Digital divide e PA: una sfida inclusiva funzionale a un’AI di massa

Il gap infrastrutturale divide il Paese a metà, Nord-Sud, quello di competenze crea nel Paese tante isole digitalmente fragili verso cui costruire ponti, assieme
14 Agosto 2024 |
Marta Abbà

Apartheid tecnologico è un termine duro ed è quello che la stessa Europa utilizza per definire il rischio di un digital divide non colmato. Se diventa cronica, la distanza di competenze e mezzi digitali arriva a rappresentare una crepa profonda che isola completamente una fetta di popolazione, quella più fragile.

Apartheid significa letteralmente separazione, situazione che spesso nuoce a entrambi i soggetti coinvolti, proprio come accade in questo caso. Il digital divide limita i diritti di chi resta indietro, ma danneggia anche il Paese che avanza, ignorando le difficoltà di una sua parte, trascinandola con sé come un arto fantasma che duole, anche se non sempre lo si avverte subito.

Apartheid tecnologico è un termine clonato appositamente per spaventare, per spronare chi rischia di attuarlo, come l’Italia, a pianificare interventi decisi e rapidi. Ci devono pensare lo Stato e la PA, ma non da soli: serve anche il contributo degli operatori di mercato, per quanto riguarda le tecnologie, e del terzo settore come dei singoli, per quanto invece concerne le competenze e l’essenziale voglia di essere parte di un Paese che evolve.

Perché l’UE ha a cuore l’uguaglianza digitale

Le parole hanno un peso e quando le si usa, bisogna calibrarle. Quello pesante che il termine scelto per parlare di digital divide porta con sé, lo si spiega immaginando i rischi legati alla carenza nell’infrastruttura necessaria per accedere a una rete internet ad alta velocità. Restarne tagliati fuori, oggi, significa sentirsi negare il diritto all’informazione e all’accesso ai servizi essenziali come quelli della PA e di telemedicina, ma anche quelli più ludici, come lo streaming video e i social network. A livello di Paese, un Internet NON per tutti rallenta lo sviluppo economico, anche se quella che resta tagliata fuori magari non è la fascia più produttiva per il Paese. Gli effetti a lungo termine sono difficili da immaginare, ma tutt’altro che lievi.

L’Unione Europea ha il ruolo di vegliare su questo tipo di orizzonti cupi, perché restino lontani dal panorama del continente. Ha infatti già più volte chiesto agli Stati membri un impegno convinto a garantire l’accesso a una connettività di elevata qualità per tutte le persone, ovunque, comprese quelle a basso reddito. Insiste tuttora perché si promuova un Internet neutro e aperto che non permetta nessun blocco di app e servizi.

Allo stesso tempo, a suo tempo, con l’Agenda digitale europea aveva definito gli obiettivi tecnici, per diffondere l’accesso alla banda larga e abilitare quanto sopra. In breve chiedeva una banda larga di base (fino a 30 Mbps) per tutti entro il 2013, una banda larga veloce (almeno 30 Mbps o più) per tutti entro il 2020, e una banda larga ultraveloce (oltre 100 Mbps) per almeno il 50% degli utenti domestici europei entro il 2020.

Il primo obiettivo è stato raggiunto da tutti, compresa l’Italia, ma sugli altri si sta ancora lavorando, tranne che a Malta. Solo questa isola ha infatti una copertura totale, nel resto del territorio europeo in media solo il 70% delle case è raggiunto dalla banda larga veloce. Per il 2025, anche se ormai è praticamente dopo domani, la Commissione Europea continua ad aspirare a una copertura universale con velocità di almeno 100 Mbps. Un obiettivo ambizioso che rappresenta solo una tappa: entro il 2030 l’Europa sogna una connettività omogenea e a velocità superiore a 1 Gigabite.

20 anni di lavori in corso. Quanti ancora?

A partire dalla legge Stanca del 2004, che mirava a garantire l’accesso a Internet anche ai soggetti disabili (con specifico richiamo all’art.3 Cost. sull’eguaglianza sostanziale dei cittadini), in Italia il tema di Internet come servizio universale è stato trattato nelle sue varie accezioni. Dopo 20 anni tondi tondi, emergono ancora tante asperità sul territorio, riportate con ligia precisione anche nel documento “Broadband coverage europe 2021” della Commissione Europea dedicato alla capacità di connessione a Internet di tutti i paesi dell’Unione.

A pagina 120 si inizia a parlare di Italia e della disparità imbarazzante che esiste sia tra una regione e l’altra, sia tra zone rurali e urbane. In termini di banda larga NGA (Next generation access), l’alta velocità fino a qualche tempo fa risultava disponibile per il 97% delle famiglie italiane ma solo per l’88,4% di quelle residenti in aree rurali.

Per stimare il gap tra Nord e Sud, ci viene invece in aiuto l’Istat che misura la differenza del grado di diffusione di Internet nelle famiglie del Centro Nord, pari all’83,3% e ne evidenzia la differenza rispetto al 77,6% di quello relativo al Mezzogiorno. Dati del 2021, di quando il PNRR era alle prime armi e iniziava appena a darsi da fare per supportare il Paese nel completamento della rete nazionale ultraveloce e di telecomunicazione 5G su tutto il territorio. Un passo fondamentale per colmare il divario digitale, da compiere con il supporto degli operatori di mercato secondo i quali, entro il 2026, dovrebbero essere connesse, a velocità di 1 Gigabite, circa 8,5 milioni di famiglie, imprese e PA.

Pur non negando i passi avanti fatti con le progressive e documentate implementazioni di infrastrutture a banda ultra-larga, va prestata attenzione alla fotografia scattata nel 2023 da Istat in cui emergono discrepanze territoriali ancora rilevanti. Nel report dedicato (“I divari territoriali nel Pnrr: dieci obiettivi nel Mezzogiorno”) si afferma che il 60% dei residenti del Mezzogiorno ha difficoltà ad accedere ad una connessione Internet veloce e le zone rurali e le generazioni più anziane sono tuttora escluse dal mondo digitale.

Il digital divide non è digitale

La mancanza di accesso alle tecnologie non è l’unica leva su cui agire per colmare le differenze 2.0 tra diverse fasce di popolazione. Anche la carenza di competenze è fondamentale ed è meno banale da affrontare di quanto non sembri, se si vuole davvero un Paese tutto d’un pezzo, per lo meno nel suo rapporto con la tecnologia. 

Esiste il forte bisogno di una cultura digitale inclusiva, indipendentemente dall’età, dal background socio-economico o dalla regione di residenza. Serve promuoverla in modo corale, per supportare lo sviluppo dell’ecosistema economico, per garantire diritti fondamentali ai singoli.

Tutto ciò proprio quando il nostro Paese sembra a tratti assuefatto ai dati che descrivono il digital divide di cui soffre, tanto da non sentirne il dolore e non percepirne il rischio connesso.

Anche e soprattutto per questo, una cura circostanziata non servirebbe per eliminarlo. Come spiega Paola Liberace, Dirigente dell’Ufficio organizzazione e gestione del personale di AgID, “per colmare il digital divide non può essere adottato un approccio a senso unico: bisogna coglierne la complessità”.

Nonostante il nome, il digital divide non riguarda il digitale. Liberace lo precisa subito, e i dati Istat del 2023 che descrivono “costanti condizioni di svantaggio socio-economiche, culturali e territoriali” le danno ragione.

All’Italia mancano le condizioni al contorno per un’evoluzione digitale della sua cittadinanza. “Lavorare solo sulla tecnologia sarebbe del tutto illogico – continua Liberace – bisogna intervenire con una pluralità di attori, comprese le scuole e le imprese, partendo col favorire una maggior diffusione delle lauree in materie STEM, anche tra le donne. Abbiamo livelli di iscritte molto più bassi della media europea nonostante si dica da tempo che si deve lavorare su questa disparità di orientamento agli studi. È un problema culturale impattante sull’intera società”.

Puntare il dito sul digital divide, senza indagarne le radici è quindi tempo perso. Misurare quanto è profondo l’abisso da colmare può essere utile, ma solo se i dati emersi vengono poi interpretati come “indicatori figli di altri indicatori”. Allo stesso modo, agire sul territorio può essere utile per un soggetto come AgID, ma solo se si accetta di fare da promotori ad un ecosistema virtuoso a tre poli composto da PA, aziende e cittadini. “Non servono meri erogatori di servizi all’utenza e non è ciò che vogliamo essere – chiarisce Liberace – rappresentiamo come un lievito per la digitalizzazione, capace di promuovere un’interazione virtuosa in modo concreto e diffuso”.

Grazie al PNRR sono stati realizzati punti di facilitazione digitale in tutto il territorio, per una maggiore diffusione di competenze digitali base, e si lavora sull’accessibilità cercando di creare le condizioni di fondo per migliorare la capacità dei cittadini di accedere ai servizi. Ciò significa che non ci si rivolge direttamente ai singoli, per ora, ma si agisce sui dipendenti delle PA e delle realtà private fornendo kit ad hoc, e mettendo a terra strumenti made in Europe come il Single digital gateway.

Proprio AgID è il soggetto attuatore di questa misura di digitalizzazione mirata all’armonizzazione tra tutti gli Stati membri e alla completa digitalizzazione di 21 procedure e servizi di particolare rilevanza per i cittadini europei. Nel nostro Paese sono 230 gli enti pubblici direttamente coinvolti tra PA centrali, regioni e province autonome, città metropolitane, ASL e AO, università ed enti di ricerca.

“È il primo seme del nostro progetto di Academy che unisce le energie di PA, aziende e cittadini per un apprendimento attivo costruito collettivamente. Vogliamo raggiungere tutta l’amministrazione, e poi in seconda battuta anche i cittadini, attraverso un percorso formativo modulare, da comporre a piacere, ricco di attività di laboratorio e iniziative per creare community, strumenti di knowledge management e di formazione sincrona e asincrona – spiega Liberace –  abbiamo optato per un approccio non unidirezionale per uscire dalla tradizionale linearità delle attività formative e scommettere su un paradigma di formazione interattivo e partecipato”.

È proprio sul solco di questa presa di posizione decisa che si instaura la scelta di intraprendere un lavoro a più livelli, partendo dall’alfabetizzazione e dall’inclusione scolastica, ma senza lanciare offerte formative ad hoc per alcune categorie. “Sarebbe uno sfoggiare un’etichetta sexy, utile forse a livello di immagine, ma non efficace per i reali beneficiari, perché spesso quelle che mancano sono le precondizioni, a partire dalla partecipazione alla vita civile – spiega Liberace – vanno inoltre guardate tutte le criticità, senza conservare paraocchi dettati da convenzioni e stereotipi: non c’è solo un problema di integrazione di immigrati, anche tra i giovani la scolarizzazione post covid è scarsa e scarse sono le loro competenze generali, prima ancora di quelle digitali. Servono le condizioni per costruire kit di competenze sane: non possiamo limitarci a condividere qualche trick per usare app e servizi. Per quelli basta guardare Youtube”.

Dal rendere accessibile al creare già accessibile

Tra chi lavora quotidianamente perché in Italia tutti abbiano il diritto di accedere a informazioni e servizi più semplici, efficienti e gradevoli da utilizzare, c’è ASPHI. Questa associazione che da 40 anni si occupa di tecnologie digitali per l’inclusività, è tuttora in prima fila per aiutare AgID e il Paese a colmare il digital divide, agendo sia dal punto di vista tecnico che culturale.

Su siti e app della PA effettua la verifica tecnica di accessibilità controllando nei minimi dettagli che siano rispettati i requisiti tecnici definiti dalle “Linee Guida per l’Accessibilità” e realizzando un report finale con il verdetto.

Coinvolgendo poi numerosi utenti con disabilità, procede con una valutazione dell’usabilità attraverso una serie di prove funzionali per poi essere in grado di segnalare difficoltà, suggerire miglioramenti e monitorare alcuni parametri qualitativi come la semplicità d’uso, l’adattabilità, la facilità di apprendimento, l’efficacia. Ma tutto ciò sarebbe lavoro buttato senza un opportuno e fortemente necessario impegno nella sensibilizzazione verso le aziende sia pubbliche che private in merito al valore sociale, economico, tecnologico dell’accessibilità e usabilità digitale. Aumenta il numero di potenziali utenti e la produttività dei dipendenti, inclusi quelli con disabilità, oltre ad entrare nella rendicontazione non finanziaria di sostenibilità.

Tutti concetti ribaditi da tanti soggetti, ASPHI compreso, ma che questa associazione traduce anche in iniziative concrete sul territorio, facendo formazione in modo capillare e mirato. Formazione tecnica, rivolta ai responsabili dello sviluppo, web master, web designer, sviluppatori, creatori di contenuti, per fornire le competenze necessarie a progettare, realizzare e gestire sistemi informatici conformi alle normative. E formazione “di mindset”, rivolta alle figure apicali, in cui affronta il tema del Disability Management sia verso il personale interno “da gestire e valorizzare e non ghettizzare”, sia verso potenziali utenti esterni, “in ottica inclusiva, per ogni servizio e iniziativa”.

A spiegarlo è Beatrice De Luca che in ASPHI si occupa proprio di accessibilità digitale per PA e aziende e che sottolinea il vero problema con cui l’Italia deve ancora fare i conti. “A 20 anni dalla legge Stanca c’è una maggiore attenzione al tema dell’accessibilità ma si continua a ragionare su questo aspetto ex post – denuncia – ci si chiede se un sito o un’app sono accessibili solo dopo averli realizzati: non si parte mai progettandoli già accessibili in partenza. Questo mostra come tutto questo sia una questione di cultura e di sensibilità: in Italia manca ancora una mentalità inclusiva, sia nella PA, sia nelle aziende”.

Citizen Jury sulla mobilità

La carenza di mindset inclusivo non riguarda solo le disabilità: è ampia, è a suo modo inclusiva, nel senso che riguarda molti, a volte addirittura tutti i cittadini che possono rischiare di rimanere esclusi da iniziative che li riguardano direttamente. Che li riguarderebbero, che li devono riguardare e su cui dovrebbero poter dire la propria opinione.

Pionieristica in tal senso, tanto da essere inserita tra le Best Practices della piattaforma Knowledge Valorisation della Commissione Europea, l’iniziativa realizzata dalla Fondazione Giannino Bassetti con Regione Lombardia nell’ambito di TRANSFORM (Territories as Responsive and Accountable Networks of S3 through new Forms of Open and Responsible decision-Making). Questo progetto è finanziato dalla Commissione Europea e mira a coinvolgere i cittadini nelle decisioni su ricerca e innovazione a livello regionale. Fondazione Bassetti è riuscita a dare a una giuria di cittadini (Citizen Jury) il permesso di dire la propria opinione sul tema della mobilità intelligente (smart) e di vederla poi integrata nelle politiche regionali, passando dalla fase di progettazione a quella di attuazione.

Un’opportunità di esprimere i bisogni e priorità dal basso, ma anche “un nuovo modo aperto e partecipato di pensare l’innovazione” spiega il presidente della Fondazione, Francesco Samoré, precisando l’obiettivo del progetto: “rendere la ricerca e l’innovazione più vicine ai bisogni, alle aspettative e ai valori della società tramite coinvolgimento diretto di ricercatori e imprese, cittadini e pubbliche amministrazioni”.

Istruzioni per una “Society for all ages”

Facendo leva sui dati delle Nazioni Unite che raccontano una “World Population 2050” con una quota di over 65 anni maggiore del 40%, per lo meno in Europa, Fondazione Bassetti porta avanti anche un massiccio lavoro di formazione e informazione, e di delicata ma costante e profonda sensibilizzazione, focalizzata sulla fascia di popolazione anziana.

La trasformazione demografica e l’innovazione non sono e non potranno mai essere considerate in modo separato. Prenderne atto è fondamentale per un Paese come l’Italia, e per farlo e comprendere come muoversi in modo coerente, efficace e consapevole serve un aiuto, una bussola. La Fondazione l’ha creata, si chiama “Society for all ages” ed è un maxi dossier con dati, informazioni, report internazionali e contributi di studiosi, per esplorare le modalità con cui un fenomeno demografico come longevità o de-giovanimento, interagisce con uno o più dei fenomeni innovativi come le neuroscienze, la robotica o l’intelligenza artificiale.

Uno strumento del sapere ma anche del fare, del fare scelte politiche, per le istituzioni, scelte economiche, per il mercato, scelte valoriali, sia per gli individui che per la collettività. L’invito che si legge nelle pagine e tra le righe del documento è quello di ripensare il rapporto di interdipendenza tra generazioni, e con esso, anche le politiche del lavoro, il mercato, le relazioni sociali, le disuguaglianze.

All’interno di questo quadro che può sembrare teorico e astratto, si collocano anche iniziative di estrema concretezza, confidando diventino esemplari e da scalare. Una vede protagonista il terzo settore che, nonostante il nome, è in primissima fila impegnato nella transizione digitale. Si tratta della Comunità di Pratiche della Camera di Commercio Como-Lecco, avviata con Fondazione Bassetti coinvolgendo partner territoriali nel campo dell’innovazione sociale, digitale, tecnologica e scientifica per intervenire nel punto di intersezione tra società civile e processi di innovazione, spaziando dall’educazione degli adolescenti alle soluzioni digitali healthcare per gli anziani.

Dovunque venga chiamato a intervenire, il terzo settore si trova e si troverà infatti a dover rispondere a sfide digitali molto grosse e non si può permettere di essere soggetto a digital divide. Con la Comunità di Pratiche è stato possibile avviare un fruttuoso scambio di competenze tra mondo digitale e imprese del Terzo Settore, fino a generare concrete proposte progettuali a vantaggio del sistema stesso. Tra i soggetti attuatori compaiono anche il Polo territoriale di Lecco del Politecnico di Milano, il CNR – STIIMA (Istituto per i Sistemi e Tecnologie Industriali Intelligenti per il Manifatturiero Avanzato) e ComoNExt, a dimostrazione di quanto sia importante il lavoro di squadra per la Fondazione, anche per creare occasioni di apprendimento reciproco e mettere a punto forme di amministrazione condivise, partecipate, co-programmate e co-progettate. Da questo approccio, in questo progetto territoriale fortemente innovativo e lungimirante, sono nate esperienze reali di progettazione di tecnologie abilitanti esportabili anche in contesti diversi dal terzo settore, di promozione di un approccio human centered a partire dal design di prodotti e servizi e di creazione di nuove professionalità per far fronte a una mancanza di competenze tecnologiche/digitali, di posizioni finance, marketing, ingegnerizzazione del prodotto che portino con loro un cambiamento di narrazione.

E se si vuol continuare a guardare avanti, con la priorità di creare e fornire al territorio competenze per una innovazione inclusiva, un lavoro importante è quello svolto in collaborazione con la Fondazione Ravasi Garzanti nell’ambito del corso che Fondazione coordina presso il Politecnico di Milano. “Abbiamo invitato gli studenti a sviluppare progetti di innovazione lanciando il tema delle diverse generazioni, per stimolare un approccio inclusivo e far fronte al rischio esclusione. Nelle aule del grosso polo di competenze milanese si aspira quindi a “una società per tutte le età”, raccogliendo idee fresche dalle nuove generazioni ma, prima ancora, spingendole a progettare in modo inclusivo da subito, by design, e non porsi tale problema solo in fase di verifica.

Dieci saggi bastano per innovare bene

Un’altra innovazione dedicata alle nuove generazioni e a quelle più in là con gli anni, ma che allo stesso tempo include anche la fascia mediana, è il Forum Regionale per la Ricerca e l’Innovazione. Si tratta di un comitato di dieci saggi con il compito di supportare Regione Lombardia nella definizione delle politiche legate alla Ricerca e all’Innovazione e ridurre il divide tra innovazione e società.

Un compito decisamente impegnativo, soprattutto per come oggi corre veloce l’innovazione, ma tale accelerazione non può essere una scusa per non prestare attenzione ai suoi impatti sociali e all’evoluzione dei rapporti tra tecnologia, scienza e società.

Dopo un primo “ciclo di saggi” in carica tre anni con successo, il Forum è stato rinnovato e oggi è operativo un nuovo board che non ha certo tempo né modo di annoiarsi. Tra i temi sul tavolo dei nuovi esperti indipendenti selezionati, l’inclusività dei processi di ricerca e innovazione, la formazione di una nuova generazione di talenti tecnologici attenti all’impatto sociale e di policy makers capaci di regolamentare efficacemente l’uso delle tecnologie e la creazione di modelli di welfare che rafforzino il ruolo dell’imprenditorialità sociale. Anche in tempi di innovazione digitale repentina e imprevedibile come quella a cui stiamo assistendo. 

Pronti all’AI? O tutti o nessuno

I temi complessi affrontati nel Forum appaiono quasi semplici al cospetto di “quella sfida enorme che ci aspetta, rappresentata dall’intelligenza artificiale”. A ricordarla e sottolinearla torna Paola Liberace (AgID): “A brevissimo assisteremo a una adozione di massa, un orizzonte che non possiamo fingere di non vedere. Anzi, dobbiamo vigilare perché è importante che alcune attività restino in capo al genere umano e la distinzione deve essere molto chiara – spiega – Oggi ci si accosta a chatGPT e ad altri simili strumenti AI quasi solo per divertirsi, ma bisogna occuparsi di insegnare in modo diffuso come vengono trattati i nostri dati e cosa possiamo davvero delegare alla macchina, non dando consigli isolati o regole ma creando reale e profonda consapevolezza nell’intera popolazione. Tutti devono arrivare a capire che esiste una soglia di decisione che non va mai varcata e che su alcune questioni deve restare l’uomo a scegliere. Non sono competenze digitali ma civili, di base. Ancora una volta quel che chiamiamo digital non parte dal digitale e richiede un lavoro solido fatto sulla base. Per lavorare sul digitale bisogna quindi lavorare sull’uomo, per evitare che la nuova buzzword di turno si impadronisca di noi”.

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