Sul panorama energetico mondiale soffiano venti inquietanti. Lo squilibrio fra domanda e offerta globale sta causando situazioni di effettiva scarsità e, di conseguenza, aumenti di prezzo pesanti e generalizzati. I costi della transizione energetica e della decarbonizzazione la pagano tutti. L’opinione pubblica assiste impotente e viene a sua volta distratta dal mito del passaggio all’auto elettrica, come se la sostituzione del petrolio con l’elettricità fosse di per sé stessa un elemento positivo per l’ambiente, senza tenere conto di come viene prodotta l’energia elettrica necessaria per muovere le automobili. Fenomeni macroeconomici del tutto inattesi, in cui si colloca il vettore idrogeno, che sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, tant’è che nel mondo si moltiplicano gli sforzi per sviluppare una vera e propria economia dell’idrogeno.
Calato nel contesto nazionale, analizzando le implicazioni in termini di competitività economica, industriale e geopolitica, il nuovo vettore energetico può perimetrare una filiera italiana dell’idrogeno ben posizionata nel contesto europeo e globale, fissando però alcuni passaggi come obiettivi primari perché, ad oggi, l’itero sistema è ancora estremamente immaturo – anche se incredibilmente promettente – e lo sviluppo di una filiera integrata comporta enormi sfide da dover affrontare. Nei fatti c’è una intera filiera da progettare e un modello di business tutto da costruire. Ci vorrà del tempo per il suo sviluppo; anche per sviluppare la tecnologia del petrolio ci sono voluti 50 anni; dunque, ce ne potrebbero volere altri 50 anche per l’idrogeno pulito. Ma le potenzialità ci sono e c’è da essere ottimisti. Si stima che l’idrogeno verde possa diventare sostenibile dal punto di vista economico dal 2030, quando in Italia, la sua penetrazione negli impieghi finali dovrebbe raggiungere il 2%, con l’obiettivo di arrivare al 20% entro il 2050.
‹‹La via che ci porta verso un futuro pulito è fatta di idrogeno. E passa per l’Italia.›› Sono le parole che ha usato John Kerry, l’inviato speciale della Casa Bianca per il clima, nella sua visita in Italia al termine dei lavori della COP26. Sebbene l’idrogeno giochi al momento un ruolo marginale nella filiera energetica (rappresenta solo il 2% del mix energetico dell’Unione europea e circa l’1% in Italia), non c’è documento della Commissione europea o del nostro Governo che non citi l’idrogeno come futuro vettore energetico. A luglio 2020, l’Unione europea ha varato la Strategia europea per l’idrogeno, con un finanziamento di 470 miliardi di euro, destinati a progetti di ricerca e di produzione di idrogeno verde prodotto dall’elettrolisi alimentata da fonti rinnovabili. Da allora si sono catalizzate grandissime aspettative, anche perché la posizione della Commissione europea ha rappresentato un forte stimolo al potenziamento delle filiere industriali di tutti gli Stati membri e di una catena del valore di cui l’Europa è leader con ricerca, sviluppo industriale innovativo e occupazione.
Secondo la strategia europea, per la produzione di idrogeno verde e blu, l’istituzione dell’European Clean Hydrogen Alliance fissa l’obiettivo di unire enti pubblici e privati alla società civile in un indirizzo armonico verso la neutralità carbonica a cui l’Italia si è allineata con il PNIEC e iniziando a creare una Strategia Nazionale sull’idrogeno, forte degli incentivi europei e nazionali.
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L’idrogeno viene citato nel Piano Strategico Nazionale della Mobilità sostenibile, con investimenti nell’acquisto di autobus e mezzi non inquinanti. Viene citato nel Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC). L’idrogeno viene citato anche nel PNRR, dove sono programmati investimenti per 3,2 miliardi per la promozione della produzione, distribuzione e uso finale, particolarmente in campo industriale e nel trasporto pesante. Una parte consistente delle risorse (2 mld) è indirizzata alla riconversione di alcuni grandi siti [ENI, SNAM, l’ILVA di Taranto] e alla promozione di interventi di cattura e sequestro (o stoccaggio) del diossido di carbonio (come a Ravenna). Gli altri interventi del PNRR prevedono:
• Produzione in aree industriali dismesse (0,5 mld) – sviluppare una rete per l’idrogeno granulare, rivolto a PMI e stazioni per camion o trasporto pubblico locale (hydrogen valleys).
• Idrogeno per il trasporto stradale (0,2 mld) – 40 stazioni di rifornimento per autocarri a lungo raggio, in aree e nodi strategici per i trasporti stradali pesanti.
• Idrogeno per il trasporto ferroviario (0,3 mld) – trasformazione di linee ferroviarie diesel, in aree con possibilità di sinergie con le stazioni di rifornimento per camion.
• Ricerca e sviluppo – migliorare la conoscenza delle tecnologie legate all’idrogeno in tutte le fasi, sviluppando un relativo network su idrogeno verde; tecnologie per stoccaggio e trasporto, celle a combustibile; resilienza delle attuali infrastrutture.
Cosa ci dice la lettura integrata di questi documenti del Governo? Ci dice che, per l’idrogeno, qualcosa si muove. Anche se la situazione ancora è in chiaroscuro, con forti impegni di spesa, ma con ancora poca chiarezza nelle regole e negli obiettivi intermedi.
Il comparto privato è rappresentato dagli impegni di Snam e dalla conversione green delle bioraffinerie di Eni, seguite da altri attori che stanno portando avanti diversi progetti a livello nazionale ma anche di cooperazione internazionale. È di qualche mese fa, la notizia che Eni, Edison e Snam (tre nomi pesanti), in collaborazione con la Fondazione Politecnico di Milano e il Politecnico di Milano, hanno dato il via ad una nuova piattaforma congiunta per la ricerca sul valore dell’idrogeno. Il progetto prende il nome di Hydrogen Joint Research Platform e rappresenta un importante punto di partenza per un sistema che si auspica in messa a terra già entro il 2030.
Sul fronte pubblico, invece, il Ministero dello Sviluppo Economico ha attivato uno specifico tavolo sull’idrogeno che raggruppa oltre 70 stakeholders nazionali interessati allo sviluppo e alle applicazioni di tale vettore. È stato elaborato un primo documento preliminare che definisce le Linee Guida per la Strategia nazionale sull’idrogeno. Qualche tempo fa il documento è stato messo in consultazione; tuttavia non è stato ancora formalmente adottato. Se ne sono perse le tracce, tant’è che da più parti si alzano appelli affinché il Governo si doti di una strategia nazionale, come hanno già fatto Germania, Francia e Spagna.
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È arrivato il momento che il Governo italiano supporti concretamente lo sviluppo di un ecosistema industriale nazionale, approvando al più presto la Strategia nazionale idrogeno. Una strategia in cui sia delineato un quadro più organico dello sviluppo dell’idrogeno verde in Italia, da coordinare anche con i prossimi impegni del PNIEC, di cui una versione aggiornata verrà rilasciata nel 2022. Sarebbe auspicabile sfruttare anche questa finestra per dare concretezza a una visione più compiuta e sfidante. Anche perché l’Italia ha il potenziale per posizionarsi strategicamente in tutti i settori di riferimento della filiera idrogeno: produzione, logistica e trasporto, industria, mobilità, residenziale. Il nostro Paese ha grandi capacità tecnologiche e di progettazione. Abbiamo grandi operatori e aziende determinanti nell’apertura del mercato. Molte nostre piccole aziende sono tra i maggiori leader mondiali in componenti per soluzioni di stoccaggio dell’idrogeno. Start-up innovative potrebbero trovare nuova linfa da collaborazioni con Università e Centri di ricerca. L’Italia può contare anche su grandi enti nazionali della ricerca e dell’energia in grado di porsi come soggetti capofila per innovazione e trasferimento tecnologico valorizzando soluzioni efficienti, in relazione a costi emergenti ed esternalità di sistema. Il nostro settore pubblico della ricerca ottiene riconoscimenti internazionali sia per le fasi sperimentali che di realizzazione applicativa. Inoltre, l’Italia può contare sulla quota di rinnovabili nella produzione di energia elettrica (17,8%), ma anche su elevate competenze nella produzione di biogas e biometano, che la rendono più propensa alla produzione di idrogeno verde.
È vero che adottare l’idrogeno su larga scala comporterà benefici a livello ambientale e che parlare di idrogeno verde vuol dire proiettarsi nel futuro, ma ciò comporta dover affrontare da subito diverse sfide. Oggi, la quasi totalità di idrogeno prodotto, quello marrone e grigio, ha un impatto molto forte e negativo sull’ambiente. D’altra parte, però, i suoi costi di produzione sono mediamente bassi. Il tema della produzione di idrogeno pulito, quello verde, sta tutto qui. È una tecnologia molto preziosa, ma al momento molto energivora, quindi da maneggiare con cura. La sfida principale sta tutta nel come produrla a costi competitivi con gli attuali, ma senza emissioni di CO2 in atmosfera. E per vincere questa sfida, ci sono anche elementi economici, politici, tecnologici, e di sicurezza che devono essere considerati per lo sviluppo di un ecosistema industriale nazionale per l’idrogeno. Di conseguenza il tema dovrà essere visto da diverse prospettive, perché il raggiungimento degli obiettivi che l’Italia si è posta al 2030 dipenderà fortemente da alcuni fattori, endogeni ed esogeni.
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Fattori endogeni
• Avere maggiori capacità energetica disponibile da fonti rinnovabili;
• Avere un quadro giuridico-normativo e una strategia nazionale che regoli i rapporti P2P (Peer to Peer);
• Stabilire meccanismi di incentivazione (comprese misure per gli oneri di rete) per adattamenti infrastrutturali graduali e altamente innovativi;
• Dotarsi gradualmente di una rete di distribuzione e standard di sicurezza ad hoc;
• Finanziare iniziative di ricerca e sviluppo.
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Fattori esogeni
• I prezzi delle materie prime;
• L’evoluzione della regolamentazione in materia di emissioni.
Sono i fattori endogeni quelli che richiedono maggiormente l’attenzione del Governo e del Parlamento. Come primo fattore endogeno, occorre avere a disposizione una maggiore capacità energetica disponibile da fonti rinnovabili. Per come stanno le cose oggi, l’idrogeno verde è una prospettiva importante, ma per il 2030 il suo contributo sarà vicino allo zero. La produzione di idrogeno è energivora, andrebbe utilizzata solo in specifici settori. È una risorsa che richiede un aumento imponente della capacità elettrica rinnovabile. L’idrogeno, in altre parole, pone un dilemma per il futuro del sistema energetico, in Italia come in altri Paesi. Finché non avremo grandi surplus di elettricità rinnovabile, cosa che non avverrà prima del 2030, usare l’elettricità per alimentare idrogeno e poi utilizzarlo per alimentare le auto o riscaldare gli edifici è in netto contrasto con l’obiettivo di aumentare l’efficienza energetica. Se da un lato la ricerca sull’idrogeno e la diffusione delle rinnovabili devono continuare, dall’altro è arrivato il momento – non solo per l’Italia ma per tutta l’Unione Europea – di prendere decisioni politiche sulle priorità, e si deve fare una scelta chiara tra puntare sull’elettrificazione diretta o sull’idrogeno. Qualunque strada sarà scelta, bisogna avere la consapevolezza che questa transizione non sarà gratis e che occorrerà un imponente aumento della elettricità rinnovabile, in termini di reti e capacità di stoccaggio.
È necessario costruire un quadro regolatorio. Un quadro normativo che parta da una definizione univoca di idrogeno verde, che a oggi non risulta essere completamente chiara e definita. Peraltro in Italia manca una base legale – legge o regolamento – che regoli l’accesso dell’idrogeno alle reti del gas. L’assenza di un quadro giuridico rappresenta il principale limite alla realizzazione di una completa decarbonizzazione del riscaldamento domestico. Gli enti normatori e i regolatori europei dell’energia (ACER e CEER) hanno un ruolo chiave nel definire il quadro normativo e hanno pubblicato una serie di raccomandazioni su quando e come regolare l’infrastruttura dedicata all’idrogeno. Il Governo dovrebbe presidiare di più questi tavoli di lavoro, perché è lì che si decidono le misure in termini di regolamentazione, di esenzioni per l’utilizzo di infrastrutture; è lì che si prevedono sovvenzioni per il riutilizzo delle reti del gas per trasportare idrogeno. Insomma è importante esserci, perché è stando lì che possiamo favorire una normazione comunitaria funzionale agli interessi nazionali.
In attesa che l’infrastruttura per il trasporto e la distribuzione dell’idrogeno, ancora tutta da fare, si possa realizzare, sarà cruciale affrontare il tema della sua produzione, centralizzata, decentrata o delocalizzata. Siccome non esiste un modello vincente tra quelli esistenti, sono da guardare con interesse le soluzioni dei distretti dell’idrogeno. Dalla Lombardia al Lazio, dall’Umbria alla Sicilia, numerosi player di settore hanno annunciato la nascita di “Valli dell’idrogeno”, un’espressione ricorrente e usata per definire quegli ecosistemi che includono sia la produzione che il consumo di idrogeno e che combinano ricerca, usi industriali, civili e mobilità sostenibile. Questa sfida è determinante, pertanto, bisogna mettere in atto una serie di misure, come lo snellimento burocratico dei processi di autorizzazione per l’installazione di impianti rinnovabili, in modo da assicurare un coordinamento tra le varie regioni, con piani locali implementati di conseguenza.
Il tema degli impianti, delle reti di trasporto del nuovo vettore, apre una questione geopolitica. È arrivato il momento che l’Italia definisca il proprio ruolo da ricoprire nel panorama europeo e mondiale. Se l’Italia vuole giocare un ruolo da protagonista, che veda il Paese andare oltre la produzione di idrogeno strettamente legato al solo consumo interno, deve pensare e agire da operatore internazionale che si muove nel mercato globale, come fanno oggi Francia e Germania. Potenzialmente l’Italia si trova in posizione geografica vantaggiosa per divenire un naturale collegamento infrastrutturale con il Nord Africa, in particolare col Marocco, da cui l’Europa potrebbe importare idrogeno prodotto da energia rinnovabile. Se l’Africa del Nord è un mercato destinato a crescere, viceversa l’area del Medio Oriente, rispetto al ruolo attuale nel settore dei combustibili fossili, rivestirà sicuramente un ruolo meno importante nei futuri mercati dell’idrogeno rinnovabile. Ma anche guardando al Medio Oriente, l’Italia potrebbe diventare un punto di distribuzione europeo importante, qualora decidesse di abbracciare il progetto saudita di produrre idrogeno verde, che potrebbe poi transitare dalla Grecia e arrivare nel nostro Paese. È una opzione sul tavolo, anche se farebbe sorgere interrogativi sull’opportunità di alleanze con i sauditi e dubbi sulla volontà di continuare a perpetuare un modello di dipendenza energetica cronica. Poi c’è l’opzione Cina. Sebbene la Cina resti il principale Paese responsabile delle emissioni globali, rimane il principale produttore mondiale di energie rinnovabili e tecnologie energetiche pulite, tant’è che in meno di due anni è stato il Paese con la più imponente diffusione di fotovoltaico, divenendo leader mondiale nella produzione di moduli fotovoltaici. Forse la strada verso una società dell’idrogeno è ancora lunga, ma se la Cina dovesse replicare il successo raggiunto con il solare fotovoltaico, da una prospettiva geopolitica, il Paese potrebbe imporsi come superpotenza dell’idrogeno. D’altronde la Cina sta investendo ingenti risorse in ricerca, soprattutto per il risolvere il problema della scarsità d’acqua dolce. A Shenzen è stato istituito il National Ocean Technology Centre, dove è in fase di sviluppo il progetto di cooperazione Cina-Europa per la generazione di energia e produzione di idrogeno dalle onde marine.
Oggi sono disponibili moderni strumenti, tutt’altro che invasivi, per estrarre energia elettrica dal mare. C’è il “pinguino”, uno strumento prodotto in Italia, che collocato a 50 metri di profondità produce energia elettrica senza alcun danno per la flora e la fauna marine. Un altro sistema è Iswec, un convertitore di energia dalle onde marine, sviluppato da Eni insieme a una società spin-off del Politecnico di Torino.
È perfetto per fornire energia elettrica a impianti off-shore, in particolare a piattaforme Oil&Gas. Il primo impianto pilota è già attivo a Ravenna, ma l’idea è quella di estendere il sistema anche in Sicilia, al largo delle coste di Gela. L’industrializzazione di Iswec sarà resa possibile da un accordo tra Eni, Cassa Depositi e Prestiti, Fincantieri e Terna, che stanno mettendo a sistema le competenze nei loro rispettivi ambiti per produrre impianti su scala industriale. Con questi strumenti e con gli altri che la scienza e la tecnologia svilupperanno nei prossimi anni, sarà possibile aprire la strada a un’applicazione dalla potenzialità illimitate: l’uso dell’acqua salata per alimentare le celle elettrolitiche, fino a poco tempo fa impossibile per problemi di corrosione degli impianti. Si tratta di progetti concreti nei quali, grazie alla creatività italiana, si dovrà continuare a investire e a lavorare. Progetti che appaiono in linea con quelli previsti sia a livello europeo che a quello italiano dal PNRR.
Se l’idrogeno verde è una grande opportunità, da non sprecare, occorre investire fortemente in ricerca e sviluppo. Secondo uno studio pubblicato da ENEA, ci sono oltre 130 attori della Ricerca e Sviluppo in Italia – comprese le università – attive nello sviluppo e implementazione delle tecnologie legate all’idrogeno. Ci sono grandi player della manifattura e dell’energia, che in collegamento con gli enti di ricerca, possono giocare un ruolo da protagonista nel consolidamento della filiera dell’idrogeno. The European House – Ambrosetti e Snam hanno realizzato un approfondito studio sull’idrogeno che, con numeri alla mano, attesta che l’industria italiana è leader manifatturiero nell’ambito della produzione di tecnologie termiche potenzialmente connesse all’idrogeno. Siamo il secondo produttore di tecnologie meccaniche utilizzate lungo la filiera dell’idrogeno. Possediamo la leadership in Europa su particolari tecnologie, per lo più componenti, come le valvole, per la gestione di gas in alta pressione. In questi settori, attraverso percorsi di riconversione e investimenti a supporto, potremmo ambire ad avere un ruolo da leader anche per altre applicazioni collegate all’idrogeno. L’industria italiana pesa per circa un quarto del mercato europeo anche nella produzione di impianti e componenti potenzialmente adattabili alla produzione futura di idrogeno verde e blu. Siamo secondi solo alla Germania, anche se la produzione, in questi due comparti, è focalizzata ora su impianti di scala molto ridotta, con un livello tecnologico ancora poco sviluppato, rispetto alle reali necessità della filiera dell’idrogeno. In questi settori, quindi, è necessario spingere su un’azione di scale-up produttivo facendo leva su politiche di trasferimento tecnologico. Da questo punto di vista è da valutare positivamente la nascita di Tech4Planet, il secondo Polo Nazionale di Trasferimento Tecnologico di CDP Venture Capital Sgr, che intende favorire, con un primo fondo di 55 milioni di euro, l’accesso al mercato e la crescita di nuove imprese concepite all’interno dei laboratori di ricerca e dedicate alla sostenibilità ambientale.
Dobbiamo colmare una carenza di ecosistema dell’innovazione sull’idrogeno. Per questo è importante favorire collaborazioni tra Università, Enti di Ricerca e imprese per fare massa critica e catalizzare fondi europei e nazionali. Per questo è importante che il Governo si impegni nell’istituzione e coordinamento di Tavoli di Lavoro e di dialogo periodici, per definire meglio di obiettivi di medio termine e come allocare efficientemente le risorse. L’evoluzione del settore richiederà anche figure professionali specializzate, in possesso di elevate conoscenze tecniche. Figure che si possono creare investendo sull’educazione, dalle scuole superiori fino a quella universitaria. Ci vuole un solido sistema di formazione professionale pubblico e gratuito. Si potrebbe pensare anche a protocolli tra università, enti di ricerca e rappresentanti delle imprese, per formare figure di alta qualificazione professionale, dei dottorati industriali in gestione di sistemi energetici sostenibili focalizzati sullo sviluppo di competenze economiche, gestionali e tecniche per gli specialisti dell’energia di domani.
Una sfida da non sottovalutare è il coinvolgimento dei cittadini. Sappiamo che l’idrogeno, soprattutto in Italia, ha un ruolo ancora limitato e prevalentemente legato al suo utilizzo come materia prima nei processi industriali. Questo contribuisce sicuramente a generare tra l’opinione pubblica una carenza informativa e un’erronea percezione che sarebbe opportuno superare. Per questo è importante l’elaborazione di norme tecniche e di sicurezza, nonché di soluzioni di alta qualità che rispettino tali norme. Lo sviluppo della filiera deve essere accompagnato da campagne informative e progetti educativi sulle tecnologie dell’idrogeno e sulle procedure di sicurezza applicate. Una strategia multilivello di comunicazione e sensibilizzazione, sia verso l’opinione pubblica, sia verso le aziende, per veicolare i benefici derivanti dallo sviluppo di una filiera nazionale dell’idrogeno in Italia. Il Parlamento italiano, inoltre, dovrebbe farsi promotore di iniziative per produrre e acquisire dati sulle possibili ripercussioni, opportunità e sfide, associate alla trasformazione dell’industria e dei trasporti in relazione a un maggiore utilizzo dell’idrogeno.
Lo sviluppo dell’idrogeno pulito costituisce un’occasione unica per accelerare la transizione globale verso un’economia a basse emissioni di carbonio e una grande potenzialità per il sistema industriale italiano. Ma lo sviluppo su ampia scala presenta importanti criticità. Decisori politici, investitori e gli altri attori coinvolti devono sapersi muovere tra le sfide e le opportunità di un’economia a basse emissioni carboniche, senza cadere nelle trappole e nelle inefficienze del passato. Gli stakeholders non soltanto devono valutare attentamente le conseguenze economiche, geopolitiche e ambientali dell’idrogeno verde, sviluppare strategie che ne tengano conto e definire piani di implementazione a lungo termine, ma è necessario lo facciano ora. È arrivato il momento delle scelte, partendo dall’approvazione definitiva della Strategia Nazionale elaborata dal MiSE.
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Per quanto riguarda lo sviluppo di una filiera idrogeno nel settore dei trasporti, occorre innanzitutto investire in ricerca e sviluppo e nelle infrastrutture di rifornimento. Esistono al momento in Italia solo progetti dimostrativi con risultati incoraggianti in termini di prestazioni energetico ed ambientali.
Per l’impiego dell’idrogeno nel settore navale sono in corso studi e ricerche che vedono l’Italia impegnata con i principali costruttori nazionali, ma i tempi di sviluppo e l’entità degli investimenti sono elevati. Ciò nonostante, a fine gennaio 2022, dal cantiere di Castellammare è scesa in mare la prima nave ad idrogeno del gruppo Fincantieri. Zeus, questo il nome dell’imbarcazione di ultima generazione, è dotata di un apparato ibrido (2 diesel generatori e 2 motori elettrici) da utilizzare come sistema di propulsione convenzionale. A questo si aggiungono un impianto di fuel cell di 130 kW, alimentato da circa 50 kg di idrogeno contenuti in 8 bombole a idruri metallici, secondo tecnologie già in uso sui sommergibili, e un sistema di batterie, che insieme consentiranno un’autonomia di circa 8 ore di navigazione a zero emissioni ad una velocità di circa 7,5 nodi. Il prototipo è ancora in lavorazione e da domani cominceranno le prove in acqua e l’allestimento. La consegna definitiva è prevista per l’estate. L’obiettivo della ricerca – secondo Fincantieri – è sviluppare un nuovo modello di generazione energetica elettrica e termica a bordo delle navi da crociera. Tale risultato consentirà di aumentare il livello di comfort dei passeggeri, riducendo la rumorosità e le vibrazioni prodotte dai sistemi generativi privi di parti meccaniche in movimento, di aumentare la sicurezza della nave, di ridurre la taglia dei generatori diesel imbarcati. Al progetto, realizzato nell’ambito del piano “Tecnologie a basso impatto ambientale” (TECBIA) e co-finanziato dal Ministero dello Sviluppo Economico, hanno collaborato diversi soggetti privati e pubblici (il CNR, le Università di Genova, Palermo e Napoli, l’Ente Nazionale di Ricerca e promozione per la standardizzazione e il RINA).
Anche nel settore ferroviario, l’idrogeno costituisce una valida alternativa laddove non sia presente l’infrastruttura elettrificata, per sostituire le locomotive diesel. A Milano il gruppo Ferrovie Nord ha presentato alla Commissione attività produttive della Camera il Progetto della prima “Hydrogen Valley” italiana, nella Valcamonica, lungo la linea ferroviaria Brescia-Iseo-Edolo. È previsto l’acquisto entro il 2023 di 6 treni a idrogeno per iniziare a sostituire la flotta diesel. Il primo impianto di produzione, stoccaggio e distribuzione di idrogeno, alimentato a biogas, sarà realizzato entro il 2023 a Iseo (Brescia). Ne seguiranno “uno o due” per l’idrogeno verde lungo il tracciato della linea entro il 2025. E’ prevista anche la conversione a idrogeno del trasporto pubblico locale, a partire dai circa 40 mezzi di Fnm Autoservizi (100% Fnm), con la possibilità di aprire all’utilizzo alla logistica e ai privati. Per il progetto, Fnm ha sottoscritto protocollo d’intesa con A2A, Enel Green Power, Eni, Sapio e Snam.
Poi ci sono le sperimentazioni nel settore del trasporto stradale. Entro il 2024, con il progetto HyFleet i collegamenti a idrogeno verde su lunghe distanze, FlixMobility punta a lanciare i primi bus a idrogeno verde sul lungo raggio in Europa. Chi preferisce l’autobus a lunga percorrenza all’auto privata, secondo le stime della società, contribuirebbe già di molto a limitare il proprio impatto sull’ambiente. A Ravenna è stata avviata la sperimentazione del primo autobus in Italia a idrometano, con un motore capace di usare una miscela al 15% di idrogeno nel metano. Nel progetto di Bolzano, dove gli autobus a idrogeno sono in servizio dal 2013 sulle linee 10A/10B, percorrono circa 5.000 Km al mese, è stato stimato un consumo di 8 kg di idrogeno per 100 Km, pari ad un miglioramento del 30% in termini di efficienza del carburante rispetto ai mezzi diesel. Una sperimentazione di ENEA nell’ambito del progetto “Autobus a idrogeno emissioni zero” con un autobus da 12 metri per una percorrenza di circa 4.000 Km ha rilevato che il fabbisogno energetico medio richiesto per la trazione è di 1,64 kwh/Km. Tale veicolo, configurandosi come un veicolo a trazione elettrica, offre anche la possibilità di recuperare l’energia in frenata portando così il fabbisogno energetico effettivo a 1,51 kwh/Km. La mancanza di una rete capillare di distribuzione dell’idrogeno e l’elevato costo degli investimenti non lasciano prevedere nel breve periodo la diffusione di questa tipologia di autobus. Infatti il costo degli autobus da 12 metri si aggira sul milione di euro, i costi di esercizio, di manutenzione, sono nettamente superiori a quelli dei veicoli diesel ed inoltre occorre considerare anche i costi delle stazioni di rifornimento dell’idrogeno. Infine la gestione del veicolo alimentato ad idrogeno richiede particolare attenzione in termini di sicurezza per il pericolo di incendio e per la gestione di serbatoi a pressioni molto elevate. Stesso discorso per le auto. Costi elevati, scarsa disponibilità di stazioni per il rifornimento e i pochi modelli presenti sul mercato oggi non giocano a favore delle auto a idrogeno. Almeno per il momento. Probabilmente nei prossimi anni i veicoli a idrogeno saranno più accessibili ed efficienti, con un’infrastruttura più capillare su tutto il territorio, come sta avvenendo per le colonnine elettriche.
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L’Europa, con il pacchetto climatico “Fit for 55” della Commissione, e l’Italia con una recente decisione del Comitato interministeriale per la transizione ecologia (CITE), si muove verso l’eliminazione graduale delle auto con motore endotermico a partire dal 2035. L’Europa è destinata a diventare il primo mercato al mondo per l’auto elettrica.
Il dibattito perciò va spostato sul piano degli impieghi necessari e dei tempi di realizzazione per arrivare preparati alla scadenza. Il cambiamento atteso è così radicale che comporta oggi investimenti miliardari, pubblici e privati, per avviare una produzione di batterie, attrezzare il territorio con le colonnine di ricarica e aumentare enormemente la produzione di energia da fonti rinnovabili. Un aspetto importante è la realizzazione di una rete di stazioni di ricarica dei veicoli elettrici, che chiama in causa la necessità di fotografare la rete di ricarica esistente.
Oggi abbiamo 26.024 punti di ricarica: sulle autostrade però le infrastrutture di ricarica sono solo 90. Nel 2030 si prevede di arrivare a oltre 3 milioni di punti privati e circa 100 mila pubblici, di cui circa 31.500 a ricarica veloce (distribuiti su autostrade, superstrade e centri urbani).A quelli oggi esistenti se ne dovrebbero aggiungere altri 21.225 finanziati con i 740 milioni del PNRR. Eppure la creazione della rete delle colonnine procede a rilento. La situazione è a macchia di leopardo. Ci sono città dove anno dopo anno si moltiplica il numero delle colonnine. Ci sono altre realtà dove le colonnine sono limitate a quelle poche messe nei parcheggi dei grandi centri commerciali o, ancora peggio, non si trovano affatto.
Ci sono limiti oggettivi alla creazione di una nuova rete di colonnine:
1) Manca una mappa nazionale dei punti di ricarica pubblici e, senza questa «ricognizione», è complicato pianificare le nuove colonnine (il Ministero della Transizione ecologica si è impegnato a provvedere entro metà marzo).
2) Può capitare di allacciarsi a una colonnina che non ricarica l’auto perché di proprietà di un operatore diverso da quello con cui si è fatto l’abbonamento (sarebbe meglio che gli operatori facessero accordi di interoperabilità).
3) Installare una colonnina di ricarica nelle aree comuni o nei garage di un condominio è ancora molto complicato (servono procedure che agevolino l’operazione).
4) Chi installa colonnine deve chiedere l’autorizzazione al Comune, ma i Comuni sono 8.000 e devono seguire procedure amministrative che spesso non conoscono.
La Direttiva europea 2014/94/UE, la “DAFI” (Direttiva sulla realizzazione di una infrastruttura per i combustibili alternativi), recepita nella legislazione italiana con il Decreto Legislativo n. 257/2016, ha imposto ai Comuni di adeguare i propri regolamenti in modo da garantire la predisposizione all’allaccio per la ricarica dei veicoli elettrici.
Le opzioni a disposizione degli amministratori pubblici sono diverse e necessitano di iter amministrativi più o meno complessi. Ci sono tre fasi di interlocuzione fra il Comune e l’operatore elettrico per arrivare a installare una colonnina di ricarica.
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Nella prima fase, di valutazione di fattibilità tecnica, il Comune individua i siti e propone alcuni indirizzi. Parte l’invio della richiesta di allaccio al distributore locale per i punti identificati; c’è il sopralluogo sul sito da parte degli interessati e poi viene presa la decisione finale sulla fattibilità tecnica dei siti presa dall’operatore e approvata dal Comune. Occorre prestare attenzione alla proprietà dell’area identifica perché ha dei riflessi sulla destinazione d’uso. Non si può negare l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di ricarica in caso di suolo privato con installazione di colonnina ad accesso pubblico con la motivazione di assimilare la colonnina a distributore di carburante, sostenendo che questo cambierebbe la destinazione d’uso del suolo. La direttiva europea ha chiarito, infatti, che la colonnina non è un distributore. L’infrastruttura di ricarica dei veicoli elettrici non è assimilabile ad un impianto di carburante, per ingombri, occupazione, sicurezza, trattamento esausti – rischi ambientali, etc. Il cambio di destinazione d’uso non è dunque necessario per le infrastrutture su spazi aperti e pubblici. Va posta attenzione, però, che l’area identificata sia di proprietà del Comune, ovvero occorre aver raggiunto un’intesa con il proprietario del suolo.
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Si passa poi alla fase due, quella della finalizzazione dell’accordo col Comune. Le procedure amministrative che un Comune può adottare sono diverse e necessitano di iter amministrativi più o meno complessi che consentono, con tempistiche differenti, di raggiungere l’obiettivo proposto. Sono tre le principali procedure a disposizione, ognuna con i propri vantaggi e svantaggi, con le quali il Comune può ingaggiare una impresa e accordarsi.
Protocollo di intesa Comune – Operatore privato
Il Comune, contattato da un operatore privato che desidera installare a sue spese un’infrastruttura di ricarica nel territorio comunale, sigla con lo stesso un protocollo di intesa volto a stabilire i diritti e i doveri delle parti, relativamente all’installazione e gestione nel tempo delle infrastrutture di ricarica.
Il Comune principalmente si impegna a:
• concedere in uso all’operatore privato le aree di installazione per un periodo di tempo sufficientemente lungo ad ammortizzare gli investimenti (8-10 anni);
• garantire e controllare che la sosta negli stalli dedicati sia consentita esclusivamente alle auto elettriche;
• consentire la sosta gratuita delle stesse. In cambio, l’operatore privato si fa carico di tutti i lavori di installazione e gestione delle infrastrutture garantendo un livello di servizio adeguato nel tempo di concessione.
Tale procedura è legittima purché:
1) il servizio non venga affidato in esclusiva al soggetto privato proponente e lo stesso si obblighi a garantire la interoperabilità con altri operatori;
2) il Comune, a parità di condizioni e livello di servizio, autorizzi all’installazione anche altri soggetti che si potrebbero proporre in periodi successivi.
Questa procedura ha il vantaggio della velocità e della semplicità amministrativa, infatti, è sufficiente una delibera di giunta e la firma del protocollo, ma ha lo svantaggio che necessita di un soggetto promotore che proponga il protocollo e che non ci sia il vincolo di esclusività del protocollo. È adatta a tutti quei Comuni di piccole e medie dimensioni che hanno la fortuna di ricevere proposte di installazione.
Manifestazione di Interesse / Procedura Competitiva
In questa procedura, il Comune indice una manifestazione di interesse pubblica per selezionare gli operatori che potranno installare a proprie spese le infrastrutture di ricarica sul territorio comunale. Per la selezione, il Comune può decidere di:
a) definire un unico criterio oggettivo ed univoco su cui effettuare la scelta;
b) istituire una commissione tecnica che andrà a confrontare le proposte ricevute dagli operatori sulla base di criteri oggettivi predefiniti nell’avviso di manifestazione di interesse. È consigliabile definire criteri che salvaguardino la qualità del servizio offerto agli utenti finali (numero massimo di infrastrutture di ricarica, tipologia di infrastrutture in un rapporto equilibrato tra colonnine quick e fast, data prevista di installazione, modalità di promozione del servizio, esperienza degli operatori) piuttosto che elementi economici che potrebbero disincentivare la partecipazione degli operatori. A volte anche i prezzi di ricarica vengono inclusi erroneamente fra i criteri di selezione. Nella fase di manifestazione di interesse è preferibile anche non richiedere progetti esecutivi per evitare di disincentivare la partecipazione degli operatori.
Il Comune, anche in base alla sua dimensione e al numero di infrastrutture di ricarica che intende installare, può decidere, a sua discrezione, di affidare il servizio ad uno o più operatori, definendone il numero già nella manifestazione di interesse. In questo modo il primo in graduatoria sceglie i propri luoghi di installazione (o lotti pre-definiti dal Comune) per poi procedere con l’operatore successivo. Tale procedura non esclude la possibilità da parte del Comune di affidare l’installazione di ulteriori infrastrutture di ricarica ad altri (o gli stessi) operatori in un periodo successivo tramite procedure analoghe. È preferibile individuare in via preliminare gli indirizzi di installazione in modo tale che gli operatori interessati possano fare la propria offerta avendo più elementi a disposizione. Questa procedura ha il vantaggio che permette il confronto tra gli operatori e al Comune di definire i criteri minimi da rispettare, ma ha lo svantaggio di una maggiore complessità amministrativa e la difficoltà nel definire bene i criteri di selezione.
La Manifestazione di Interesse si rivela compatibile per Comuni di maggiori dimensioni (o per quelli più piccoli che non hanno ricevuto proposte non sollecitate) che vogliono sondare il mercato degli operatori stabilendo dei criteri minimi di installazione e cercando di massimizzare la qualità del servizio attraverso un confronto competitivo. Tuttavia, non sempre un confronto competitivo molto spiccato è garanzia di qualità di servizio in quanto gli operatori potrebbero essere portati, in una fase non ancora matura di mercato, a offrire condizioni economiche o tecniche molto avanzate pur di aver accesso ad un determinato territorio, che poi si potrebbero rivelare non compatibili con le effettive necessità dello stesso.
Regolamento predefinito
Nella terza procedura, il Comune definisce un regolamento aperto a tutti gli operatori con cui presentare proposte di installazione di infrastrutture di ricarica sul proprio territorio. In questa fattispecie, il Comune non opera una scelta tra più operatori ma garantisce a tutti la possibilità di installare e gestire infrastrutture di ricarica, rispettando gli elementi minimi ed eventuali vincoli definiti dal regolamento. Il regolamento è, di norma, molto dettagliato e prevede che vengano presentate non proposte generiche di installazione ma già progetti esecutivi in luoghi definiti. Il processo prevede che ogni operatore interessato presenti un progetto esecutivo per ogni installazione richiesta rispettando alcuni parametri definiti dal regolamento.
La procedura del regolamento è più complessa da gestire da parte del Comune e necessita di un iter amministrativo più articolato. Questa procedura ha il vantaggio di avere i criteri di installazione, quindi il progetto, già definiti dal Comune; permette una capillarità di installazione e mette in concorrenza gli operatori, ma l’iter amministrativo è molto lungo e oneroso. È adatta principalmente a Comuni molto grandi che hanno la necessità di avere una distribuzione capillare sul territorio e una procedura standard di richiesta considerato l’alto numero di infrastrutture di ricarica da installare. Resta comunque salva la possibilità anche per Comuni più piccoli di dotarsi di un proprio Regolamento semplificandone, eventualmente, alcuni aspetti.
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Una volta che il Comune si è accordato con l’operatore, si passa alla fase finale di installazione della stazione di ricarica. Questa fase prevede la finalizzazione della progettazione esecutiva e la redazione dei documenti necessari per l’autorizzazione:
• Richiesta di occupazione di terreni pubblici, dovuta solo in caso di opere civili per l’installazione che interessano aree pubbliche;
• Avviso di inizio lavori di costruzione: SCIA o CILA;
• Redazione della documentazione necessaria all’ottenimento dei permessi da parte della soprintendenza ai beni culturali, se necessario, a seconda del sito;
• Deposito di documenti redatti alle parti interessate competenti per ottenere il via libera per la costruzione (opere elettriche e civili).
Previo ottenimento delle approvazioni richieste, l’operatore garantisce la consegna dell’unità di ricarica, quindi l’impresa incaricata può iniziare i lavori elettrici e civili. È importante in questa fase la collaborazione del Comune nel sollecitare la velocizzazione dei lavori, delle pratiche, etc. della soprintendenza e/o di eventuale conferenza dei servizi.
È importante scegliere siti non sottoposti a vincoli paesaggistici o della soprintendenza ai beni culturali (es. evitare punti in vicinanza di corsi d’acqua, aree archeologiche, etc.) o altrimenti, se richiesti dall’amministrazione o se inevitabile, tenere presente la lunghezza dei tempi necessari all’ottenimento delle autorizzazioni. Sarebbe auspicabile una disponibilità dell’amministrazione a collaborare per accelerare per quanto di competenza le tempistiche per l’ottenimento di tali permessi.
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