Professor Cassese, prima di affrontare nodi cruciali (sovranismo, brexit, populismo, ecc…) cosa e come è cambiata l’Europa negli ultimi cinque anni?
Ha fatto molti passi avanti: normative razionalizzate, sviluppo dell’Unione bancaria, consolidamento della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Vale la metafora della bicicletta: per restare in sella, bisogna continuare a pedalare. L’Unione l’ha fatto.
Brexit, American First, Visegrad: quali sono le caratteristiche di questo nuovo particolarismo? Si potrebbe individuare una scala valoriale di questa forma di particolarismo?
Sovranismo, ovvero neo-nazionalismo, una tendenza singolare, che rappresenta un ossimoro: forze sovraniste di singoli Paesi che si coalizzano nel nome del sovranismo, così smentendosi, perché implicitamente ammettono che sono necessarie reti sovranazionali, e quindi non sovraniste. Altro merito di queste forze (che non meriterebbero un buon voto), il fatto che richiamano l’attenzione sull’Europa: proprio nel criticarla, la rendono un tema popolare.
La Brexit una sconfitta e/o anche un’opportunità?
Una sconfitta sonora, ma non dell’Europa, bensì del Regno Unito, che sta dando prova delle sue contraddizioni. Arrivò tardi nell’Unione, è stato sempre sulla soglia, non aderendo all’Eurozona e con le clausole di “opt out”, ora ha deciso di uscire, ma si sta rendendo conto di quanto sia difficile e poco conveniente farlo. Dall’altra parte, Brexit mostra quanto sia indispensabile l’Unione e quanto faccia parte oramai della nostra vita quotidiana, perché è tanto complicato uscirne. Poveri britannici!
Quello che possiamo sicuramente registrare è lo stallo dei processi d’integrazione europea. Abbiamo l’euro ma non una politica fiscale comunitaria, abbiamo la commissaria alla politica estera Federica Mogherini ma non abbiamo una politica estera comunitaria, non abbiamo un esercito europeo o più una politica della difesa comune e così via.
È ancora il particolarismo a bloccare questi processi?
Si, vi sono queste asimmetrie, questi squilibri. Ma Helmut Schmidt diceva che l’Europa vive di crisi. Queste sono salutari per l’Europa. Gli squilibri spingono a ritrovare l’equilibrio. Costituiscono, quindi, una spinta per andare avanti.
Come possibile delineare politiche d’integrazione, quanto si sono tollerati nella stessa Unione conclamati “paradisi fiscali” Lussemburgo, Irlanda?
Sono squilibri ai quali si sta mettendo mano, per correggerli. Segnalano le zone incomplete dell’Unione. Ma non dimentichiamo che nessun potere pubblico si è completato in breve tempo. Bisogna quindi aspettare, segnalando gli sviluppi e le carenze, ma avendo uno sguardo storico, sul lungo periodo. Evitiamo, insomma, il piagnisteo europeo.
Lei ha più volte indicato nella velocità con la quale è stata istituita l’Unione come uno dei limiti alla sua vera integrazione. Doveva e poteva essere più lento il processo, anche alla luce dello sgretolamento dell’intero universo dell’est vedi fine Urss?
Le costruzioni storiche non sono autostrade, dove c’è una velocità consigliata e una massima. Hanno loro tempi, che sono dettati dalle circostanze, dall’ambiente, dalle forze che debbono unirsi e dividersi, dagli uomini che tengono le redini.
E ancora, quanto pesa sulla storia dell’Unione il fatto che abbia trovato la proprio legittimazione nelle élite nazionali illuminate e non nelle grandi masse, nei popoli europei?
Paradossalmente solo oggi che viene fortemente messa in discussione, l’Unione trova la sua legittimazione tra la gente.
Non è un peso, ma un vantaggio. L’Europa si è costruita inizialmente in modo silenzioso, ad opera di pochi protagonisti, sia politici, sia giudici della Corte del Lussemburgo. Ora è uscita allo scoperto. Certo alle prossime elezioni del 26 maggio l’Unione come istituzione criticata e contesa. C’è chi critica il burocratismo di Bruxelles, chi segnala le debolezze di organismi che appaiono prevalentemente intergovernativi quindi nelle mani degli Stati nazionali, chi lamenta che l’infatuazione europeista ha messo in ombra le nazioni o lasciato il nazionalismo nelle mani dei populisti. Io credo che il principale indicatore del successo europeo sta nell’assenza di guerre dalla seconda metà del secolo scorso, in Europa. Se si compara questa situazione con quel che è accaduto nel mezzo secolo precedente (due guerre mondiali poco meno di 60 milioni di morti e 76 milioni di feriti) ci si rende conto del ruolo pacificatore svolto dall’Unione.
La contiguità territoriale per diversi Paesi che oggi aderiscono all’Unione alimenta a suo avviso la difesa d’interessi particolari e può facilmente favorire l’insorgere di opposizioni di vario tipo? E al contrario, perché i Paesi del Sud Europa anche solo in relazione all’emergenza immigrazione non sono stati in grado di prospettare una comune azione?
Perché l’immigrazione è fenomeno mondiale, in questa sola parte del mondo riguarda tre continenti, Europa, Africa e Asia. L’Unione può regolare e tener sotto controllo solo una parte del fenomeno. Bisognerebbe che ci fosse un intervento più deciso dell’ONU.
Lo scontro che si è manifestato in questi anni è tra europeisti e anti europeisti oppure si tratta di uno scontro dialettico tra europeisti e diversamente europeisti?
Nessuno, anche tra i più critici, propone l’abbandono dell’Unione. In realtà, non sappiamo che cosa vogliano con esattezza i sovranisti. Quello che è chiaro è che vi sono forze nazionali che cercano alleanze sovranazionali per poter contare maggiormente nel Parlamento europeo.
Sovranità europea e identità nazionali: come è possibile andare oltre e indicare una sintesi nel rispetto e nel riconoscimento anche giuridico di un’entità sovranazionale?
Unità nella diversità, è il motto dell’Europa. Non si tratta di negare le identità ma di riconoscere che abbiamo ormai multiple identità.
Nella narrazione politica e purtroppo anche in larghissimi settori dell’opinione pubblica europea, non c’è traccia dei forti benefici e dei vantaggi dei quali hanno goduto i popoli europei, basti solo pensare agli oltre settant’anni di pace. Vogliamo ricordare i più significativi?
Sarebbe un lunghissimo elenco, a cominciare da quello che mangiamo: la sicurezza alimentare, la tutela dell’ambiente, la moneta unica, l’abbandono dei passaporti, la politica di coesione, gli interventi in agricoltura, il controllo delle banche, le liberalizzazioni, a partire da quella delle comunicazioni, la nuova disciplina dei servizi pubblici, tra cui i trasporti aerei, e potrei continuare molto a lungo.
Tutto ciò in un mondo globalizzato. Cosa significa oggi globalizzazione? Quali sono i reali vantaggi di questo inarrestabile processo?
Non possiamo non evidenziare che la globalizzazione ha modificato il rapporto tra uomini, territori, istituzioni, l’economia e la politica.
Quasi due settimi dei 7 miliardi e mezzo circa degli abitanti del pianeta possono varcare ogni anno le frontiere nazionali in aereo. I nostri indumenti sono prodotti in ogni angolo del mondo. Le monete viaggiano con la stessa facilità. L’inquinamento dei mari, il riscaldamento dell’atmosfera, il terrorismo globale sono fenomeni che si sta iniziando ad affrontare. Sono pochi dei molti esempi dei benefici della globalizzazione.
Un tempo Europa ma anche l’Italia giocavano un ruolo fondamentale nell’innovazione tecnologica. Pensiamo ad esempio a visionari come Olivetti. Lo stesso web nasce nel vecchio continente, grazie a un ricercatore informatico inglese Tim Berners-Lee che propose l’innovazione come ambito di ricerca al Cern di Ginevra, il quale non ritenendolo di sua stretta competenza abbandonò il progetto. Così Berners-Lee lo propose con successo al Mit (Massachusetts Institute of Technology). Oggi l’Europa vive delle tecnologie provenienti da colossi americani, cinesi, coreani. Perché l’Europa con le proprie aziende non è riuscita a tenere il passo di questi colossi che oggi gestiscono miliardi e miliardi di nostri dati? Perché in Europa non c’è una Sylicon Valley?
Perché non siamo riusciti a creare quella straordinaria congiunzione tra scienza e iniziativa imprenditoriale. Ora qualcosa si muove anche in Europa: pensi soltanto all’Istituto italiano di tecnologia. Ma – specialmente in Italia – mancano i contesti favorevoli.
Possiamo ritenere che una garanzia di sopravvivenza dell’Unione risiederà nella propria capacità di misurarsi come un solo soggetto con i nuovi scenari mondiali: l’irrompere della Cina dall’immensa crescita, la nuova stagione Trump negli Usa, il ruolo internazionale di Putin?
Anche la ricca e potente Germania potrebbe far fronte a Cina, India Stati Uniti? Questo è uno dei motivi per i quali le forze politiche del futuro debbono essere non nazionali, ma regionali, di regioni vaste talora quanto un continente.
Multilateralismo, interdipendenza degli Stati, autodeterminazione dei popoli, cooperazione: vogliamo dare a queste parole un senso contestualizzato, riferito agli scenari fin qui analizzati?
Si collocano su piani diversi, ma non si contraddicono: i popoli decidono di cooperare, autolimitandosi; le interdipendenze sono prodotte dalla forza di interessi concorrenti; il multilateralismo è reso necessario dalle debolezze del bilateralismo.
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