Smart Working, è iniziata una rivoluzione?

Introdotto a dosi forzate nella PA e nelle imprese, il lavoro agile ora chiede di mettere in discussione i modelli organizzativi e culturali tradizionali del lavoro, a partire dal cartellino e dalla scrivania
25 Novembre 2020 |
Gianmarco Nebbiai

Smart working, parola d’ordine di questi tempi quando si parla del futuro del lavoro. Dallo scorso marzo, infatti, per tentare di ‘sopravvivere’ al lockdown, dipendenti, aziende grandi e piccole, amministrazioni pubbliche si sono trovati forzati ad utilizzare in modo consistente gli strumenti del lavoro agile, scoprendo che funzionano.

Oggi le parole del sindaco Giuseppe Sala “basta smart working, torniamo al lavoro” come se i mesi passati a lavorare da casa dai milanesi fossero trascorsi in vacanza, suonano decisamente ‘novecentesche’.

In realtà le opportunità offerte dal lavoro agile, la consistenza delle soluzioni tecnologiche che lo abilitano, sono state ampiamente testate da lavoratori e datori e, anche se in tanti hanno sottolineato che non si tratta di vero lavoro agile ma soltanto di lavoro da remoto, è evidente che lo scenario tradizionale stia mutando; finita la pandemia i paradigmi di valutazione tradizionali legati al posto di lavoro potrebbero cambiare drasticamente per tutti, smart worker e no.

Al cuore della questione infatti c’è la possibilità di un nuovo patto tra datore e lavoratore subordinato che pone minore attenzione ai vincoli di tempo e spazio di esecuzione del lavoro e focalizza l’accordo sul raggiungimento degli obiettivi d’impresa. Più fiducia, più flessibilità da una parte più responsabilità e risultati dall’altra.
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Un nuovo paradigma culturale

Mariano Corso curatore dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano nel 2015 parlava di una “nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. 

Alimentato per anni dallo sviluppo delle tecnologie di collaborazione e produttività, dalla diffusione di device personali sempre più performanti, dal cloud e dagli applicativi web questo modello di approccio al lavoro si è reso sempre più concreto e applicabile, diventando un altro degli aspetti più evidenti della trasformazione digitale del lavoro, tanto da trovare una specifica definizione normativa con la legge 81 del 2017. 

Tuttavia, sino alle misure prese per contrastare la pandemia si è trattato di un modello di nicchia, applicato dalle imprese più illuminate come misura di welfare aziendale a un numero ridotto di impiegati limitato, senza stravolgere in realtà modelli organizzativi tradizionali.

Poi sono arrivate le misure del Governo per fronteggiare l’emergenza Covid-19 e lo smartworking, anche ‘facilitato’ e applicato d’urgenza senza tutte le tutele previste, è diventato lo strumento più concreto per evitare il blocco delle attività ed il balzo conosciuto in questi mesi pone ora a tutte le forze del lavoro la sfida di confrontarsi con le implicazioni di questa rivoluzione culturale.
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Da fenomeno di nicchia a modello diffuso

Lo illustra bene l’osservatorio “The World after Lockdown” curato da Nomisma e Crif, che ormai da oltre sette mesi analizza in maniera continuativa l’impatto della pandemia COVID-19 sulle vite dei cittadini.

Nel 2019 i lavoratori in smart working nelle imprese private in Italia erano meno di un milione (il 3% sul totale degli occupati). Con il lockdown e i provvedimenti emergenziali a partire dal 4 marzo 2020 la percentuale di lavoratori “agili” cresce fino al 34% sul totale degli occupati, coinvolgendo circa 7 milioni di lavoratori. Di questi, la maggior parte appartiene al settore privato, mentre circa 2 milioni lavorano nella Pubblica Amministrazione. Con la progressiva riapertura delle attività produttive, a partire dalla metà di maggio ad oggi, la quota di lavoratori da remoto, si attesta al 24% con 1 milione di smart worker nella Pubblica Amministrazione e 4 milioni nel settore privato.

Di fronte ad un’avanzata di questo tipo le opportunità e le necessità di questo nuovo modello organizzativo si sono fatte più evidenti e richiedono realmente di ripensare in modo profondo i modelli organizzativi delle imprese e delle amministrazioni pubbliche. Occorre definire obiettivi e criteri di misurazione delle prestazioni, rivedere i processi, le modalità di collaborazione tra le persone tanto all’esterno che all’interno dell’azienda, con uno stravolgimento che arriva sino a ridisegnare gli spazi di lavoro, (che in molti casi durante il lockdown si sono ridotti).

Non sarà semplice. Questo cambiamento richiede investimenti in formazione e soluzioni tecnologiche; modelli organizzativi e un cambio di prospettiva anche da parte delle parti sociali.

La portata del cambiamento è già tutta evidente dall’articolo 18 della legge 81/2017, il primo dedicato al lavoro agile (art. 18 -24). 

“Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di  vita  e  di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione  del rapporto di lavoro subordinato  stabilita  mediante  accordo  tra  le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e  obiettivi e senza precisi vincoli di orario  o  di  luogo  di  lavoro,  con  il possibile  utilizzo  di  strumenti  tecnologici  per  lo  svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata   massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”. 

È sempre lavoro subordinato ma non c’è più una postazione fissa. Non ci sono vincoli di spazio e tempo, a parte il rispetto dei limiti giornalieri e settimanali previsti dal contratto nazionale collettivo. Si può lavorare da qualsiasi luogo (dentro e fuori l’azienda), non si timbra un cartellino, non si fanno pause in orari stabiliti.
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Un nuovo equilibrio vita-lavoro

Non solo, il ricorso al lavoro agile secondo il legislatore ha la chiara finalità di favorire le esigenze di equilibrio vita-lavoro e competitività dei lavoratori e per questo, per esempio, viene fatto esplicito riferimento alla necessità di individuare “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Alla base c’è un accordo scritto individuale tra datore di lavoro e dipendente. Le condizioni e gli obiettivi sono stabiliti in questa sede. Deve essere contemplato e definito il diritto alla disconnessione. Allo smart worker deve essere garantita pari possibilità di crescita professionale e quindi la formazione; sono previste tutte le tutele ordinarie. 

Se non sussistono più le condizioni previste una delle due parti può recedere dall’accordo con un preavviso di 30 giorni, 90 nel caso di lavoratori con disabilità, necessari per organizzare il rientro in ufficio.

Nell’emergenza, che continua, il tempo di rivedere il proprio modello organizzativo, ripensare criteri gerarchici, sburocratizzare le procedure non c’è stato e, per questo, diversi osservatori segnalano come quello vissuto sinora sia in gran parte ‘lavoro da casa’, una formula di fatto meno strutturata del telelavoro. 

Questa per esempio è posizione di Alessandro Rimassa, fondatore di Talent Garden che in un’intervista all’Adnkronos cita invece come raro modello virtuoso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova che durante il lockdown ha organizzato le attività in smart working assicurando che “le persone avessero solo una fascia di garanzia di 3-4 ore concordata - ad esempio dalle 14 alle 17 lavoravano tutti – così da consentire i contatti fra colleghi, poi le ulteriori ore, fino a raggiungere il tetto delle 8 ore contrattuali, ognuno sceglieva come organizzarsi il lavoro per centrare, in piena libertà, gli obiettivi predefiniti”.

Eppure, anche in questo modo parziale le opportunità di risparmio, maggiore libertà, minore stress da spostamenti non sono passate indifferenti ai lavoratori e alle imprese.
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Luci e ombre

Secondo Nomisma La possibilità di lavorare da casa è stata molto apprezzata dagli italiani (come più avanti indicato anche dallo studio di Cisco). Lo smart working ha permesso innanzitutto di migliorare il work-life balance, con più tempo libero da impegnare nelle attività domestiche, nella tutela del benessere personale e familiare. Per il 17% il risparmio economico e di tempo generato dal mancato spostamento sono stati i principali vantaggi dello smart working, per un altro 13% i pro risiedono semplicemente nell’avere più tempo libero a disposizione per i propri hobby o per la famiglia.

Altri elementi particolarmente apprezzati ricadono nella sfera professionale per la maggiore autonomia acquisita (14%) e la flessibilità nella gestione dei carichi di lavoro (12%).

In realtà il lavoro a distanza ha rivelato anche aspetti meno piacevoli. Per alcuni ha comportato un incremento delle ore lavorate (28%) e difficoltà nel separare lavoro e vita personale. Infatti il 21% non riesce a staccare la mente dal lavoro e il 25% ha avuto problemi di comunicazione con i colleghi. 

Tutto ciò comporta spesso senso di solitudine e di isolamento per il 22% degli smart workers. 

Se molti apprezzano l’informalità del lavoro nella dimensione domestica, il risparmio per abbigliamento e pasti, la mancanza di un idoneo spazio di lavoro genera confusione e affaticamento.

Sempre secondo lo studio “The World after Lockdown” il 20% del campione si è trovato a lavorare in una casa priva di una stanza dedicata, il 31% ha condiviso gli spazi di lavoro con figli under 12. 

A quanto pare, inoltre, le disparità di genere pesano anche in questa situazione, infatti la quota più elevata di chi lamenta aspetti negativi del lavoro da remoto si registra tra le donne, che si fanno carico della maggior parte delle incombenze domestiche e portano a considerare che lo smart working favorisca maggiormente gli uomini. Non sono questioni semplici ma indicano quanto sia importante passare presto ad una piena e diffusa applicazione della legge 81/2017. 


Gianmarco Nebbiai
Cofondatore e Direttore responsabile di Innovazione.PA. Giornalista e Comunicatore d’impresa, scrive di ICT e del suo impatto sulla società e l’economia dal 1995. Segue tutti i temi legati alla trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione, all’innovazione dei processi e dei servizi a disposizione dei cittadini, con particolare attenzione all’innovazione sociale e al digital health.

InnovazionePA è una iniziativa Soiel International, dal 1980 punto d’informazione e incontro per chi progetta, realizza e gestisce l’innovazione.
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