Digitalizzare la biodiversità: si può e ci serve

Il National Biodiversity Future Center sta costruendo una grande piattaforma supportata da Cineca per valorizzare un invidiabile patrimonio tutto italiano e 100% naturale
29 Agosto 2024 |
Marta Abbà

Erbario, museo, raccolte. Sono termini che richiamano in molti di noi ricordi e immagini di bacheche polverose, dove un legno sbiadito dal tempo incornicia lastre di vetro opaco, proteggendo resti di un patrimonio che consideriamo di default di valore, perché in un museo. Ma sapremmo davvero spiegare perché è prezioso, anche per il nostro futuro?

Il suono che vi si associa è quello di passi regolari in lunghi corridoi dal soffitto spazioso, un ticchettio che fa sembrare ancora più piccolo ciò che vi è esposto. In quelli dell’Erbario Centrale Italiano di Firenze, ci sono frammenti raccolti dal giovane Charles Darwin e da scienziate sette-ottocentesche come Elisabetta Fiorini Mazzanti, Silvia Zenari e Jeanne Baret, pioniere di una scienza aperta anche alle donne che stiamo ancora in molte aspettando. E anche quelli su cui si sono fatti le ossa l’allievo prediletto di Linneo, Carl Thunberg e l’antropologo e scrittore Fosco Maraini. Nomi noti e importanti, degni di quella che oggi è la più grande collezione italiana e una delle più importanti al mondo, per quanto riguarda i campioni botanici. Fondata nel 1842, grazie allo scienziato siciliano Filippo Parlatore, come centro di primo piano di ricerche e scambi internazionali di campioni, oggi, dopo quasi due secoli, questo grande erbario torna ad esserlo. Grazie alla tecnologia.

L’erbario va on line

Tra piante a semi, muschi, felci, alghe, funghi e licheni, in questo scrigno delle meraviglie ancora troppo poco noto ai più, gli oltre 2 milioni di campioni botanici stanno diventando anche digitali, assieme a etichette e documenti correlati. È un progetto da oltre 7 milioni di euro, ufficialmente, sulle carte del National Biodiversity Future Center (NBFC) che lo ha finanziato con i fondi del PNRR, ma vale molto di più. È un’operazione epocale per il patrimonio naturalistico italiano, per proteggerlo, conoscerlo e promuoverlo in tutto il mondo.

“Digitalizzare la biodiversità, partendo dagli erbari storici del nostro paese, rappresenta un traguardo importante per il nostro centro. È il modo per rendere disponibile all’intera comunità scientifica, ma anche a imprese, enti e cittadini, una quantità enorme di conoscenze che potranno aiutarci a gestire nel modo migliore le risorse naturali e a generare valore da queste”, spiega il direttore scientifico del NBFC Massimo Labra.

“Grazie alla intelligenza artificiale e alla biodiversity informatics (l’applicazione di tecnologie informatiche alla gestione, all’esplorazione algoritmica, all’analisi e all’interpretazione dei dati primari riguardanti la vita, in particolare a livello di organizzazione delle specie) sarà possibile utilizzare questi dati per fare indagini predittive sui rischi della biodiversità, comprendere l’effetto di modelli di gestione efficaci e individuare sistemi di ripristino e rafforzamento della natura – aggiunge – e va poi ricordato anche un punto essenziale di questo erbario digitale: sarà un database pubblico, accessibile e sempre in aggiornamento che permetterà all’Italia di diventare uno dei Paesi più avanzati in termini di conoscenza storica e di dettaglio della biodiversità”

Trasformare la natura in bit

Si fa presto a dire “lo si mette on line”, oggi. Anzi, sembra quasi difficile non essere on line, anche se si desiderano pace e privacy. Ma la biodiversità italiana non ha questo tipo di problemi e si sta prestando ad essere trasformata in bit da una squadra di esperti all’opera in turni da 6 ore, per 12 ore al giorno di digitalizzazione in continuo.

Sono arrivati a Firenze da oltre frontiera due rulli trasportatori da 16 metri l’uno e tutti i macchinari necessari a tenere il ritmo e processare in tempi brevi oltre 4 milioni di campioni botanici, estraendo anche le informazioni presenti in etichetta, partendo dal nome e da dove, come e quando sono state raccolte. E da chi.

Lo racconta Stefano Martellos, professore di Botanica Sistematica dell’Università degli Studi di Trieste, senza nascondere il costo, pari a 1,5 € cadauno: “il minimo, perché si lavora in serie e su milioni e milioni di pezzi” precisa. Economie di scala, altrimenti il prezzo sarebbe un ostacolo, come in molti altri casi lo è. L’investimento economico richiesto per la digitalizzazione, quando per esempio deve essere svolta a mano, rappresenta tuttora la maggiore criticità, secondo Martellos. Ma c’è anche la questione della formazione del personale e quella dell’interoperabilità: “ogni museo ha un suo dataset, le sue logiche di catalogazione e conservazione e i suoi strumenti. Non è automatico che questi diversi sistemi si colleghino e si parlino”.

Quindi vale davvero la pena di farlo? Al di là della poesia del gesto, e della sua resa in termini di visibilità, ci sono ragioni concrete e radicate per affrontare le sfide umane e operative che Martellos ha snocciolato senza mezzi termini. “La digitalizzazione aumenta le possibilità di conservazione dei campioni fisici, perché minimizza le occasioni in cui vengono toccati, pur permettendo a tutti di accedervi per studiarli” spiega, sottolineando anche la necessità di “aprire la scatola, per scoprire davvero in cosa consiste il patrimonio di biodiversità che l’Italia custodisce nei propri musei, sia pubblici che privati, catalogarlo e farlo conoscere. Ad oggi non sappiamo assolutamente quantificarlo. Anche quello conservato nello stesso erbario di Firenze si pensava fosse costituito da 4,5 milioni di campioni e invece sono 2,5”.

Avendo macchinari, fondi e tempo a disposizione per digitalizzarne 4,2 milioni, alcuni verranno fatti arrivare dagli altri maggiori erbari italiani come quelli di Padova, Torino e Roma con un trasporto eccezionale e l’okay della soprintendenza.

Se l’idea è quella di mettere on line tutto quello che i musei italiani conservano in termini di biodiversità, non è però pensabile far arrivare tutto a Firenze, e non sarebbe neppure sensato. Infatti, il NBFC ha steso un accordo di collaborazione con ITINERIS, per la digitalizzazione e la valorizzazione della biodiversità italiana e mediterranea. Questo progetto PNRR che mira a creare un hub nazionale per rendere sinergiche le oltre 20 infrastrutture di ricerca in campo ambientale sparse per il territorio, è funzionale e complementare a quanto si sta facendo in questi mesi a Firenze. Tramite ITINERIS, l’operazione iniziata in questa città raggiunge infatti le collezioni naturalistiche distribuite da Nord a Sud, non solo di piante ma anche di animali terresti e specie marine, preservando così un patrimonio di notevole valore scientifico e culturale grazie a un piano massivo e focalizzato e alla preziosa presenza di un Comitato Scientifico di Coordinamento, per la condivisione di strategie di selezione scientifica delle collezioni e di definizione di sinergie tecnico-scientifiche.

Chiamare a raccolta le raccolte

“Abbiamo collezioni da almeno 200 anni e tuttora non sappiamo dove sono, né quante esattamente sono, e men che meno cosa contengono esattamente” conferma Elena Canadelli, professoressa di Storia della Scienza dell’Università di Padova, ricordando l’importante passaggio costituito dal censimento realizzato dall’Associazione Nazionale Musei Scientifici (ANMS). “Solo quelli di storia naturale contengono 1200 collezioni con circa 26 milioni di campioni: c’è un grande lavoro da fare e il NBCF ha cominciato a farlo – spiega Canadelli – il suo ruolo è quello di spingere la collaborazione, coordinare e fare da stimolo, vegliando perché tutto si faccia mantenendo una logica di insieme”.

Non è scontato, in un Paese di tanti Comuni come il nostro, ma se esiste un ente che può farlo, questo è il centro nazionale dedicato alla biodiversità. NBFC si è messo in gioco con un’ampia squadra di esperti e andando ben oltre alla digitalizzazione e all’affitto di rulli: il disegno generale è più ampio e lascia immaginare anche un master in museologia naturalistica. Un obiettivo ambizioso ma raggiungibile. Anzi, Canadelli è la prima a raccontare come “ci siano troppi vincoli che frenano l’Italia, come il fatto che spesso ogni comune o ente decida da solo, per la totale mancanza di un coordinamento nazionale. Il nostro centro, in tal senso, può iniziare a informare e sensibilizzare le piccole PA, per esempio dimostrando che per le collezioni minori non è impossibile la digitalizzazione ma, anzi, ci sono bandi dedicati che possono renderla anche economicamente accessibile”.

NBFC offre consulenze e supporto per la digitalizzazione e soprattutto porta questo patrimonio al mondo attraverso il gateway, una infrastruttura che punta a generare innovazione dalla biodiversità diventando una sorta di acceleratore nazionale dedicato, perché avvenga in tempi brevi un vero e proprio cambio di mentalità. “In Italia resta ancora valido un paradigma di conservazione del patrimonio di biodiversità che la comunità internazionale ha superato da tempo. Oggi, infatti, ne chiede la contestualizzazione ampia, anche storico sociale, e la valorizzazione” sottolinea Canadelli. Fondamentale, in tal senso, sarebbe agire sulla formazione e prima ancora sulla presenza di giovani interessati, con la loro passione fresca e le loro idee innovative e in sintonia con le attuali tendenze in Europa. “Per cambiare lo scenario della ricerca sulla biodiversità e capire sempre meglio come valorizzarla e guadagnarci, servirebbe un percorso di studi dedicato, anche ad alti livelli professionali, oltre che a strategie di comunicazione e sensibilizzazione più generali”.

Un altro passaggio fondamentale e su cui Canadelli insiste fortemente, è lo sblocco di un dialogo, oggi praticamente assente, tra scienza e materie umanistiche. “Lo studio della storia delle collezioni, come si sono formate, il contesto storico che ne ha visto la nascita e le narrazioni legate ai singoli campioni, sono un ‘patrimonio del patrimonio’ – spiega – stiamo realizzando diverse collaborazioni internazionali proprio sulla ricerca riguardante la storia della catalogazione, per agevolare una concreta integrazione di competenze diverse, che spazi tra storytelling, analisi genetiche e innovazione. Dialoghiamo con altri Paesi Europei e questi sono temi sentiti, che ci connettono con città importanti, agevolando progettualità condivise”.

DNA e Biobanca: in arrivo test sul campo

La digitalizzazione delle collezioni botaniche italiane ha suscitato grande interesse per la ricchezza storica ad esse legata, ma non solo. L’operazione portata avanti dal NBFC porta con sé un massiccio tesoro tecnologico pronto a supportare la ricerca di frontiera. Si intende l’intelligenza artificiale, ormai immancabile, che aiuta a individuare quello che si desidera in modo veloce ed efficace all’interno di enormi database e che facilita la digitalizzazione delle informazioni riportate sulle singole etichette, nemmeno sempre in modo comodo e uniforme.

Ma nuove tecnologie non sono sinonimo di AI: c’è molto di più e di diverso, di meno ovvio, ma di altrettanto game-changer. Per esempio il DNA barcoding.

Questa metodologia sta permettendo di associare ai campioni dell’erbario più rappresentativi della biodiversità nazionali le informazioni riguardanti il DNA delle singole specie, una sorta di codice a barre univoco che permette di distinguere una specie dall’altra, un po’ come accade per i prodotti del supermercato. “Per arrivare al dettaglio delle varietà, servirebbe un test complesso e lungo come quello della paternità, ma già questi dati offrono ai ricercatori di tutto il mondo una nuova grande opportunità di ampliare i propri studi” spiega Jessica Frigerio, ricercatrice dell’Università di Milano Bicocca.

Non è come analizzare campioni freschi che hanno un DNA integro: quello preso dalle collezioni museali va da sé che possa essere parzialmente degradato, ma con la tecnica del bar coding basta una piccola regione di DNA per fornire un marker genetico utile, accessibile in termini di costo e di tempi. Frigerio parla di attese di un paio di giorni e di prezzi attorno ai 10 euro per campione: “sta iniziando ad esserci mercato, soprattutto spinto dal settore food, per esempio per lo studio di allergeni, per la sicurezza e la tracciabilità alimentare, per la lotta contro le frodi”. Questo è un modo per valorizzare i nostri erbari storici ed il loro DNA collegandole alle esigenze di oggi come la tracciabilità alimentare e il controllo dei patogeni.

Per favorirne l’accessibilità e la fruizione, si sta realizzando una Biobanca di DNA anche con campioni freschi del DNA di tutte le specie italiane. Data la quantità dì biodiversità che ci tocca conservare, il rischio è quello di perdersi nei corridoi di questo grande magazzino di sequenze genetiche. NBFC sta quindi confezionando dei dataset pronti all’uso, “con dati sicuri, validati e garantiti dal nostro centro, che fa da unico riferimento neutro e affidabile” sottolinea Frigerio, spiegando che quelli che si trovano on line risultano molto vasti e dispersivi, oltre a non essere spesso sicuri.

Ci saranno kit contro l’adulterazione alimentare, per aiutare le aziende a individuare contaminanti all’interno delle sostanze inserite nel loro processo di produzione. Un brillante esempio è quello dello zafferano: quando triturato, potrebbe contenere percentuali di polveri non riconoscibili, non nocive, ma meno costose, che ne abbasserebbero, il valore ma non il prezzo al bancone. Una delle possibili truffe da cui il settore vuole sempre meglio proteggersi. Altre simili avvengono nel mondo degli integratori: alcuni ingredienti di origine botanica sono a volte sbandierati in etichetta, ma poi sostituiti nella ricetta con altri simili e meno efficaci. Capita con l’arnica montana e i suoi tanti sosia minori, tra cui quella messicana, riconoscibile con l’analisi del DNA, avendo molecole bioattive diverse. C’è poi il mondo ittico che sguazza in diverse truffe, tanto che esistono dei test antifrode portatili e utilizzabili da chiunque. Ricordano tristemente quelli per il Covid, ma in questo caso servono per distinguere le diverse tipologie di sgombro: l’una non vale l’altra. I possibili utilizzi che si stanno immaginando, però, non si limitano al settore alimentare. Un kit genetico portatile ultrasensibile ci aiuterà anche a individuare le specie invasive presenti in incognito negli sfalci urbani, per poi ridurne la presenza in modo mirato, con interventi efficaci.

Una NBFC digital platform, per sempre

Tanti sono e saranno i dataset specifici che si potranno creare pescando dai sempre più numerosi campioni conservati nella Biobanca di DNA situata presso l’Università di Milano-Bicocca. Ma non ci sarà bisogno di recarvisi, come se si dovessero ritirare libri in biblioteca: i vari dati genetici dei campioni italiani saranno collegati ad altre risorse di dati prodotti da NBFC, come quelle delle molecole bioattive presenti nelle diverse piante, e tutti questi strati della piattaforma saranno accessibile attraverso delle API. Questa speciale repository, che conterrà dati di digitalizzazione degli erbari e dei campioni museali animali, informazioni sul DNA e sulle molecole bioattive ha una sua area riservata nella NBFC digital platform, quella che Donatella Spano, professoressa dell’Università di Sassari, definisce “il nostro lascito”. 

“Oggi all’Italia servono dati, ben conservati e disponibili, ma non solo: anche una forte standardizzazione e il monitoraggio continuo della propria biodiversità. Studiando quanto già realizzato in altri Paesi, abbiamo formato gruppi di lavoro multidisciplinari su questo tema, per mettere alla pari l’Italia e facilitare il lavoro di vari settori: la ricerca, le PA e gli amministratori, ma anche le aziende e i cittadini” spiega Spano.

Questa platform è il gemello digitale della biodiversità italiana, un digital twin forse più complesso da immaginare nel concreto, rispetto a quello della Terra, di un vulcano, di una città o di una fabbrica, ma che è fondamentale per valorizzarla e far capire cosa significa concretamente perderla. Tra le aree che lo compongono, oltre alla digitalizzazione delle collezioni di storia naturale, alla biodiversità molecolare, c’è anche quella dedicata a biomolecole, biorisorse e bioattività. Al lavoro c’è una folta squadra che si sta occupando di realizzare lo screening di 8000-10.000 molecole bioattive ricavate da waste biomass e da una collezione di circa 600 specie italiane, per individuare quali sarebbero potenzialmente utili in prodotti per la salute.  E poi c’è la BEF, quella che parla di biodiversità e funzione dell’ecosistema (BEF).


I “modelloni” nazionali

In questo gemello digitale per il monitoraggio, lo studio e la gestione della biodiversità non si può non considerare il suo forte legame con quello che nei documenti è indicato come “funzioni e servizi ecosistemici correlati”. Parole che non ne lasciano immaginare l’importanza. Di fatto nell’area BEF si studia e monitora cosa significa per l’Italia perdere biodiversità e come evitare che si continui a farlo. Servono elevate potenze di calcolo e tanti input comuni per i modelli e l’analisi dei dati, informazioni elaborate ma soprattutto i core models per monitorare la biodiversità e le relative funzioni ecosistemiche in tempo quasi reale, offrendo così possibili allarmi precoci. Il “Three Dimension Forest Ecosystem Model” simula dinamicamente la crescita delle foreste, l’allocazione del carbonio e altre dinamiche in popolazioni eterogenee, il modello “ParFlow” racconta invece come evolve il bacino idrografico, simulando anche topografia complessa, geologia, eterogeneità e alcuni processi accoppiati terra-superficie come il bilancio energetico del terreno, la biogeochimica e la neve. C’è poi il Community Land Model (CLM) dedicato ai processi fisici, chimici e biologici con cui gli ecosistemi terrestri influenzano il clima e come sono a loro volta influenzati. Il quarto modello, lo “Hierarchical Modelling of Species Communities (HMSC)”, esplorando presenze o abbondanze di varie specie, stima le risposte a livello di comunità e cattura le interazioni biotiche ma può anche indicare per esempio i tratti delle specie o le relazioni filogenetiche.

Il silente motore nazionale che salverà la biodiversità

Sembra tutto molto tecnico, lo deve essere per aiutare chi nel settore della ricerca o dell’industria ha preso davvero sul serio la mission del NBFC: valorizzare la biodiversità italiana. Per perseguirla, servono grande quantità di dati e modelli, e la piattaforma digitale nazionale dedicata che ora finalmente stiamo vedendo prender forma. È fondamentale per risolvere quelle complessità che da sempre hanno costituito un’ottima scusa per non fare nulla. O poco. Qualcuna la racconta Gabriella Scipione, responsabile Data Analytics Management & Analytics HPC presso Cineca: “i dati spesso non erano disponibili in formato digitale o risultavano di difficile accesso. Alcuni erano frammentati in diversi portali settoriali e sparsi in database online. A molti centri di ricerca mancano poi le competenze o le risorse computazionali per digitalizzare”.

La consapevolezza della necessità di far confluire big data e risorse di calcolo in nome della biodiversità, ha portato Cineca nella squadra nazionale. Il centro di calcolo con sede a Bologna ha parecchi compiti strategici. Sono meno mediaticamente affascinanti, ma sono fondamentali perché questa imponente operazione di salvataggio e valorizzazione della biodiversità abbia successo.

Solo lui con la sua infrastruttura può riorganizzare, digitalizzare e armonizzare i dataset nazionali esistenti, per renderli accessibili e utili a un ampio pubblico, fornire un accesso semplificato a insiemi di dati complessi, compresi quelli sul clima ospitati da Copernicus, ospitare un catalogo di modelli/strumenti e fornire servizi di monitoraggio, conservazione e pianificazione della biodiversità a tante diverse tipologie di utenti.

“Le varie aree della piattaforma ospitata sono collegate e i risultati di una sono spesso utili come input per un’altra – spiega Scipione – abbiamo messo in campo il supercomputer Leonardo e una infrastruttura cloud di calcolo meno potente, ma utile per mettere i dati a disposizione delle persone”. Tutta la tecnologia di Cineca al servizio della biodiversità, quindi, “ma la vera sfida è stata quella delle persone. La biodiversità è un campo nuovo per il supercomputing, e viceversa. È stato necessario un profondo lavoro di conoscenza reciproca e di collaborazione, per mettere in comune competenze di dominio ed esperienze. Un lavoro di squadra con tavoli dedicati a dati e modelli AI, un lavoro totalmente scevro da logiche tipiche dei rapporti fornitori utenti che inaugura un nuovo mindset collaborativo unico, funzionale e favorito dalla nostra posizione di ente neutro e super partes”.

 

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