La medicina traslazionale: il ponte per la cura

L’etimo della parola traslazionale, deriva dal latino “translatio” e dal verbo “transfĕrre” (trasferire, trasportare). In sostanza, la parola indica qualcosa che riguarda il processo di trasferimento o spostamento da un luogo, concetto, stato, ecc. ad un altro, racchiude già in pochi caratteri il significato vero della medicina traslazionale.
Nel cuore di un grande ospedale, il laboratorio traslazionale non è un luogo isolato, ma un crocevia. Qui arrivano campioni biologici, dati clinici, informazioni genetiche. Ma non è solo una questione di tecnologie avanzate o macchinari di ultima generazione: è l’organizzazione stessa del lavoro che cambia. Ogni progetto è una sinfonia di competenze, dove nessuna voce prevale sull’altra. Il biologo molecolare analizza il genoma del paziente; il clinico fornisce i dati anamnestici; il bioinformatico elabora algoritmi predittivi; l’esperto regolatorio prepara la documentazione per avviare una sperimentazione. Tutto accade in tempi stretti, spesso in parallelo, sempre in dialogo.
Un esempio paradigmatico di questo approccio è rappresentato dallo studio su una delle neoplasie cerebrali più aggressive: il glioblastoma multiforme. Il glioblastoma è il tumore più comune e più maligno tra le neoplasie della glia, cellule che, insieme ai neuroni, costituiscono il sistema nervoso . Per decenni, questa patologia è rimasta una delle più ostiche da trattare, a causa della sua eterogeneità biologica e della difficoltà di accesso farmacologico attraverso la barriera ematoencefalica. Tuttavia, l’integrazione tra i dati clinici dei pazienti, le analisi molecolari dei tumori e la sperimentazione di farmaci mirati ha permesso di sviluppare protocolli personalizzati. Non si trattava più di somministrare lo stesso trattamento a tutti, ma di scegliere, per ciascun caso, l’approccio più promettente, sulla base delle caratteristiche genetiche della massa tumorale.
Questa capacità di personalizzare la terapia è uno dei maggiori traguardi della medicina traslazionale. Le cure non sono più standardizzate, ma modellate su misura, come un abito cucito sulla persona. In ambito oncologico, ciò significa combinare la chemioterapia con farmaci a bersaglio molecolare, immunoterapie, terapie geniche. In altri settori, come la neurologia, questo si traduce in diagnosi più precoci e strategie terapeutiche preventive.
Le malattie rare rappresentano un altro campo in cui la medicina traslazionale ha avuto un impatto decisivo. Per troppo tempo, i pazienti affetti da queste patologie hanno vissuto ai margini dell’interesse scientifico, a causa della loro bassa prevalenza. Ma oggi, grazie alla possibilità di analizzare interi genomi in tempi rapidi e a costi contenuti, si può identificare la causa genetica anche di condizioni rarissime. In molti casi, ciò ha portato allo sviluppo di terapie dedicate, spesso realizzate attraverso la tecnologia di quella genica.
Una vicenda simbolica di qualche anno fa raccontata nelle riviste di settore riguarda una bambina colpita da una grave immunodeficienza congenita. Nessuna terapia convenzionale poteva curarla. Ma un laboratorio, dopo aver studiato la mutazione responsabile, progettò una terapia genica ad hoc. Non fu un processo rapido: servì il sostegno di enti pubblici, fondazioni, revisori etici. Ma alla fine, il trattamento fu autorizzato. Oggi, quella bambina ha una vita normale, e il protocollo che l’ha salvata è diventato un modello replicabile anche per altri pazienti.
Tuttavia, la medicina traslazionale non si limita al trattamento. È anche un potente strumento di prevenzione e di previsione. Grazie all’uso di intelligenza artificiale e machine learning, è possibile oggi analizzare enormi quantità di dati — i cosiddetti big data sanitari — per individuare pattern invisibili a occhio nudo. Questo consente, ad esempio, di prevedere il rischio di sviluppare una patologia neurodegenerativa anni prima che i primi sintomi compaiano, oppure di identificare pazienti che risponderanno meglio a un certo tipo di immunoterapia.
Dietro queste innovazioni ci sono infrastrutture complesse: biobanche che conservano migliaia di campioni biologici, database integrati con cartelle cliniche elettroniche, centri di calcolo ad alte prestazioni, piattaforme di condivisione dei dati in rete. Ma, soprattutto, ci sono persone. Ricercatori, medici, tecnici, coordinatori di studi clinici, infermieri di ricerca, esperti di normativa. Un’intera filiera, che lavora ogni giorno per garantire che quanto viene scoperto in laboratorio possa diventare un beneficio reale.
Un elemento chiave è la formazione. La medicina traslazionale richiede nuove competenze e nuovi profili professionali. Università e istituti di ricerca stanno introducendo corsi di laurea e master dedicati, per formare figure ibride capaci di comprendere sia il linguaggio della scienza che quello della clinica. L’obiettivo è creare “ponti umani”, persone che sappiano facilitare il dialogo tra discipline, tra metodi, tra culture.
Ma non basta formare individui: serve un intero ecosistema favorevole. Le istituzioni pubbliche devono sostenere la ricerca con finanziamenti mirati, ma anche con regolamenti flessibili e aggiornati. Le aziende devono essere partner attivi, non solo investitori. I cittadini devono essere coinvolti, non come destinatari passivi, ma come protagonisti consapevoli. In molti paesi europei, i pazienti vengono oggi inclusi nei comitati etici, partecipano alla stesura dei protocolli, contribuiscono con il proprio vissuto alla definizione delle priorità della ricerca.
La medicina traslazionale è, in ultima analisi, una visione del mondo. Una visione in cui la conoscenza non è fine a se stessa, ma un mezzo per alleviare la sofferenza. Una visione in cui la scienza non si chiude nei suoi confini, ma si apre al dialogo, alla contaminazione, alla responsabilità.
Costruire il futuro
Oggi, la medicina traslazionale si trova a un crocevia. Da un lato, i successi ottenuti negli ultimi anni hanno dimostrato il valore e la necessità di questo approccio. Dall’altro, le sfide che si pongono all’orizzonte richiedono un’evoluzione profonda dell’intero sistema sanitario e della cultura scientifica.
Una delle principali criticità riguarda la sostenibilità. Personalizzare i trattamenti, sviluppare terapie su misura, gestire dati complessi e tecnologie avanzate comporta costi elevati. È indispensabile trovare un equilibrio tra innovazione e accessibilità, affinché le cure traslazionali non diventino un privilegio per pochi, ma un diritto per tutti. Questo richiede politiche sanitarie lungimiranti, capaci di investire non solo nella fase di scoperta, ma anche nelle infrastrutture che rendono possibile l’applicazione clinica su larga scala.
Un’altra sfida riguarda l’armonizzazione normativa. La sperimentazione clinica, fondamentale per validare le intuizioni scientifiche, è ancora oggi rallentata da iter burocratici complessi, spesso non adeguati alla rapidità con cui si evolve la ricerca. Servono normative europee e nazionali che garantiscano sicurezza e trasparenza, ma che al tempo stesso siano flessibili, adattabili, capaci di seguire i progressi tecnologici.
Anche l’accesso ai dati rappresenta un nodo cruciale. Per far funzionare le piattaforme di medicina predittiva, servono enormi quantità di informazioni cliniche, genetiche, ambientali. Tuttavia, la gestione di questi dati solleva questioni delicate in termini di privacy, etica e proprietà intellettuale. È necessario sviluppare modelli di condivisione sicuri, trasparenti, basati sul consenso informato, in cui i pazienti non siano semplici fornitori di dati, ma attori consapevoli e partecipi.
E poi c’è il fattore tempo. La medicina traslazionale lavora contro l’urgenza. Ogni ritardo può compromettere la vita di chi aspetta una cura. Per questo, uno degli obiettivi più ambiziosi dei centri traslazionali è la creazione di “fast-track” regolatori, percorsi accelerati che, in presenza di evidenze solide, permettano di portare rapidamente una terapia dalla fase sperimentale a quella clinica.
Ma oltre alle strutture, ai regolamenti, alle tecnologie, ciò che davvero può fare la differenza è la cultura. Serve un cambiamento profondo nel modo in cui pensiamo alla medicina, alla scienza, alla salute. Occorre superare le barriere tra discipline, tra istituzioni, tra pubblico e privato. Serve una nuova alleanza tra ricerca e società.
In molte realtà avanzate, si stanno creando ecosistemi traslazionali integrati: campus in cui ospedali, laboratori, università e aziende convivono nello stesso spazio fisico, facilitando la contaminazione delle idee. In questi ambienti, la distanza tra chi studia la malattia e chi la cura si riduce drasticamente. Il laboratorio non è più un luogo chiuso, ma una parte viva del percorso terapeutico.
All’interno di questi ecosistemi, stanno emergendo anche nuove figure professionali. Il “medico-scienziato”, ad esempio, è un clinico con una solida formazione in ricerca, capace di progettare studi traslazionali e interpretarne i risultati. Ma anche il “data scientist biomedico”, l’esperto di bioetica traslazionale, il manager di progetti clinico-sperimentali. Tutti profili che fino a pochi anni fa non esistevano e che oggi sono indispensabili.
Accanto a questi professionisti, il paziente sta assumendo un ruolo sempre più attivo. Non più solo destinatario delle cure, ma co-creatore del percorso di cura. Questo significa coinvolgerlo nella progettazione degli studi, ascoltare le sue priorità, integrare la sua esperienza di vita nelle valutazioni di efficacia terapeutica. In questa nuova visione, la medicina traslazionale non è solo un’innovazione tecnologica, ma anche un’innovazione relazionale.
Il futuro della medicina, dunque, non sarà fatto solo di nuove molecole, ma anche di nuovi modi di pensare, di lavorare, di decidere. Sarà un futuro costruito sulla collaborazione, sulla fiducia, sull’ascolto. Un futuro in cui il confine tra ricerca e cura non sarà più una linea netta, ma un terreno fertile di scambio continuo.
Ecco allora che la medicina traslazionale non è solo un modello scientifico. È un’etica. È la responsabilità di non lasciare che le scoperte restino confinate nei cassetti delle riviste, ma diventino strumenti di cambiamento reale. Ma è anche la consapevolezza che ogni passo in avanti nel sapere porta con sé un dovere: quello di restituire alla società ciò che è stato appreso.
In un tempo in cui la scienza è spesso messa in discussione, la medicina traslazionale ci ricorda che il sapere ha valore solo se si traduce in beneficio per l’umanità. Ogni nuova pubblicazione, ogni studio clinico, ogni molecola sviluppata è parte di una staffetta, in cui il testimone passa di mano in mano, sempre con lo stesso obiettivo: raggiungere il letto del paziente. Perché curare, oggi, non significa solo prescrivere un farmaco. Significa creare un ponte tra l’intuizione e la realtà, tra la speranza e la cura. E quel ponte si chiama, semplicemente, medicina traslazionale.
In Italia
La medicina traslazionale in Italia sta vivendo una fase di crescita significativa, con numerose iniziative che mirano a colmare il divario tra ricerca di base e applicazione clinica. In particolare:
A_IATRIS (Associazione Italiana per la ricerca traslazionale Avanzata): è la rete italiana per la medicina traslazionale, parte dell’infrastruttura europea EATRIS-ERIC. Riunisce istituti di ricerca e ospedali per facilitare il trasferimento delle scoperte scientifiche in applicazioni cliniche, focalizzandosi su aree come oncologia, malattie cardiovascolari, neurologiche e rare.
Gli obiettivi di A_IATRIS sono:
Un ruolo importante nel sistema sanitario pubblico è quello di IRCCS (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) sono enti ospedalieri che unificano, all’interno della propria struttura, sia attività diagnostico-terapeutiche che attività di ricerca di alto profilo. Svolgono un ruolo chiave nella medicina traslazionale, integrando ricerca e assistenza clinica. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede la riorganizzazione di questi istituti per potenziare la ricerca biomedica e l’innovazione terapeutica. Con la legge delega n. 129 del 3 agosto 2022 e il decreto legislativo n. 200 del 2022, è stata modificata e perfezionata la disciplinata di questi enti, definendo i principali obiettivi:
L’Italia sta compiendo passi importanti con iniziative che integrano ricerca, formazione e applicazione clinica. Nonostante tutto questo, diverse sono le difficoltà. I fondi sono spesso scarsi e anche mal distribuiti. La burocrazia rallenta i processi. I meccanismi di trasferimento tecnologico tra pubblico e privato sono ancora poco fluidi.
BOX
l termine medicina traslazionale è stato introdotto negli anni novanta ma ha acquisito ampio utilizzo solo nei primi anni duemila. In origine, la ricerca in medicina traslazionale è nata dal concetto “dal laboratorio al letto del paziente” (B2B), come una classe della ricerca medica avente come obiettivo l’eliminazione delle barriere tra il laboratorio e la ricerca clinica.
Nel 2003, l’Institute of Medicine Clinical Research Roundtable ha descritto la terminologia e il modello attuale di ricerca traslazionale come un processo di ricerca in due fasi, che va dalla scienza di base alla scienza clinica e dalla scienza clinica all’impatto sulla salute pubblica. Il modello traslazionale più attuale in letteratura è il modello delle 4 T:
T1: dalla scoperta scientifica di base (conoscenza di base) a potenziale applicazione clinica (conoscenza teorica)
T2: da linee guida basate su evidenze (conoscenza dell’efficacia)
T3: da assistenza o applicazione clinica (conoscenza applicata) T4: la salute di una comunità o di una popolazione (conoscenza della salute pubblica).
Fonte: www.eupati.eu