in Austria. Sorge quindi il dubbio che tutto questo venga fatto per poter dire di aver organizzato un’olimpiade italiana al 100%, in barba allo spirito internazionale e universale che dovrebbe contraddistinguere questa manifestazione. 

La riforestazione consapevole

Nel nostro paese, per fortuna, ci sono anche alcune iniziative interessanti di riforestazione urbana.

A Prato è stato avviato il progetto Urban Jungle, che invertirà il paradigma secondo cui sono gli edifici a prevalere, trasformando palazzi già esistenti in veicoli ad alta intensità di verde, con alberi e piante sulle facciate e sulle coperture. Il progetto è suddiviso in 3 aree pilota e metterà in atto diversi interventi di forestazione urbana, con l’obiettivo di migliorare radicalmente la qualità sociale ed ambientale della città: l’utilizzo di sistemi di irrigazione e di raccolta dell’acqua piovana all’avanguardia e la selezione di essenze vegetali autoctone – con elevata capacità sia di accumulo e stoccaggio di Co2 che di attrazione per gli insetti impollinatori – saranno tra i punti chiave dell’intervento. Si lavorerà anche sulla realizzazione di superfici verdi, sia orizzontali che verticali, migliorando così, attraverso facciate e tetti schermati dalla vegetazione, anche l’efficienza energetica dei palazzi. Verranno anche realizzate facciate verdi innovative, che ospiteranno alberi e arbusti sull’intero perimetro del fabbricato, ma anche tetti verdi che diventeranno isole di biodiversità, fruibili anche per fare attività fisica; inoltre, dove possibile, i parcheggi saranno trasformati in aree verdi comuni. Un progetto ambizioso che ha permesso alla città toscana di vincere il Premio Ambiente all’edizione 2023 del Festival Future4Cities.

Un altro progetto degno di nota è quello della città di Cagliari, che vuole realizzare una promenade verde sul lungomare di via Roma. Si tratta di un modo per recuperare spazi pubblici, ma anche per ridare lustro alla prima zona che da sempre accoglie i viaggiatori che arrivano dal mare. Partendo proprio dalla tradizione cagliaritana dei viali alberati, il progetto definisce uno spazio pubblico continuo, pedonale ed ombreggiato, con funzioni di polmone verde, e anello di congiunzione tra la città e il mare. Il nuovo “giardino botanico lineare” interesserà 24mila metri quadrati: oltre a mantenere tutta la componente arborea presente, verranno piantumati più di 200 nuovi alberi, con la realizzazione di ulteriori 5mila e 700 metri quadrati di nuove aree verdi. Verrà così creato un parco cittadino facilmente accessibile da tutto il fronte di Via Roma e che permetterà di trattenere le polveri sottili e assorbire anidride carbonica, riducendo gli effetti delle isole di calore e mitigando il microclima.

Anche Milano ha in cantiere un progetto interessante, perché non prevede, almeno nelle intenzioni, alcun consumo di suolo. Si tratta del Nuovo Policlinico. La struttura si trova nel centro storico ed è tutt’oggi uno degli ospedali più importanti della città: si tratta di una cittadella sanitaria racchiusa da mura, dove i diversi servizi sono ospitati da edifici separati. Il Nuovo Policlinico conserverà parte della originaria struttura a padiglioni, ma introdurrà nella parte centrale un edificio tecnologico e all’avanguardia, il Central Building, a cui saranno affiancati due blocchi laterali. Come detto, la nuova struttura non consumerà nuovo suolo grazie alla demolizione di 11 vecchi padiglioni ormai inutilizzati, e sarà inserita nel contesto di quelli già esistenti ancora attivi. Inoltre, il Central Building ospiterà sul tetto il cosiddetto “Giardino Terapeutico”, un giardino pensile di 6mila metri quadrati, che accoglierà 100 alberi di grandezza variabile e diverse specie arbustive, per offrire uno spazio dedicato alla riabilitazione e alle attività ludiche e terapeutiche di vario genere. Oltre ai benefici ambientali, insomma, gli spazi aperti del giardino saranno anche un valido supporto per i pazienti, che ne trarranno giovamento sia fisico che psichico. Il Nuovo Policlinico sarà costruito secondo i più innovativi parametri di sostenibilità: ad esempio, sfrutterà l’accumulo dell’acqua piovana che sarà riutilizzata, farà ricorso a fonti energetiche diversificate privilegiando l’impiego di quelle rinnovabili. Sarà realizzato con una tecnologia antisismica innovativa e materiali a ridotto impatto ambientale e, in ogni locale interno, la luce sarà protagonista, per garantire il rispetto del ciclo circadiano della persona e influire positivamente sul percorso di cura.

Il caso Parco Italia

Gli esempi sopracitati coniugano, almeno sulla carta, riforestazione urbana, riqualificazione e riduzione del consumo di suolo. Questi tre parametri, infatti, non devono essere distinti. Ci sono tanti altri progetti in fase di lancio o già in corso che sono però contraddittori da questo punto di vista. Uno su tutti è il progetto Parco Italia ideato dallo studio Stefano Boeri Architetti e dalla Fondazione AlberItalia. Stando a quanto dichiarato in un comunicato stampa “70mila alberi verranno piantati entro la fine del 2024 con il supporto di Amazon”; inoltre, “la visione di Parco Italia sul lungo periodo è arrivare a piantare un albero per ogni cittadino delle 15 città metropolitane italiane: 22 milioni di alberi entro il 2040, così da creare una rete nazionale composta da corridoi ecologici in grado di aumentare e proteggere la biodiversità, ampliando la presenza di aree protette lungo la Penisola”. Questa iniziativa non tiene infatti conto di un fattore fondamentale, ovvero che gli alberi per vivere hanno bisogno di una materia prima, ovvero il suolo. Non a caso nelle nostre città mangiate dal cemento e dall’asfalto gli alberi molto spesso cadono, ma nessuno solleva mai la questione di come sono costretti a vivere quegli alberi. Eppure, come sottolinea in un articolo pubblicato su Altreconomia Paolo Pileri, ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, proprio lo sponsor principale dell’iniziativa Parco Italia, ovvero Amazon, consuma molto suolo, come la gran parte del comparto logistico (506 ettari solo nel 2022). Il professor Pileri evidenzia come il solo Amazon abbia una cinquantina di capannoni sparsi per il Paese: “Ipotizziamo che coprano una decina di ettari l’uno: fanno 500 ettari (quindi una perdita secca di 150mila tonnellate di CO₂ che era stoccata nel suolo). Questi 500 ettari avrebbero potuto ospitare 500mila alberi (sette volte i 70mila promessi dall’iniziativa sponsorizzata) che avrebbero potuto sottrarre 3,5 milioni di tonnellate di CO₂ piantando platani (ma bisogna aspettare 200 anni) o 250mila piantando aceri campestri. Ma la CO₂ emessa dalla logistica è ben di più di quella del solo capannone perché dovremmo conteggiare anche quella emessa dalle migliaia di viaggi dei tir e dal consumo di suolo delle nuove strade e così via. Quindi 70mila alberi offerti dal colosso degli acquisti online sono un solletico”.

La green gentrification

C’è un altro fenomeno, ancora poco noto, che riguarda la trasformazione verde delle città, ovvero la green gentrification. Quello di gentrificazione è un concetto sociologico che indica il progressivo cambiamento socioculturale di un’area urbana, da proletaria a borghese, a seguito dell’acquisto di immobili, e loro conseguente rivalutazione sul mercato, da parte di soggetti abbienti. Può essere, dunque, definita come un processo di imborghesimento di aree urbane un tempo appannaggio della classe operaia, la quale viene progressivamente rimpiazzata non potendo più economicamente sostenere i nuovi standard qualitativi del luogo di residenza. Ebbene, secondo Isabelle Anguelovski, direttrice del Barcelona Laboratory for urban environmental justice and sustainability (Bcnuej) dell’Universitat autonoma de Barcelona, gli interventi di riforestazione urbana, se mal pensati e gestiti, potrebbero innescare questo processo nelle aree in cui vengono fatti, creando così nuove disuguaglianze. L’esempio portato dalla dottoressa, in un’intervista ad Altreconomia, riguarda la città di Boston e, in particolare, la zona est. Si tratta di uno storico quartiere operaio, abitato principalmente dalle comunità latina e italiana, che per decenni è stato pesantemente segnato dall’attività industriale sia sul lungomare sia nell’area più vicina all’aeroporto internazionale Logan. Recentemente sono stati avviati alcuni interventi volti a mitigare gli impatti del cambiamento climatico, tra cui il “Resilient Boston harbor” del 2018: un progetto che prevede la realizzazione di terrapieni rialzati, greenways, parchi e litorali resilienti per proteggere 75 chilometri di lungomare da inondazioni, erosione delle coste e innalzamento del livello del mare. Interventi sicuramente utili che però hanno accelerato il processo di gentrificazione del quartiere: con la costruzione di edifici di lusso e una maggiore attrattività dell’area per nuovi investimenti immobiliari, infatti, i prezzi delle abitazioni stanno diventando insostenibili per coloro che oggi ci abitano.

Il risultato di questo processo è che le persone che si potranno permettere di vivere nelle zone riqualificate e riforestate potranno godere dei relativi benefici, ma un’altra fetta importante di popolazione si dovrà spostare in zone delle città più economiche ma anche meno vivibili.

Secondo la dottoressa Anguelovski, un altro esempio di green gentrification è il Bosco Verticale di Milano. Nell’intervista infatti sottolinea che: “nonostante gli oltre 2.500 nuovi alberi e piante che adornano le facciate e i balconi di due grattacieli, questo nuovo verde è solo un’illusione perché dietro c’è l’estrazione e l’utilizzo di enormi quantità di materiali per la loro costruzione. Inoltre, le unità immobiliari sono tutt’altro che accessibili alla classe media milanese -essendo vendute a prezzi superiori al milione di euro- per non parlare dei ceti popolari”. Guardando oltreoceano, invece, la dottoressa porta l’esempio di Atlanta Beltline: “un percorso circolare che corre intorno alla città seguendo la linea di un vecchio tracciato ferroviario trasformato in un’area verde con percorsi a piedi e in bicicletta. Lungo la Beltline sono stati costruiti complessi residenziali di lusso che hanno fatto lievitare i prezzi delle abitazioni nelle aree circostanti, in particolare nei quartieri abitati da persone di colore, rendendo impossibile per loro restare nelle case e nelle strade dove avevano vissuto per decenni”.

Occorre, dunque, fare attenzione, evitando speculazioni che rischierebbero di far diventare la riforestazione urbana una moda accessibile a pochi; al contrario questi processi devono essere pensati per essere alla portata di tutti, configurandosi come un atto di cura e di amore verso il pianeta

La riforestazione urbana in Europa

Allargando lo sguardo all’Europa emergono diversi esempi di città che si sono messe all’opera per diventare più verdi e dunque anche più salutari.

Una di queste è Barcellona che, soprattutto grazie al suo ex sindaco Ada Colau, tra il 2012 e il 2020 ha sviluppato e messo in pratica un piano strategico di sviluppo della rete ecologica urbana (Reu), che ha permesso di incrementare i legami tra le aree verdi urbane, aprendo alcuni spazi verdi privati al pubblico e sviluppando un sistema di volontariato per preservare la rete ecologica con contributi sviluppati in concorsi di idee. Il risultato ottenuto è una città dove natura e urbanità convergono e si valorizzano a vicenda, con gli spazi verdi concepiti non come luoghi isolati ma come una vera e propria infrastruttura, con habitat connessi tra loro dove la natura è parte integrante del territorio con funzioni ambientali e sociali. Infatti, quello dei corridoi verdi è stato il primo progetto realizzato, che ha visto aumentare lo spazio verde pubblico impedendo, allo stesso tempo, la circolazione delle auto, con la conseguente riduzione anche dell’inquinamento e dello smog urbano. L’obiettivo, a ancora più ambizioso, era quello di inibire al passaggio delle auto quattro importanti arterie urbane, trasformandole in aree pedonali decorate con le caratteristiche piastrelle di Barcellona (i Panot de flor in lingua catalana), dove saranno piantati alberi e fiori: si prevede la messa a dimora di circa 400 nuovi alberi e la creazione di 8mila metri quadrati di verde pubblico. In queste nuove strade è possibile circolare a piedi o in bicicletta, un mezzo che non inquina e non rilascia emissioni nell’atmosfera; solo ai residenti o per servizi di carico e scarico è concesso l’utilizzo delle auto. Uno dei quartieri che più beneficiato di questa iniziativa è quello di Gloriès, dove l’omonima piazza è stata completamente trasformata. Via l’asfalto, il cemento e le auto: il grande anello viario sopraelevato è stato il primo ad essere eliminato e nei quindici ettari e i tredici isolati coinvolti dal cantiere, sono stati realizzati un parco per minimizzare il transito di veicoli e massimizzare la superficie verde, tunnel dove sono state interrate le carreggiate della Gran Via, opere per integrare la mobilità pubblica e costruzioni per servizi pubblici concertati e polifunzionali. Spazio al verde, dunque, con le aiuole, che fungono anche da sistemi di drenaggio urbano sostenibili, complementari ai tradizionali tombini, ma capaci di far defluire le acque piovane nel terreno. Gloriès da hub del traffico automobilistico di Barcellona è diventato dunque un luogo di pace, dove si può vivere in serenità senza essere sommersi dal traffico e dal rumore che caratterizzano ancora altre zona della città. L’impatto di questa rinaturalizzazione di Glòries è stato tale che il quartiere è stato scelto per la prima edizione del Model Festival, voluto dal Comune di Barcellona e dalla Associazione degli Architetti Catalani e organizzato attraverso la Fundació Mies van der Rohe. Il Piano (Barcelona Greenery and Biodiversity Plan) è stato realizzato in linea con la strategia UE per la biodiversità per il 2030 e con quella definita dalle Nazioni Unite attraverso gli obiettivi di Aichi (2012/2020).

Sulla stessa linea di Barcellona si sta muovendo anche Parigi. Il Plan Biodiversitè Paris (2018-2020) ha visto impegnata l’amministrazione della capitale francese per due anni nel coinvolgere cittadini, municipi, quartieri e associazioni. Si tratta di un lavoro di programmazione che punta soprattutto alla piena partecipazione della cittadinanza e all’educazione come strumento per comprendere tutte le azioni previste. L’obiettivo per quest’anno è rendere il 50% del territorio parigino oggetto di analisi o inventario di biodiversità, con l’obiettivo di raggiungere il  100% nel 2030 e una conoscenza completa da parte dei parigini di questo patrimonio. Il piano prevede diverse iniziative legate alla biodiversità con mostre, dibattiti, eventi, con l’istituzione del ‘mese della biodiversità parigina’ e l’obiettivo di raggiungere nel 2030 1 milione e mezzo di partecipanti. Destinatari sono soprattutto i giovani, dall’asilo all’università: verranno creati giardini pedagogici, scienze partecipative, kit per animatori e docenti e realizzato, ad esempio, un orto in ogni scuola. Anche le associazioni avranno un ruolo centrale: lavoreranno, infatti, con i Consigli di Quartiere e i cittadini utilizzando la piattaforma ‘Rendiamo vegetale Parigi’ (Vegetalisons Paris) per aiutare tutti a diventare cittadini giardinieri favorendo la diffusione della biodiversità su balconi e tetti e realizzando giardini condivisi. 

Anche Londra sta dedicando molta attenzione all’incremento e alla tutela della biodiversità. Il dato da cui si è partite è che nella capitale inglese esistono meno di 33 ettari di spazi aperti tra parchi e giardini, gran parte dei quali piccolissimi, i cosiddetti parchi tascabili inferiori a 0,1 ettari. C’è, dunque, un estremo bisogno di spazi aperti capaci anche di mitigare gli effetti dell’inquinamento e del cambiamento climatico, ospitando anche strutture per il relax, il lavoro agile, il tempo libero e lo sport. Il Biodiversity Action Plan è lo strumento dell’amministrazione che garantisce che specie e habitat siano compresi e considerati durante tutto il processo decisionale per modellare ambienti di qualità con obiettivi e azioni coordinate. Si tratta di un passo importante perché spesso la progettazione degli spazi urbani non tiene conto find all’inizio dell’importanza della presenza di aree verdi. Anche Londra, dunque, ha posto l’accento su questo argomento sottolineando anche la centralità dei corridoi ecologici, connettendo la biodiversità attraverso reti pianificate, proteggendo e valorizzando gli habitat e le specie presenti. Nell’ambiente costruito il Piano propone azioni utili per migliorare e collegare gli spazi verdi e mira a coinvolgere i cittadini anche con attività di citizen science.

Anche Amsterdam si è mossa in questa direzione, coniugando la riforestazione con la riqualificazione. Con l’esperienza di Cascoland nel quartiere di Kolenkit, la difesa della biodiversità è diventata, infatti, uno strumento utile anche per risolvere situazioni di crisi sociale o di degrado,  perché capace di comunicare speranza e mutamento. Il luogo dove è stato realizzato il progetto è un sobborgo periferico della capitale olandese, colpito dalla crisi del 2008 e considerato il quartiere più problematico d’Olanda; ebbene in circa sei mesi ha assistito ad un intervento collettivo, che, con pochi fondi, ha rinsaldato il tessuto sociale recuperando spazi degradati e riutilizzando vuoti urbani, che spesso caratterizzano le metropoli di tutto il mondo: ad esempio, sono stati creati degli orti urbani su aree pavimentate. Si tratta di un’esperienza in grado di trasmettere un messaggio universale: una società degradata non può avere rispetto per l’ambiente, e viceversa, una rete ecologica sana difficilmente potrà sussistere in un luogo degradato. Questi piccoli interventi hanno dimostrato che creando una cornice (che poi è la traduzione di “casco” in olandese) si può ricomporre una frammentazione sociale grazie anche all’entusiasmo e alla partecipazione della comunità.      


Giulia Galliano Sacchetto
Giornalista professionista, con alle spalle esperienze in diversi campi, dalla carta stampata al web. Mi piace scrivere di tutto perché credo che le parole siano un’inesauribile fonte di magia.

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