Certe storie cominciano con un finale: dopo venti anni di lavoro e carriera nel mondo farmaceutico una multinazionale vende il ramo d’azienda nel quale operi. Tu resti nella zona di comfort quando ti dicono che i nuovi acquirenti hanno voglia di investire; due anni dopo, invece, ti licenziano insieme a tutti gli altri lavoratori e gli ‘americani’ se ne vanno, punto. Solo che questa volta alcune delle persone con le quali hai lavorato fianco a fianco per anni non ci stanno, e allora si riparte mettendo insieme capitali, know how ed energie. Così quel finale torna ad essere un inizio. Questa è la storia di Fenix Pharma, la prima cooperativa farmaceutica italiana rinata grazie ad una operazione di workers buyout a Roma dalle ceneri lasciate dalla Warner Chilcott, multinazionale farmaceutica che, allo scadere del brevetto sul farmaco acquistato assorbendo l’intero ramo farmaceutico della Procter&Gamble, chiuse le attività lasciando a casa 130 lavoratori in Italia e 500 nel resto d’Europa. Ed è anche la storia di Daniela Angher, unica donna in quel primo gruppo di rifondatori, oggi presidente di Fenix Pharma che ce la racconta perché, anche se il cammino è complicato, di fronte alle crisi d’azienda il destino non è sempre segnato; esistono strumenti e percorsi che potrebbero essere utilizzati in tanti casi con la giusta attenzione da parte delle imprese, dei lavoratori e delle istituzioni.
A dodici anni distanza Fenix Pharma opera nella distribuzione di medicinali, dispositivi medici e integratori alimentari, in diverse aree terapeutiche (gastroenterologia, osteoarticolare, otorinolaringoiatria). Nel 2023 ha acquisito Wave Pharma, azienda italiana focalizzata sull’oncologia mammaria. “Il percorso di Fenix Pharma comincia nel 2009; al tempo costituivamo il settore farmaceutico di Procter&Gamble in Italia; il nostro prodotto di punta era un farmaco leader nel mercato dell’osteoporosi il cui brevetto sarebbe scaduto a breve. In questa fase fummo passivi osservatori di un’operazione che vide cedere tutto il settore farmaceutico ad un’altra multinazionale che dichiarava di cercare uno spazio di mercato in Europa acquisendo in blocco tutto il ramo d’azienda compreso il personale. Qualcuno nel gruppo aveva preso la cosa con scetticismo ma, nel complesso, visto il mantenimento delle condizioni, il cambiamento era stato accettato bene, con fiducia. In realtà soltanto due anni dopo, allo scadere del brevetto, senza che ci fosse stato alcun investimento l’azienda chiuse le attività europee licenziando tutto il personale. Si era trattato di una speculazione e una manovra che era servita ad un grande gruppo a non dover mettere direttamente la faccia sul licenziamento di 500 persone in Europa di cui 130 in Italia, lasciando il lavoro scomodo a qualcuno meno esposto sul nostro mercato. Nel 2011 allo scadere del brevetto dopo una minima contrattazione tutti vennero liquidati”.
Come siete arrivati alla decisione di ripartire con una vostra impresa?
“Durante l’estate, un piccolo gruppo di cinque persone, tra cui Salvatore Manfredi attuale AD di Fenix Pharma che era uscito qualche anno prima dalla multinazionale per avviare un’attività in modo autonomo, si mise a riflettere sulla possibilità di proseguire a lavorare insieme e quindi decidere di costituire la cooperativa per ripartire. Quando la notizia si sparse chiesero di entrare nel progetto anche altri ex colleghi da tutta Italia. Eravamo diventati trenta. La formula cooperativa, sicuramente inusuale nel nostro settore, fu scelta per ragioni di principio ma anche per i vantaggi economici messi a disposizione dalle misure di cofinanziamento e facilitazione previste per i workers buyout dai fondi mutualistici. Con i nostri singoli capitali, infatti, non avremmo potuto fare grande strada in un settore costoso come il farmaceutico. Mettemmo nel capitale sociale della nuova società parte delle liquidazioni ricevute. Poi con il supporto di Legacoop siamo stati seguiti nella fase di avvio e di interlocuzione con gli istituti di finanziamento. Certo c’è voluto coraggio e sacrificio; alcuni di noi arrivarono a dover metter ipoteche sulle case per costituire il capitale di partenza, ma a fine 2011 la nostra impresa era partita”.
È stato semplice passare dal ruolo di manager a quello di imprenditori?
“È inutile negarlo, anche se hai lavorato in una grande azienda, anche se hai avuto responsabilità importanti, il passaggio che ti porta dall’essere un professionista che riceve direttive a diventare imprenditore o co-imprenditore è realmente difficile; significa scegliere la strada giusta anche quando le indicazioni mancano, le strategie efficaci, gli investimenti migliori.Il Workers buyout è uno strumento importante, ma credo che uno dei problemi più importanti sia proprio questo: riuscire a trovare qualcuno in grado di guidare il processo all’interno del gruppo dei lavoratori che vogliono impegnarsi nel percorso di appropriazione e rilancio dell’impresa. L’idea di proseguire insieme in forma cooperativa è sicuramente determinante ma non ci si improvvisa facilmente da un ruolo all’altro; non è una scommessa che si vince in pochi mesi”.
Voi come avete affrontato questo passaggio?
“C’è bisogno di un processo articolato e di individuare qualcuno, o un gruppo, in grado di assumersi responsabilità e impostare il percorso di trasformazione e creazione di impresa. Noi fortunatamente ci siamo trovati in queste condizioni. Quando la multinazionale ha chiuso, un nucleo di cinque persone si è ritrovato nell’idea di creare una nuova impresa. Eravamo tutti manager esperti ma la differenza l’ha fatta avere qualcuno con una visione già precisa del percorso. Nel tempo mi è capitato di incontrare altri con la speranza di avviare un’operazione di acquisizione da parte dei lavoratori che però, privi di questa capacità di guida, si sono persi”.
Come sono stati gli inizi?
“Naturalmente difficili, caratterizzati da momenti di forte frustrazione ma anche da un grande spirito di rivincita. Iniziammo riconoscendoci formule di collaborazione abbastanza precarie e retribuzioni uguali per tutti ruoli dell’azienda; ricordo che in quel momento l’importo del salario era fissato a milleduecento euro per tutti, dall’amministratore delegato all’informatore medico. Avevamo un solo prodotto inizialmente, ma dopo il primo anno avevamo creato dei nutraceutici a marchio Fenix Pharma. È stato questo il nucleo dal quale siamo ripartiti. I primi anni sono stati duri e c’è voluto tempo per raggiungere il pareggio, ma le opportunità sono via via aumentate. Lungo il percorso abbiamo stretto una partnership con un’azienda farmaceutica che ci ha dato in concessione diversi prodotti; lo definimmo un accordo di co-promotion e fu importante per il consolidamento della nostra offerta commerciale. Ricordo come allora al nostro interno questo passaggio fu vissuto con incertezza, c’era la preoccupazione in una parte dei soci di tornare ad essere sfruttati. In realtà, il vantaggio è stato reciproco: abbiamo avuto a disposizione una serie di prodotti molto più ampia da commercializzare, mentre noi abbiamo messo a disposizione una forza lavoro molto preparata che ha valorizzato in modo significativo questi prodotti. Alla fine la strategia ha premiato e la Cooperativa è arrivata a registrare utili. A questo punto avevamo raggiunto la solidità necessaria a sviluppare un nostro listino di prodotti nutraceutici che il mercato oggi sta premiando. Grazie a questo modello, da cinque anni riusciamo a distribuire ristorni (retribuzioni aggiuntive in relazione agli utili di esercizio) ai soci lavoratori e abbiamo creato un sistema di welfare e di assistenza sanitaria integrativa. Siamo tornati ad essere un modello di impresa solido che riesce a dare tranquillità retributiva ai propri lavoratori”.
Siete stati accompagnati nel percorso di trasformazione?
“La verità è che abbiamo dovuto affrontare le difficoltà degli autodidatti, faticando tanto, spesso anche affrontando conflittualità forti. C’è voluto tempo e impegno ad una età, per molti, che non è più quella della formazione. Io, che nella multinazionale ero l’unica donna nel ruolo di area manager, mi sono trovata ad essere l’unica donna tra i soci fondatori e l’unica donna nel consiglio di amministrazione. Non è stato semplice ma ha giocato a nostro favore anche il fatto che ci conoscevamo da anni, ci aiutato ad andare oltre le difficoltà e le diversità di vedute.Oggi i soci sono 42 e i lavoratori nel complesso un centinaio, stiamo avviando un ricambio generazionale e alcuni di noi sono arrivati alla pensione in Fenixpharma.
Riuscite a trovare le nuove leve?
“Anche questo è un percorso complicato. In questo settore siamo un nome nuovo, e anche un soggetto inconsueto rispetto ad un contesto fatto di grandi multinazionali. Trattando il farmaco l’accesso alla nostra professione e al nostro contratto di lavoro è riservato a laureati in precise discipline come chimica farmaceutica, medicina, biologia, farmacia. Per vedere in noi un’opportunità di lavoro e di crescita devono conoscerci bene, quindi non è facile attrarre giovani, devono essere persone animate da apertura mentale e spirito di scoperta. Alcuni sono effettivamente entrati e proponiamo questo tipo di percorso: assumiamo queste persone come agenti o consulenti e dopo circa due anni, se riescono a inserirsi con successo, proponiamo loro di diventare soci, consapevoli di poterci assumere il costo di un contratto di lavoro nazionale chimico farmaceutico a tempo indeterminato”.
Se siete una realtà anomala nel settore dell’industria farmaceutica lo siete, probabilmente, anche in quello delle cooperative di lavoro, come vi relazionate a questo tipo di imprese?
“In questo ambito, in effetti, siamo portati come esempio, nel senso che potremmo essere un modello replicabile in tante situazioni. Se c’è un gruppo con la giusta volontà, spirito di sacrificio e umiltà (perché si faranno tanti errori) è un percorso che può portare al recupero di tante imprese. Siamo l’unica cooperativa nel settore farmaceutico ma, superato lo scetticismo degli inizi, oggi ci considerano un interlocutore credibile alla stregua delle altre imprese”.
Quello del workers buyout è uno strumento importante, esistono fondi e strutture; che cosa serve per stimolarne di più?
“Un punto critico nel modello cooperativo è la mancanza di coinvolgimento e conoscenza da parte dei giovani. La formazione universitaria per esempio non studia questo modello di imprenditorialità e quindi non se ne capiscono le opportunità. Un altro aspetto problematico di fronte alle crisi di impresa è che non c’è convergenza di intenti verso la sopravvivenza dell’impresa in altre forme. Questa possibilità da parte delle parti sociali che intervengono passa piuttosto in sordina. Ci sarebbe bisogno di stimolare attenzione e conoscenza”.
Sei presidente di FenixPharma, esiste una questione di genere nel settore farmaceutico?
“Mi sembra che nell’ambito delle grandi imprese farmaceutiche, obiettivamente, non esista una vera e propria discriminazione di genere. Il problema è il tipo di dedizione al lavoro che viene richiesta nel modello multinazionale. È una scuola importante che dà prospettive di crescita ma se sei donna e a un certo punto fai scelte come avere figli, dovrai rallentare e basterà poco per restare indietro. Nessuno ti ostacola ma in un ambiente così competitivo gli altri corrono e il terreno che perdi in una fase critica della carriera non lo recuperi più. Ci sono molte donne manager ai vertici di aziende farmaceutiche ma quasi sempre hanno fatto scelte nette. Quello che posso dire sulla base della mia esperienza è che la scelta di proseguire in modalità cooperativa offra alle donne più chances di ricoprire ruoli significativi nel tempo”.
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