Da una parte c’è chi vive in situazioni di scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno. Ci sono poi due miliardi di persone che vivono ancora senza accesso all’acqua potabile, tre miliardi non possiedono servizi igienici gestiti in modo sicuro, mentre 1,4 miliardi sono privi di servizi igienici di base. C’è poi, invece, chi l’acqua ce l’ha ma la spreca, per cattive abitudini e infrastrutture prive di manutenzione e dunque poco efficiente. Sono alcuni dati sottolineati dall’Asvis analizzando il goal numero 6 dell’Agenda 2030, che si pone l’obiettivo di garantire, ad ogni individuo, la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie.
Dando uno sguardo alla situazione italiana emerge che il nostro Paese non riesce a risolvere alcuni problemi in modo strutturale, come quello della dispersione delle reti idriche, che ci portiamo dietro da diverso tempo. Dal 2010 al 2022 l’Italia registra, infatti, un andamento negativo per quanto riguarda la gestione sostenibile delle proprie acque. La causa principale è la dispersione idrica, aumentata dal 2012 a 2022 di cinque punti percentuali. Ciò significa che, in media, più del 42% dell’acqua immessa nelle tubature italiane non arriva nelle case. Si tratta di uno spreco enorme, ancor più grave in un periodo in cui la crisi climatica limita sempre più le risorse a disposizione, caratterizzato da differenze marcate tra Nord e Mezzogiorno. Servono dunque cambiamenti immediati e significativi nelle politiche, altrimenti non sarà possibile raggiungere il target 6 dell’Agenda 2030, che prevede di portare la dispersione idrica al 35,2% entro il 2026.
A tal proposito l’Asvis avanza alcune proposte. Per esempio, occorre migliorare l’attuazione regionale di politiche di water pricing che incentivino l’uso efficiente della risorsa idrica, valorizzando gli sforzi compiuti negli anni per migliorare la contabilità idrica nei vari settori di impiego, compreso quello irriguo. Parallelamente è necessario considerare il principio europeo del “Do not significant harm” nell’uso irriguo, industriale e civile dell’acqua, e integrare nei costi finali quelli ambientali, come previsto dalla Direttiva quadro sulle Acque. È altresì importante assicurare il rispetto del principio “chi inquina/usa paga” e l’internalizzazione del costo ambientale nella determinazione dei canoni di utenza dell’acqua pubblica. Infine, occorre definire un piano integrato per la protezione e il ripristino della natura in grado di superare la logica emergenziale di risposta agli effetti climatico-ambientali, definendo le singole azioni come una “grande opera pubblica di conservazione e ripristino”. Spesso, infatti, soprattutto in Italia la gestione dell’acqua balza all’attenzione quando si verifica un’emergenza, come una siccità prolungata o un’alluvione improvvisa. Se si vogliono veramente cambiare le cose è, invece, necessario uscire da quest’ottica emergenziale adottando politiche volte alla conservazione e alla gestione intelligente dell’oro blu.
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