Da sempre e ancora oggi si parla di “bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, recupero delle aree degradate, eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, prevenzione della criminalità, promozione della cultura del rispetto della legalità e affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile”.
È la definizione di sicurezza urbana offerta da ANCI ed è ancora valida, perché si permette di essere molto alta e value-based. Obiettivi confermati, completamente diversi sono invece gli strumenti da sfruttare per occuparsene e garantirla. E, prima ancora, radicalmente differente deve (o dovrebbe essere) l’approccio al tema, lasciando che sia rivoluzionato dal vento di digitalizzazione che ha investito il mondo. Prima con folate lievi e continue, soprattutto provenienti da oltreoceano, poi con la bufera della pandemia che ha costretto anche i più analogici, singoli o enti che fossero, a diventare 2.0.
Se questa capovolta innovativa è avvenuta davanti agli occhi di tutti, esiste un rovescio della medaglia meno popolare e condiviso. E anche meno gradevole. Ma chi si occupa di sicurezza urbana nel 2024 lo tocca con mano ogni giorno, ogni giorno di più: tutti gli strumenti e le tecnologie di sicurezza che abbiamo tra le mani per difenderci dal crimine, sono nelle mani del crimine stesso. Che, quando vuole, li sa usare molto bene.
Sicurezza urbana non significa sicurezza locale
Facendo leva su questa fastidiosa postilla, si può disegnare un nuovo panorama per strategie di sicurezza future ready, oltre che efficaci nel presente. È necessario farlo perché la prevenzione delle nuove minacce richiede un controllo sempre più capillare e multiforme del territorio, inteso come strade, città e case, ma anche come rete intangibile di relazioni tra soggetti pubblici e privati. Un’urgenza a cui rispondere facendo anche i conti con frequenti tagli alle forze dell’ordine che rischiano di aprire o acuire crepe nelle attività di monitoraggio preventivo.
Quando si pensa alle minacce, sarebbe cieco guardare solo alla criminalità, cyber o su strada. Oggi più che mai è necessario anche alzare lo sguardo a 360 gradi sul mondo, anche se il termine “urbana” affiancato alla sicurezza sembra suggerire diversamente. Non si può infatti ignorare il potenziale impatto locale delle sempre più frequenti catastrofi naturali che affliggono anche il nostro Paese e dell’instabilità politica, sia nazionale che estera. Due evidenze che ci regalano nuovi rischi, ambientali e terroristici.
Tutto ciò va osservato a occhi aperti e mente lucida, non per disperarsi ma per esplorare la giusta direzione con cui integrare le innovazioni che il mercato propone a flusso continuo. Capire su quali puntare, come e in collaborazione con chi. Le tecnologie più moderne possono svolgere un ruolo di fattore abilitante fondamentale, se usate con intelligenza umana e lungimiranza. Un “se” che sembra retorico, ma che si rivela complesso da implementare, portando miglioramenti concreti nella qualità della vita dei cittadini, come singoli e come elementi di una comunità.
Usare il digitale con intelligenza oggi significa cogliere l’occasione per cambiare il modo di considerare e progettare la sicurezza urbana, abbandonando una volta per tutte la cultura dell’emergenza tanto diffusa in Italia (e a volte molto comoda), per adottare quella della prevenzione. E, a proposito di lungimiranza, un forte impegno va messo anche nell’innescare un cambio culturale che possa portare alla crescita di una coscienza collettiva di bene pubblico e, molto più pragmaticamente, all’aumentare del numero di professionisti con skill digitali che se ne vogliono prendere cura.
IT al servizio dei dati, dati al servizio delle città
Come disponendo a ventaglio le carte da gioco ricevute, prima di iniziare la sfida, è essenziale conoscere le principali tecnologie che si hanno tra le mani per mettere a terra una sicurezza urbana rinnovata e innovativa.
Anche in questo ambito, come in tutti gli altri, al centro ci sono i dati, siano essi immagini, rilevamento di accessi, operazioni finanziarie. Per capire, quindi, su quali asset IT è opportuno puntare, basta dare la priorità a tutto ciò che gira loro attorno. Le tecnologie per raccoglierli, trasmetterli, analizzarli, proteggerli e, perché no, in taluni casi anche per condividerli. Tra le principali che abilitano i nuovi servizi di sicurezza urbana ne spiccano tre: Internet of Things (IoT), intelligenza artificiale (AI) e Big Data Analytics.
La prima abbraccia, per esempio, ogni genere di sensore che si possa immaginare sparso nel contesto urbano. Quelli che avrebbero il potere, per lo meno secondo il visionario ed esperto architetto Carlo Ratti del MIT di Boston, di trasformare le smart cities in Sense-able Cities: “città capaci di sentire”. Sentire in senso ampio, suoni ma anche pericoli e sensazioni, essere in grado di monitorare e gestire le più svariate e imprevedibili minacce alla sicurezza urbana. Subito il pensiero va alle telecamere ma la sfida, per la PA e per i provider, è quella di immaginarne anche altri, per dare vita a una vasta rete di dispositivi digitali capaci di comunicare e interagire tra loro per vegliare sulla città. Valgono quindi anche i sensori intelligenti, i vari software avanzati, gli attuatori e ogni dispositivo di monitoraggio che dimostri di saper raccogliere e trasferire i dati via internet. Meglio se senza alcun intervento da parte dell’uomo ma tramite reti wireless o cablate.
A poco serve l’enorme mole di informazioni raccolte e trasmesse se non vengono trasformate in input per chi le riceve. In input che non si limitino a disegnare il quadro della sicurezza urbana ma forniscano suggerimenti costruttivi e strategicamente unici per prendere decisioni più adeguate, efficaci e tempestive. Entrano quindi in gioco i big data analytics, tutte le tecniche e le tecnologie per l’elaborazione e l’analisi dei dati, sia che siano diffuse sul territorio, sia che siano centralizzate. Nel primo caso si parla di data analytics on the edge, e l’analisi viene condotta su un insieme più piccolo di dati, in prossimità del sensore che li elabora e memorizza localmente. Nel secondo si chiede aiuto al cloud (big data cloud analytics), per aumentare il numero di dati utilizzati, pagando però in latenza, perché vengono trattati non più all’edge ma nei data center in cui vengono fatti confluire.
Si fa ancora più vicino l’obiettivo di prendere decisioni più informate e tempestive, perché data driven, da quando (o se) vengono adottate soluzioni IoT che arricchiscono le piattaforme di big data analytics con algoritmi di Intelligenza Artificiale. Oggi questa tecnologia rischia di apparire come il placebo per tutti i mali, ma in questo caso, è un integratore efficace e fortemente consigliato. E senza particolari controindicazioni. Oltre a semplificare la gestione dei dispositivi connessi, sfida complessa con l’inevitabile aumentare del numero di oggetti smart, regala anche nuovi insights. Il suo contributo al momento risulta più che mai prezioso nel momento in cui essa permette di estrarre informazioni dalle immagini delle telecamere, senza violare la privacy, rielaborandole per riconoscere situazioni di potenziale pericolo.
L’attraente e futuribile immagine di sicurezza urbana supportata da una rete intelligente di oggetti e macchine connessi non può fare a meno di contemplare anche la presenza di tecnologie abilitanti come i sistemi di archiviazione e le infrastrutture di comunicazione, che siano reti IP e mobile, o l’emergente 5G.
Per quanto riguarda la parte di storage, la spinta è verso il cloud ed è definitiva: è l’unica strada che porta all’unico modello di sicurezza urbana che oggi può funzionare. Quello della sicurezza integrata, dove a essere integrati sono i vari operatori e la loro parte IT grazie al cloud che diventa terreno comune di collaborazione e strumento funzionale a un scambio di informazioni virtuoso ma anche sicuro. I vantaggi di questa tecnologia ormai ben diffusa tra le PA locali e nazionali sono evidenti e irrinunciabili. In chiave di sicurezza, tra i più importanti emergono la semplificazione della gestione dei servizi informativi, gli aggiornamenti continui dell’infrastruttura e delle applicazioni e l’estrema flessibilità nel provare nuovi servizi o apportare modifiche. Tra cloud e IoT, ci sono poi le reti di diversa tipologia e generazione di cui tener conto, mentre tra sensori si comunica con quelle wireless. Quella LoRa (Long Range), per esempio, interconnette ad ampio raggio sensori e attuatori, mentre il 5G promette alta velocità di connessione e bassa latenza, collegando simultaneamente un numero inedito di dispositivi connessi. Queste sue virtù ben si sposano con le necessità dei sistemi di videosorveglianza urbana che ne possono beneficiare per diventare più performanti, efficaci e puntuali. Nel concreto, una maggiore densità dell’infrastruttura di rete 5G e dei sensori stessi significa immagini condivise tra i soggetti interessati in real time, per una totale copertura di quanto avviene sul territorio attraverso numerosi video. Poterli trasmettere in altissima definizione senza pagare in latenza permette di non rinunciare a particolari importanti della scena, a volte chiave per identificare targhe di veicoli e oggetti. E anche persone, a volte.
Difendere i cittadini o la loro privacy?
Non far inquadrare alcuna persona da un sistema di telesorveglianza sarebbe totalmente un controsenso. Non far inquadrare persone non coinvolte, al momento è tecnicamente impossibile. Ci si pone quindi la fatidica domanda: come riuscire a coniugare al meglio privacy, protezione dei dati personali e sicurezza urbana?
Le prime due vanno distinte tra loro, ma vanno a braccetto e sono entrambe tutelate come diritti dalla Carta dei fondamentali dell’Unione europea (articoli 7 e 8). La sicurezza urbana, che chiede di vedere e conoscere, appare invece in contrapposizione con questi due preziosi diritti e sembra a volte chiedere di scegliere tra lei e loro. Soprattutto grazie alle nuove tecnologie, e alle evoluzioni normative europee, questa sensazione di essere alle strette risulta oggi esagerata: esistono spazi di manovra. Tutto sta nella ricerca del punto di equilibrio, utile e sensato, senza trasmettere l’idea che più sicurezza equivale a meno privacy. Non è così, infatti: oggi è possibile garantire un più alto livello di sicurezza sfruttando solo le informazioni desunte dall’elaborazione di alcuni dati personali, continuando a ignorare i dati stessi nello specifico.
Una sottile ma fondamentale differenza che trasforma la sicurezza urbana da nemica della privacy ad alleata dei cittadini. Un cambio di approccio che va innescato con determinazione e investimenti, studiando quali dati trattare e con quali modalità, senza mai staccare lo sguardo dalla finalità perseguita.
Vincere la partita della sicurezza urbana nel 2024 (e oltre) passa per il garantire la massima protezione dei dati personali, minimizzando il senso di intrusione nella sfera privata. Due sono i fronti su cui agire in tal senso, uno più tecnologico e uno relazionale. Bisogna per prima cosa fare in modo di elaborare i dati assicurandosi di desumere solo quanto strettamente necessario al proprio fine, utilizzando unicamente quelli indispensabili e proteggendoli in maniera efficace. Allo stesso tempo, prima, durante e dopo, è essenziale comunicare in modo chiaro, comprensibile e trasparente non solo quali dati trattiamo, come e perché, ma anche come li mettiamo in sicurezza e perché la strategia scelta dovrebbe scongiurare ogni intrusione nella sfera privata.
I cittadini non devono assolutamente avere la sensazione di essere controllati. A ricordare loro questo diritto nel 2016 ci ha pensato l’Unione Europea con il GDPR e la Direttiva Ue 680, attuata nel nostro ordinamento con il dl 18 maggio 2018, in cui nell’articolo 51 si cita il trattamento di dati personali svolti per finalità di polizia e giustizia.
Queste norme sono da considerare rivoluzionarie: oltre a svegliare (o risvegliare) la coscienza di quei cittadini che si erano arresi ad una prospettiva di “grande fratello PA”, hanno costretto chiunque tratti dati personali ad assumersi la responsabilità della modalità con cui sceglie di farlo. Un cambio culturale legato alla presa d’atto realistica dell’impossibilità di poter individuare un approccio universale per la data protection. Ogni specifico caso di trattamento di dati ha finalità, tecnologie a tipologia di dati raccolti e profilo di rischio specifici. Il titolare di tale attività non può quindi passare per mero esecutore di una legge scritta da altri: lui stesso e solo lui può e deve definire e documentare le regole facendosi responsabile della loro idoneità e della loro efficacia.
Si può fare: cosa, come e subito
Pur avendo depotenziato l’apparente dilemma dello scegliere tra privacy e sicurezza, tale criticità nel quotidiano resta un tema con cui fare i conti. Anche se sulla carta le soluzioni si possono costruire, vanno poi implementate e, ancora, fatte percepire correttamente ai cittadini. Ciò che spesso confonde in ambito sicurezza, infatti, è proprio il gap tra ciò che viene percepito e ciò che è invece reale. Anche le volte in cui i numeri dei reati in ambiente urbano decrescono, capita che gli abitanti abbiamo la sensazione di subire un peggioramento della propria qualità di vita. È una conferma dell’importanza di affiancare una strategia di comunicazione coinvolgente ed efficace alle azioni di sicurezza sul campo.
Inutile negare che questo rende la sfida della sicurezza urbana ancora più complessa. Per fortuna esistono progetti concreti e realizzati – o in avanzata fase di realizzazione – che dimostrano che si può fare. Molti ruotano attorno o hanno inizio dalla videosorveglianza, comprensibilmente, e sfruttano la possibilità riservata ai Comuni e a pochi altri di installare telecamere connesse per la tutela della sicurezza urbana in luoghi pubblici o aperti al pubblico, riprendendo strade e piazze. E inevitabilmente anche persone. Il conseguente probabile trattamento di dati personali è regolato dal GDPR che stabilisce limitazioni in merito a tempi di conservazione, finalità di trattamento e requisiti tecnici dei sistemi di videosorveglianza. E fa ricadere sulla PA le responsabilità legate alla loro installazione, suggerendo buone pratiche come una valutazione d’impatto per assicurare la trasparenza del trattamento, e la stipula di appositi patti per la sicurezza anche con Polizia di Stato e Carabinieri. Passaggi importanti che non devono essere confusi con certi step burocratici a volte privi di scopo. In questo caso gli obiettivi sono chiari e condivisibili. Si vogliono per esempio evitare trattamenti a rischio come lo scoring, il monitoraggio sistematico, la manipolazione di dati relativi a soggetti vulnerabili e l’abuso del riconoscimento facciale. Si vogliono garantire i diritti dell’interessato, (GDPR dall’art. 12 all’art. 23) quali quelli di accesso, rettifica, limitazione del trattamento e opposizione al trattamento. E quelli alla cancellazione e alla portabilità dei dati.
Sono numerosi i comuni che non si sono fatti spaventare da questi presupposti e hanno implementato progetti con tante telecamere sparse in città ma interconnesse tra loro. Un aspetto essenziale per assicurare l’integrazione, la gestione e l’analisi delle immagini centralizzata, abilitate e abilitanti l’impiego delle nuove tecnologie, AI, ma non solo. Un passo in avanti rispetto al vecchio schema in cui migliaia di telecamere operavano per le strade ma in modo indipendente, impedendo di implementare quel paradigma di sicurezza integrata oggi necessario per permettere alle Forze dell’Ordine di essere sempre pronte e più preparate. Lo step successivo che alcune PA hanno già annunciato e messo in agenda, consiste nel realizzare una mappatura digitale dei sistemi di videosorveglianza estesa all’intero territorio provinciale, imperniata sulla geolocalizzazione degli impianti su mappa viaria digitale.
Questa evoluzione permetterebbe di risalire in tempo reale all’ubicazione e ai referenti tecnici di tutti gli impianti censiti, accelerando l’acquisizione dei dati da parte delle Forze di polizia in occasione di eventi criminosi. L’ideale, già tecnicamente possibile, sarebbe mettere in campo computer embedded realizzandovi applicazioni capaci di interagire con altri sensori esterni, per esempio installati sugli impianti di illuminazione pubblica, per ottimizzarne l’attività, trovando un compromesso efficace tra riduzione del consumo di energia elettrica e potenziamento della sicurezza urbana.
In un’ottica di innovazione continua, si può pensare anche all’utilizzo di Decision Support System (DSS), per guadagnare in reattività e ad associare all’interno dello stesso paradigma anche altre attività di smart city sempre inerenti alla qualità di vita dei cittadini, ma non solo in chiave sicurezza. Potrebbero, per esempio, riguardare il traffico stradale e i mezzi pubblici, oppure le attività ludiche e sportive come anche i parcheggi o la pulizia delle strade. All’aumentare del grado di integrazione di servizi aumentano anche i dati sull’adesso della città e, quindi, gli insights che se ne possono ricavare per migliorare la sicurezza urbana a breve ma anche a lungo termine. Tutte le attività di monitoraggio e controllo abilitate dalla tecnologia sono infatti da leggere come investimenti anche per il futuro. Sono sì essenziali per gli interventi di emergenza, ma restano preziose per stendere strategie di sicurezza più ragionate e durature. E data driven.
Ricordando il rischio di percezione pessimista da parte dei cittadini, una mossa vincente consiste nel loro coinvolgimento diretto. Le nuove tecnologie permettono per esempio di estendere la rete di raccolta dati in modo sicuro anche agli impianti privati, compresi i device di cittadini e turisti.
Oltre a diventare preziose fonti di informazione in real time, potranno anche in prima persona liberamente interagire con le istituzioni percependosi maggiormente al centro della città intelligente. Un vantaggio sociale che ha anche un risvolto tecnologico: decentralizzando le attività di analisi intelligente si può ridurre il carico di lavoro dei sistemi centrali, ma anche il traffico, con vantaggi facilmente intuibili.
Condizionati da un’ampia tradizione cinematografica dal forte potere di suggestione, si è portati a collegare l’idea di videosorveglianza con quella di efferati crimini e violenza su strada. Non va scordato, però, che questo tipo di sistemi sono altrettanto fondamentali anche per la tutela del decoro di luoghi particolari (sensibili, di culto o protetti), per la sicurezza legata ai pubblici esercizi e al contrasto dello spaccio. Sono inoltre un investimento per assicurarsi un alto livello di efficienza anche dal punto di vista della prevenzione, per lasciarsi alle spalle l’ottica dell’emergenza che l’Italia tanto tarda ad abbandonare. Un passaggio oggi più che mai necessario, che va fatto scegliendo e investendo sul digitale in ottica di sicurezza urbana con un approccio future ready. Ciò significa spendere quel che si può ma farlo su tecnologie che possono essere in un secondo momento fatte evolvere o potenziate, perché assicurino la rilevazione e la prevenzione delle situazioni di pericolo attraverso una continua ed efficace condivisione di informazioni anche con altre forze di Polizia competenti, ma non solo. Le stesse tecnologie, se ben progettate e sviluppate, possono aiutare la PA a tutelare gli immobili di proprietà o in gestione dell’Amministrazione Comunale e gli edifici pubblici, prevenendo eventuali atti di vandalismo o danneggiamento, per esempio. E anche a ridurre le situazioni di degrado causate dall’abbandono di rifiuti su aree pubbliche o dal formarsi di discariche di materiali e di sostanze pericolose e monitorare il rispetto delle disposizioni concernenti modalità, tipologia e orario di deposito dei rifiuti. Tutti aspetti che, in un film, fanno meno effetto, ma che concorrono in modo significativo al tipo di percezione che chi vive o capita in città ha, girando per le strade e le piazze con più o meno serenità e piacere.
È al sicuro la sicurezza con l’AI Act?
Quando si sta per approvare la prima legge al mondo sull’intelligenza artificiale si ha l’onore di doverne comprendere gli impatti anche sulla sicurezza, senza poter fare tesoro di alcuna precedente esperienza, positiva o negativa che sia. È quello che accade con l’AI Act europeo, chiamato a regolare l’uso di tale tecnologia sul suo territorio, anche quando diventa potenziale strumento di indagini in mano alle forze dell’ordine.
In tal caso, si definiscono tre casistiche di pensabile utilizzo. Per pratiche come la sorveglianza di massa, il divieto dell’UE è assoluto e perentorio e vietata è anche la produzione e la vendita di questo sistema. Via libera, invece, alle immagini da videocamere di sicurezza, in differita rispetto ai fatti, sempre nel rispetto dei diritti fondamentali. Possono dare un importante contributo nell’individuare o incastrare criminali. E poi c’è il caso critico: quello dell’identificazione biometrica in tempo reale nei luoghi pubblici, generalmente proibita, ma consentita in casi eccezionali.
Questo “ma” lascia spazio a numerose valutazioni e dubbi, a domande e risposte attorno alla ricerca di un compromesso ragionevole e che possa essere agilmente accettato dai membri UE, pur nella loro diversità di posizioni.
Quando i sistemi AI diventano un mezzo per “categorizzare singole persone fisiche sulla base dei loro dati biometrici dedurne la razza, le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, le convinzioni religiose o filosofiche, la vita sessuale o l’orientamento sessuale”, si ha il divieto di utilizzarli. Similmente quando sono alla base di dinamiche di social scoring finalizzate “alla valutazione o alla classificazione di persone fisiche o di gruppi sulla base del loro comportamento sociale o di dati personali noti, dedotti o previsti”.
Se queste due casistiche possono essere piuttosto ovvie, per chi abita in Europa, più complesso è prendere una posizione sulla polizia predittiva. Cosa succede e cosa si rischia se gli algoritmi di AI vengono sfruttati per prevedere le probabilità con cui può essere commesso un reato? Le indagini possono beneficiarne ma tale pratica fa attrito con il principio della presunzione di innocenza e dello stato di diritto rischia di sfociare in una sorveglianza di massa. L’AI Act va a definire nello specifico come si devono comportare le forze dell’ordine mentre proibisce tassativamente l’analisi delle emozioni tramite AI.
Particolarmente rilevante, in termini di sicurezza urbana, anche il trattamento normativo che l’Europa riserva alla telesorveglianza via AI. Se in tempo reale, è consentita solo in alcuni casi specifici (per esempio in caso di rapimento, tratta di esseri umani o sfruttamento sessuale, persone scomparse, attacco terroristico). In ogni caso, deve esserci l’autorizzazione da parte di un’autorità giudiziaria o amministrativa che, in caso di utilizzo in differita, deve solo poter vedere tutti i documenti raccolti e prodotti sfruttando l’AI in indagini specifiche. Come ormai abbiamo imparato, ci vorrà tempo perché le indicazioni dell’UE diventino reali regole applicate nella quotidianità. Nel caso dell’AI Act vanno anche fatte delle distinzioni. Le regole per la biometria non in tempo reale entreranno in vigore 36 mesi dopo l’uscita del regolamento in Gazzetta Ufficiale, quindi tra il 2026 e il 2027, mentre quelle per le pratiche proibite scatteranno dopo sei mesi.
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