Attualmente, il 54% della popolazione mondiale, circa 4 miliardi di persone, vive in aree urbane. Una percentuale destinata a salire fino al 70% entro il 2030, con altri due miliardi di persone che, per quell’anno, si saranno trasferite in città. A livello europeo, attualmente il 70% della popolazione vive in aree urbane. Cifre importanti che impattano e impatteranno significativamente sulle infrastrutture e sulle risorse urbane, che dovranno essere capaci di soddisfare un numero crescente di esigenze differenti. E dovranno farlo evitando il più possibile un’ulteriore espansione geografica delle città, che significherebbe altro consumo di suolo. Risorsa che, soprattutto in Italia, sta diventando sempre più limitata. Proprio per questo diventano sempre più importanti il recupero e la condivisione degli spazi pubblici.
Non a caso proprio questo è stato il tema dell’ultima edizione della Settimana Europea della Mobilità, una campagna di sensibilizzazione realizzata dalla Commissione europea sulla mobilità urbana sostenibile. La condivisione degli spazi, infatti, è una condizione importante per garantire una mobilità più sostenibile e sicura e, di riflesso, città più vivibili. Visti i grandi numeri relativi al numero di persone che vive in aree urbane, lo spazio pubblico in molte città scarseggia. Eppure, un ambiente in cui lo spazio è diviso in modo sensato tra persone, mezzi di trasporto e attività produttive promuove l’equità sociale, aumenta la sicurezza stradale, riduce l’inquinamento atmosferico e migliora la qualità della vita. Pertanto, l’uso condiviso dello spazio pubblico porta numerosi vantaggi alla società e a tutti i suoi membri, a cominciare da quelli più deboli. Per fare un esempio, il 70% delle vittime di incidenti stradali mortali verificatisi nelle aree urbane sono utenti vulnerabili; quindi, quando si pensa alla ripartizione dello spazio pubblico è necessario dare la priorità a questi gruppi di persone. Inoltre, per incoraggiare i cittadini a circolare più spesso a piedi o in bicicletta, sarebbero necessarie più infrastrutture dedicate di alta qualità e un codice della strada che metta la sicurezza di pedoni e ciclisti al primo posto. È necessario dunque ripensare allo spazio pubblico urbano, visto ancora troppo spesso come territorio quasi esclusivo delle automobili. A questo proposito il pedagogista Francesco Tonucci nel saggio “La città dei bambini” (1996) ha definito le strade dei modelli urbanistici occidentali come degli spazi tarati intorno all’adulto, maschio, lavoratore e automobilista. In effetti, la tipica struttura della strada cittadina è la seguente: due corsie per le automobili (una per senso di marcia), il marciapiede (a volte su entrambi i lati della carreggiata a volte solo su uno) e ogni tanto la pista ciclabile (di solito un solo senso di marcia), non di rado delimitata da una mera indicazione sull’asfalto, e non da una separazione fisica dal resto della carreggiata. Laddove c’è poco spazio la pista ciclabile è la prima che manca, seguita dal marciapiede. La gerarchia, dunque, è evidente: prima l’auto e poi il resto. Le strade non sono luoghi che il pedone può fruire ma solo attraversare (prestando molta attenzione, necessaria anche sulle strisce cosiddette pedonali) e costeggiare.
In tal senso, le pubbliche amministrazioni hanno tutti gli strumenti per attuare cambiamenti a livello di politiche e infrastrutture. Come in ogni cambiamento occorrono solo un po’ di coraggio e di spirito di iniziativa. Scorrendo il manifesto della Settimana Europea della Mobilità emergono quattro tematiche chiave su cui le Pa dovranno lavorare per realizzare spazi che siano davvero pubblici e condivisi.
Uno spazio per tutti e di tutti
Il concetto chiave da cui bisogna partire è che lo spazio pubblico è di tutti. Dunque, chiunque dovrebbe poterne usufruire in sicurezza, per la mobilità personale ma anche per le interazioni sociali. Lo spazio pubblico, almeno in teoria, esiste da sempre nelle città, ma oltre ad essere, come detto, invaso dalle auto, spesso è preda di individui e traffici illeciti che impediscono di fatto ai cittadini di fruire tranquillamente di un luogo. Per una vera trasformazione dello spazio pubblico è altresì importante che questo cambiamento non guardi al passato, ma al futuro. Le esigenze delle persone stanno cambiando e le città con esse. Dunque, è necessario plasmare lo spazio pubblico in funzione delle priorità per il futuro, tra le quali ci saranno sicuramente la sostenibilità e la condivisione. Far evolvere lo spazio pubblico in tal senso, come sottolineato anche dallo slogan della Settimana Europea, costituirebbe una spinta decisiva verso una mobilità più sostenibile, in particolare verso la circolazione a piedi e in bicicletta, e dunque verso città migliori.
I punti critici su cui agire per intraprendere questa trasformazione sono diversi. Innanzitutto, bisogna dare più visibilità alla mobilità sostenibile, tramite, per esempio, la promozione di alternative all’auto di proprietà e l’educazione all’uso di altre opzioni di trasporto per raggiungere le stesse mete, o ancora la condivisione dei beni (biciclette, auto, scooter elettrici, e così via), le cargo bike, il trasporto pubblico e soprattutto il muoversi a piedi. L’utilizzo di un mezzo non di proprietà bensì condiviso, infatti, contribuisce a ridurre la congestione stradale, il numero di automobili e lo spazio necessario per il parcheggio dei mezzi di trasporto personale, di ogni tipo. Spazio che può essere utilizzato da altri utenti. Ancora, si possono attuare piani di gestione dinamica del parcheggio a bordo strada per un uso efficiente dello spazio, che può essere quindi destinato ad altri scopi. In quest’ottica è poi fondamentale dare il buon esempio: sarebbe importante che il personale delle pubbliche amministrazioni, i funzionari governativi e i fornitori dei Comuni scegliessero per primi modalità di trasporto attive e sostenibili, dando l’esempio ai cittadini e, allo stesso tempo, facendo esperienza diretta della politica in materia di trasporti sostenibili e sensibilizzando sulla necessità di infrastrutture dedicate di alta qualità. Inoltre, le flotte municipali e il trasporto pubblico dovrebbero anche ricevere più finanziamenti statali o europei per l’adozione di veicoli meno inquinanti e più efficienti. Tutto ciò andrebbe accompagnato da campagne informative, pianificazione territoriale e normative, che dovrebbero richiamare l’attenzione sul rispetto dei più vulnerabili.
Riqualificare per restituire spazio
Un altro tassello fondamentale per il recupero e la condivisione degli spazi pubblici è la riqualificazione degli stessi. Per fare ciò occorre coinvolgere la comunità locale, tenendo in considerazione i diversi utenti e le differenti modalità di trasporto. Solo così, infatti, si riuscirà a ripartire lo spazio nelle reti di trasporto in modo tale da adattarsi al contesto locale e permettere la coesistenza di tutte le modalità, senza privilegiarne una a scapito di tante altre. In tal senso andrebbe tenuto bene a mente il cosiddetto diritto di precedenza: i diritti di tutte le persone, compresi gli utenti del trasporto attivo, i soggetti con disabilità e i gruppi vulnerabili in genere non dovrebbero essere negoziabili. Lo spazio, dunque, dovrebbe essere condiviso in modo equo e, in particolare, tutti gli utenti dovrebbero garantire il rispetto dei pedoni e delle persone a mobilità ridotta. Una situazione che troppo spesso non si verifica, con gli utenti deboli costretti a percorsi ad ostacoli tra cantieri, parcheggi e automobili, e troppo spesso vittime di incidenti anche mortali.
Un’accurata riqualificazione dello spazio pubblico non può prescindere poi dalla co-creazione: ciò significa coinvolgere nel processo la comunità, i portatori di interesse e i cittadini favorendone la collaborazione. E questo dovrebbe avvenire fin dalle fasi iniziali del progetto di riqualificazione: infatti, parlare con i vicini di casa del contesto e dei desideri della comunità locale favorisce il coinvolgimento ed è utile per raccogliere idee e opinioni e per scoprire i potenziali ostacoli da superare. Non ultimo, raccontare fin da subito un progetto coinvolgendo le persone solitamente aumenta le probabilità di accettazione.
Inoltre, un processo di riqualificazione deve tenere conto anche dei cosiddetti “terzi luoghi”. Con questo termine, coniato nel 1982 dai sociologi americani Ramon Oldenburg e Dennis Brissett, si definiscono gli spazi pubblici cruciali in cui le persone possono interagire, riunirsi, incontrarsi e parlare all’interno dei propri quartieri, distinguendoli dai “primi luoghi” (la casa) e dai ‘secondi luoghi’ (l’ufficio, il posto di lavoro). I “terzi luoghi” sono generalmente luoghi caldi e invitanti in cui le persone trovano un posto confortevole per socializzare con altre persone con interessi simili. I dati suggeriscono che questi luoghi sono particolarmente importanti per la costruzione di comunità, in quanto creano condizioni di parità tra persone di diversa estrazione socioeconomica. Un’opportunità di socializzazione, dunque, economicamente accessibile e al di fuori delle mura domestiche. Tra questi luoghi rientrano, per esempio, i parchi, i centri comunitari, i pub e i bar. I “terzi luoghi” sono importanti per la qualità della vita e il benessere mentale e dunque, ogni buon processo di riqualificazione dovrebbe tenerne conto. Dopo la pandemia, si è cercato di individuare modalità ibride tra lavoro e terzo luogo: per fare un esempio, il governo francese ha investito circa 130 milioni di euro nello sviluppo di 100 fabbriche locali per rilanciare le economie regionali duramente colpite dalla pandemia: laboratori condivisi in cui artigiani, imprenditori e piccole imprese possono collaborare.
Il ruolo delle strade scolastiche
In ottica di recupero e condivisione degli spazi pubblici, un ruolo fondamentale possono giocarlo le cosiddette strade scolastiche, che creano uno spazio sicuro per gli spostamenti attivi. Non si tratta, dunque, solo di un’iniziativa per la sicurezza degli scolari ma di qualcosa che può favorire una transizione generazionale verso una mobilità attiva più sicura. Per realizzare strade scolastiche efficaci occorre, innanzitutto re-instradare il traffico, soprattutto quello pesante, allontanandolo dalle scuole. Comuni e distretti scolastici dovrebbero collaborare permettendo l’accesso a queste aree solo a pedoni, ciclisti e trasporto pubblico. In tal senso è opportuno condividere buone pratiche, analizzando i molti esempi già realizzati, ad esempio cartelli stradali a livello nazionale e fornitura sufficiente di possibilità di parcheggio e di accesso al trasporto attivo. Tutte iniziative facilmente replicabili a livello locale. Ma la creazione di strade scolastiche da sola non basta. Serve educare i genitori e chi si prende cura dei bambini. Infatti, da sempre, attorno alle scuole la circolazione va in tilt negli orari di entrata e di uscita: un problema che si potrebbe risolvere semplicemente parlandone con i genitori e mostrando loro le alternative al trasporto in auto dello studente fin davanti alla scuola. Anche gli stessi studenti, infine, devono essere educati e sensibilizzati sull’argomento: per esempio, vanno incoraggiate iniziative in cui gruppi di studenti e genitori condividono il piacere di andare a scuola a piedi o in bicicletta, utilizzando dei percorsi sicuri.
Pianificare e progettare
Per uno spazio pubblico che possa essere realmente condiviso sono fondamentali la pianificazione e la progettazione. Questo aspetto riguarda soprattutto le strade, la cui realizzazione o riqualificazione deve prendere in considerazione tutti i residenti e le diverse modalità di trasporto. Gli urbanisti, dunque, dovrebbero essere (ri)educati ad equilibrare la ripartizione dello spazio stradale, proteggendo gli utenti della strada vulnerabili. Anche le organizzazioni non dovrebbero dimenticarsene quando preparano dei piani per la gestione della mobilità. Dunque, quando si progettano strade, incroci e hub multimodali occorre garantire l’accessibilità a tutti gli utenti, comprese le famiglie di ogni età e le persone con disabilità. Si deve tenere conto di fattori come, per esempio, ampiezza dello spazio, prossimità e velocità del traffico, ma anche di elementi fisici del trasporto pubblico (come gli ascensori, l’altezza delle banchine, l’accesso al veicolo, e così via). Troppo spesso, infatti, capita che una persona in carrozzina non riesca a salire su un mezzo pubblico o che un non vedente non riesca ad attraversare in sicurezza la strada. Proprio la sicurezza è un punto critico. Per migliorare in questo settore è fondamentale osservare i Paesi dove vi sono strategie riuscite a livello nazionale per proteggere gli utenti vulnerabili e sostenere il trasporto collettivo e attivo. E, quando possibile, queste strategie vanno replicate a livello locale. Inoltre, è necessario intervenire sul rispetto delle norme sui parcheggi. Il codice della strada deve essere curato in modo da essere adeguato al contesto; è, dunque, necessario allocare le opportune risorse per far rispettare le norme sui parcheggi. Regole che riguardano il parcheggio delle auto, ma anche il parcheggio sicuro degli scooter elettrici e delle biciclette. Anche in questo caso si sprecano gli esempi negativi, come biciclette e scooter parcheggiati ovunque, o peggio auto posteggiate dove non potrebbero. Tutto ciò rientra nell’ottica di una ripartizione equilibrata dello spazio stradale. In questo senso è utile studiare bene dove posizionare infrastrutture come segnaletica, apparecchi di illuminazione, parcheggi e stazioni di ricarica, in modo che non blocchino il trasporto attivo o sottraggano spazio. Un esempio negativo in questo senso sono i segnali stradali piazzati magari in mezzo alle corsie ciclabili. Infine, il tanto vituperato limite dei 30 km/h è un’opzione da prendere in considerazione. Ma da solo non basta. Deve essere accompagnato dalla creazione di percorsi ciclabili sicuri dotati di protezioni fisiche dai veicoli a motore. È inoltre opportuno incrementare la capacità e le ore di servizio dei trasporti pubblici. E non bisogna dimenticare di raccogliere i feedback degli utenti per capire se sono soddisfatti ed intercettare nuove esigenze. In questo senso i piani di gestione della mobilità sono uno strumento utile che, per poter funzionare al meglio, va realizzato rivolgendosi anche alle organizzazioni locali.
La condivisione verde
Ragionando sulla condivisione degli spazi pubblici c’è un altro aspetto che va necessariamente preso in considerazione: il fatto che le città hanno un disperato bisogno di verde, dunque di alberi, di piante, di erba. Ne hanno bisogno per aumentare la loro resilienza ai cambiamenti climatici, basti pensare alle cosiddette isole di calore che si formano durante le estati sempre più roventi; ma anche per migliorare la qualità dell’aria che si respira, cosa fondamentale per renderle veramente vivibili. Dunque, quando si pensa ad una riprogettazione degli spazi pubblici in funzione della condivisione non si può non tener conto del fatto che in quegli spazi dovrà esserci anche del verde. Ne è convinto anche il botanico e saggista Stefano Mancuso, che in un intervento su Walden, rivista del consorzio Rilegno che si occupa di riciclare imballaggi in legno, afferma: “quella di forestare tutte le aree urbane disponibili, alla lunga, è una soluzione la cui efficienza è apparsa evidente a un numero sempre crescente di persone. Il problema del riscaldamento globale è legato essenzialmente alla produzione di anidride carbonica, che è prodotta all’80% dalle città, che a loro volta rappresentano soltanto l’1,6% della superficie del pianeta. Quindi era ovvio che dovessimo lavorare sulle città per ridurre la Co2. La politica che si è seguita fino ad oggi, quella di cercare di ridurre le emissioni, è corretta, però di fatto non sta funzionando. Cerchiamo di ridurre le emissioni, ma in realtà ciò che vediamo anno dopo anno è che l’anidride carbonica aumenta: ogni anno produciamo più anidride carbonica dell’anno precedente. Credo che prima di poter davvero vedere delle significative riduzioni nelle emissioni dovranno passare dei decenni: un tempo che non abbiamo a disposizione. Dobbiamo recuperarli da qualche parte, per questo nasce la proposta della copertura arborea delle nostre città”. Ma oltre alla piantumazione di alberi Mancuso propone un ulteriore cambiamento degli spazi pubblici, forse radicale ma necessario: “sono un forte fautore, negli ultimi tempi, della necessità di rimuovere una parte significativa delle strade. Le città hanno una superficie enorme dedicata alla viabilità. Penso che si potrebbe immaginare una riduzione fra il 30 e il 40% della superficie dedicata alle strade negli ambienti urbani, dedicando la superficie ricavata a parchi e arborei. Avremmo fatto un bel passo avanti. Molte archistar hanno percepito per tempo che la questione ambientale è cruciale per le città, e quindi hanno cominciato a progettare edifici coperti di piante. Ma è chiaro che una città non è fatta di questi edifici simbolo, bensì di edifici normali, di strade, di piazze, di supermercati, di biblioteche, di quella miriade di edifici costruiti senza rapporto, diciamo di nessun grande architetto, che coprono l’intera superficie della città. Vanno bene i grandi architetti, perché in questa maniera diffondono l’idea che le piante debbano entrare nella città, ma poi questo deve diventare veramente patrimonio di ciascuno. E soprattutto le amministrazioni dovrebbero fare dei regolamenti che obblighino chiunque voglia costruire a mettere anche del verde: in un parcheggio, lungo le strade, nei crocevia, sulle mura degli edifici, sui tetti, nei distributori di benzina, dappertutto, in modo che si sappia come e quanto verde è possibile mettere”. Gli spazi, quelli privati ma anche quelli pubblici devono dunque diventare verdi. Ed è qualcosa che non va fatto solo per finta o per farsi un po’ di pubblicità: “negli ultimi anni la necessità di riforestare è diventata evidente a molte amministrazioni, le quali, alcune in buona fede, altre meno, hanno cominciato a cavalcare anche quest’onda” scrive ancora Mancuso. “Chiunque pianti un albero sta facendo una cosa buona, però le amministrazioni hanno un compito in più: non basta metterli gli alberi, vanno anche manutenuti, soprattutto per i primi 3 – 4 anni. Altrimenti si rischia che la maggior parte degli alberi che si mettono a dimora poi muoiano, e questo è quello che purtroppo sta accadendo in tanti luoghi di Italia, ma direi anche del mondo. Si parte con delle grandi operazioni anche mediatiche di piantumazione diffuse per tutta la città. E poi, dopo un anno o due anni gli alberi che sono rimasti in vita sono il 10 o il 20%. Ecco, questo non va bene, è molto meglio piantare meno alberi ma assicurare una manutenzione negli anni successivi”. E, in effetti, la manutenzione degli spazi pubblici, verdi e non, è un tassello fondamentale, che è bene non trascurare. A ciò, però, si deve accompagnare l’educazione dei cittadini, che a volte con comportamenti scorretti contribuiscono fortemente a degradare gli spazi pubblici. L’innovativa idea di Mancuso di togliere le strade trasformando quegli spazi in aree verdi ha preso corpo nel progetto Le vie degli alberi, che lo scienziato sta portando avanti insieme a Giovanni Storti, del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo: è stato lanciato un appello a sindaci e assessori delle città italiane affinché adottino queste misure coraggiose, ma al momento ancora nessuno ha trovato il coraggio di farlo. Per lo meno non a lungo termine.
Da parcheggio a parco per un giorno
Durante la Settimana Europea della Mobilità si è svolto un evento denominato Park(ing) Day. Per quell’occasione, in diverse città, alcuni parcheggi sono stati trasformati in parchi urbani, ospitando le attività più diverse: dallo yoga, alla riparazione di biciclette fino a chiacchiere conviviali in salottini realizzati appositamente. Il tutto con l’aggiunta, purtroppo solo temporanea, di vegetazione. Gli obiettivi dell’iniziativa sono quelli di sensibilizzare sulla necessità della creazione di strade più sicure, più verdi e più eque per le persone e di porre l’attenzione sull’eccessiva quantità di spazio urbano utilizzato per posteggiare automobili private, che rimangono ferme in media per circa il 95% del loro ciclo di vita. L’idea originaria è riconducibile all’artista e paesaggista americana Bonnie Ora Sherk, che nel 1970 a San Francisco iniziò a convertire dei tratti di strada in parchi e aree verdi. Tuttavia, l’iniziativa ha cominciato a suscitare l’attenzione mediatica nel 2005, quando il gruppo di progettazione interdisciplinare “Rebar” ha trasformato un singolo parcheggio di San Francisco in un mini-parco: da quel momento il Park(ing) Day si è diffuso rapidamente in tutto il Mondo. Inoltre, il Park(ing) Day sembra essere il precursore del fenomeno dei Parklet nelle città di New York e San Francisco, un modo innovativo di fare urbanistica, basato su interventi realizzati a breve termine e a basso costo, volti alla creazione di nuovi spazi pubblici per migliorare la vivibilità dei quartieri. I Parklet sono una sorta di un’estensione del marciapiede, vengono installati sulle corsie di parcheggio offrendo più spazio e servizi per i cittadini che usano la strada: possono, infatti, costituire un posto dove fermarsi, sedersi e riposare mentre si svolgono varie attività, oppure ospitare vegetazione, arte o altri servizi per la mobilità sostenibile.
Anche a Milano, in occasione della Green Week 2024, si è svolta un’iniziativa simile. Durante il “No parking way”, dalle 9 alle 19, sette strade in sette municipi di Milano, sono state liberate dalle auto in sosta per lasciare spazio a talk con esperti, installazioni artistiche, letture, attività sportive, di gioco e attività per bambini, laboratori di riciclo e upcycling, performance, presentazioni e tante altre attività educative grazie alle associazioni del territorio. Inoltre, nelle strade libere dalle auto sono stati posizionati alcuni contenitori per la raccolta di pile e dei Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE) di piccole dimensioni come tablet, smartphone, mouse, asciugacapelli, ferro da stiro, robot da cucina.
Iniziative sicuramente lodevoli, ma frutto delle decisioni delle singole amministrazioni e soprattutto non durature. La speranza è che le Pa abbiano il coraggio e la lungimiranza per raccogliere questa sfida, creando spazi pubblici condivisi e verdi. In una parola democratici. E che cosa c’è di più democratico di un albero o di una pianta, che offre i suoi benefici a tutti, senza distinzioni e senza esclusiva?
Una questione di spazio
Nel 1973 lo scrittore viennese Ivan Illich nel suo saggio “Energy, vitesse et justice sociale”, tradotto in italiano con “Energia e equità” o “L’elogio della bicicletta”, osservava che “la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un’auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un’unica vettura. Per portare 40mila persone al di là di un ponte in un’ora, ci vogliono tre corsie se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili e solo due corsie se le 40mila persone vanno da un capo all’altro pedalando”. Eppure, spesso quando si parla di riqualificare lo spazio urbano, per esempio realizzando piste ciclabili o allargando i marciapiedi, l’obiezione più frequente è: non c’è spazio. Ma, dati alla mano, la superficie occupata da un’automobile con a bordo 1.25 persone (questa è la media in Italia) è sproporzionata rispetto a quella occupata da un autobus, una bici e un pedone. In particolare, al posto di un’auto si possono facilmente posteggiare 10 biciclette, che diventano 25 se si considerano i veicoli in movimento (le bici a 15 km/h e l’auto a 50 km/h), o quaranta persone. Un fenomeno esplicitato alla perfezione dalla fotografia “Waste of Space”.
Consultando, per esempio, i dati Amat relativi alla città di Milano emerge che ben il 70% dello spazio pubblico è occupato da auto, per una superficie complessiva di 15.414.920 metri quadrati. Senza soffermarsi troppo sul numero di alberi che potrebbero essere ospitati in un’area di quelle dimensioni o sul numero di corsie ciclabili che potrebbero essere realizzate, vale la pena sottolineare che un’autovettura (sempre fonte Amat) occupa uno spazio medio di 5X2 metri quadrati circa, quindi 10 metri quadrati per veicolo. Questo significa che, escludendo i motocicli, solo gli autoveicoli generici immatricolati e circolanti a Milano occupano una superficie complessiva di 7.014.430 metri quadrati; gli autoveicoli speciali e specifici occupano una superficie di 120.490 metri quadrati. I veicoli per il trasporto merci (autocarri, motocarri, rimorchi e semirimorchi abbinati alle motrici) assommano in termini ridotti a circa 70 mila unità; attribuendo ad essi una superficie minima di ingombro medio pari a 18 mq, occupano complessivamente 1.260.000 metri quadrati. A questi occorre aggiungere l’ingombro dei 650.000 veicoli mediamente in ingresso da lunedì a venerdì in Area B fra le 7.30 e le 19.30, dei quali il 10 per cento di mezzi pesanti adibiti al trasporto merci e materiali, per una superficie complessiva (autoveicoli e mezzi pesanti) di 7 milioni di metri quadrati. Ciò significa che mediamente i mezzi privati presenti in città occupano una superficie urbana pari a 15.414.920 metri quadrati, equivalente appunto al 70% dell’intera superficie viabilistica esistente a Milano, inclusi gli spazi di sosta a raso esterni alla carreggiata.
Eppure la concezione autocentrica delle strade è un fenomeno recente: fino all’inizio del secolo scorso erano, infatti, soprattutto un posto in cui mangiare, passeggiare, incontrarsi, fare acquisti, giocare e divertirsi. Insomma, degli spazi per vivere. E mai come in questo caso la storia avrebbe da insegnare qualcosa.
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