La silver economy investe diversi aspetti della vita degli over 65, incluso quello della salute, intesa non solo come cura ma anche come prevenzione e assistenza. Ma il diritto alla salute non dovrebbe c’entrare nulla con la silver economy, quantomeno con quella in mano al privato: ne è convinto Vittorio Agnoletto, professore di “Globalizzazione e Politiche della Salute” all’Università degli Studi di Milano, che in questa intervista a Innovazione Pa traccia un quadro della situazione, evidenziandone le criticità.
Quali sono, secondo lei, i punti chiave da sottolineare quando si parla di silver economy?
Quando parliamo di silver economy parliamo di qualcosa che costituisce un mercato rivolto ad una generazione particolare, quella sopra i 65 anni. Una generazione precisa, presente soprattutto nel mondo occidentale e diversa da quelle precedenti che non avevano gli attuali livelli di welfare, pensioni, l’assistenza sanitaria e sociale e così via. Ma questa generazione si differenzierà anche da quelle successive, che saranno sempre meno coperte dalle pensioni e meno tutelate dal punto di vista sanitario e sociale. Tuttavia, la silver economy non riguarda comunque tutta la generazione attuale di over 65, bensì una fetta, non sicuramente chi ha una pensione minima di 600 euro. Quindi è un mercato di nicchia occidentale, in mano al privato, che si concentra sulla capacità di spesa e di investimento di quella generazione. Tutto ciò non dovrebbe c’entrare nulla con la sanità, perché la tutela della salute è un diritto, non un mercato. E se la consideriamo un diritto dovrebbe collocarsi fuori dal mercato. In particolare, in Italia, il diritto alla salute è garantito dall’articolo 32 della Costituzione, ed è universale, è l’unico non associato al diritto di cittadinanza. Inoltre, al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione si legge che la Repubblica deve eliminare gli ostacoli di carattere economico e sociale che limitano la libertà e i diritti costituzionali. Quindi non c’è ombra di dubbio che il diritto alla salute e quindi l’assistenza sanitaria dovrebbero essere fuori dal mercato. E se dovesse cadere questo principio già oggi una fetta di popolazione della terza età non potrebbe curarsi, per non parlare delle generazioni future, in cui solo una percentuale minima potrebbe curarsi. Quindi associare la silver economy alla sanità mi sembra decisamente contraddittorio.
Quale atteggiamento dovrebbe avere la sanità pubblica?
Il servizio sanitario pubblico dovrebbe garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro età, almeno quanto previsto dai Lea, Livelli essenziali di assistenza, che comprendono gli interventi sanitari che lo Stato dovrebbe garantire a tutti i cittadini. E il Ssn dovrebbe essere sostenuto dalla fiscalità generale in modo progressivo, come succedeva nel 1978 alla sua nascita. Quindi è lo Stato che deve farsi carico della salute. Poi può collaborare con il privato, ma quest’ultimo non deve essere pagato direttamente dai cittadini, per questo ci sono i meccanismi di convenzione. L’Ocse usa soprattutto due indicatori per valutare lo stato di salute di un Paese: uno è l’attesa di vita, l’altro è l’aspettativa di vita in buona salute degli over 65. Proprio su quest’ultimo indicatore l’Italia sta precipitando. Perché più passano gli anni, più lentamente diminuisce l’attesa di vita, ma molto più velocemente diminuisce il numero di giorni privi di eventi patologici e/o di disabilità per gli over 65. Dunque, questa fascia di età sta pagando più di tutti la mancanza di servizi gratuiti del nostro Ssn.
Ci sono differenze tra Regioni da questo punto di vista?
Il meccanismo è nazionale, poi è chiaro che l’assistenza sanitaria è diversa da una Regione all’altra, come dimostra anche la migrazione sanitaria dal Sud, soprattutto verso Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Il problema è che circa il 54% di questi migranti finisce poi in strutture private. E quindi anche qui si può curare chi se lo può permettere.
La silver economy non si limita al solo settore della cura, ma sta ampliando i suoi confini.
Uscendo da una visione della sanità unicamente come cura, e comprendendo anche al suo interno, come dice il giuramento di Ippocrate, la prevenzione e l’assistenza, si scopre che il primo e il terzo di questi termini sono in mano a privati: basti pensare ai servizi di assistenza, alle badanti, alle Rsa con rette da 3000 euro al mese. E non è un caso quindi che si stiano sviluppando modelli di Rsa con diversi livelli di assistenza. Eppure, secondo la legge italiana la retta dell’Rsa dovrebbe essere suddivisa in due parti, una pagata dal Ssn e l’altra dalla persona insieme al Comune di residenza in base all’Isee. La divisione di percentuale di questa retta dipende dalla situazione della singola persona: per esempio, la Corte costituzionale ha previsto che per una persona con Alzheimer avanzato il Ssn debba pagare l’intera cifra. Ma tutto ciò oggi è valido sulla carta, spesso bisogna passare per vie legali per ottenere il giusto trattamento. E così il settore diventa preda del privato.
Ci fa un esempio?
Le attività di prevenzione, che comprendono la giusta alimentazione, la possibilità di andare in palestra o fare fisioterapia. Proprio quest’ultima è sempre più spesso esclusa dal Ssn, pur essendo fondamentale per le persone di una certa età. Dunque, questi settori di prevenzione, riabilitazione e assistenza stanno venendo sempre più spesso cedute quasi unicamente al mercato privato. E tutti questi aspetti dipenderanno molto anche da che cosa farà il Governo in termini di autonomia differenziata e di Lep, cioè i livelli essenziali prestazioni, che rischiano di essere meno tutelati dei Lea. Una situazione che potrebbe aprire delle voragini tra le Regioni italiane: il Sud potrebbe trovarsi privo di assistenza sanitaria, con meno ospedali, meno strutture sanitarie e meno medici, dall’altra parte il Nord attira risorse e medici ma privatizza tutto. In Lombardia, per esempio, per l’assistenza per le patologie croniche, che riguardano un terzo dei cittadini quasi tutti over 65 su cui si concentra il grosso della spesa sanitaria, è previsto un sistema in cui il soggetto dovrebbe delegarle ad un gestore privato, sottraendole alle cure del medico di famiglia. Finora la Regione ha potuto solo invitare i cittadini ad andare in questa direzione, perché c’è una legge nazionale, ma nel momento in cui dovesse diventare reale l’autonomia differenziata il cittadino lombardo con patologie croniche sarebbe obbligato ad affidarsi ad un gestore privato. E il ruolo dei medici di famiglia sarebbe ridimensionato, limitandosi alla gestione delle patologie acute. Allo stesso tempo la Regione sta chiedendo ai medici di famiglia di collaborare con i vari gestori, fidelizzandosi ad uno di loro. Al momento sono state monetizzate circa 70 patologie a tre livelli (lieve, media, grave), per ognuna di queste è previsto un compenso che viene girato ai gestori che reclutano i pazienti. Un po’ come fanno le compagnie telefoniche. Il rischio dunque è che la silver economy invada i settori della riabilitazione e dell’assistenza, ma anche quelli a cavallo fra sanità e lo stare in salute, come l’alimentazione, la possibilità di fare ginnastica e così via.
Quanto detto prima sul bacino di utenza relativamente ristretto della silver economy non contrasta con le previsioni di crescita della stessa?
La sanità privata, come si legge anche nell’ultimo report del Centro studi di Mediobanca, sta facendo profitti inenarrabili. Guadagna su quelli che possono pagare, ma non per questo non cresce, perché i prezzi aumenteranno fino a trovare un equilibrio che converrà al mercato. Ma se si va in quella direzione il resto della popolazione è tagliata fuori. Per uno che paga altri 15 sono esclusi e a rischio; ma chi fornisce il servizio guadagna lo stesso, non ha bisogno dell’intera platea generazionale.
Gli strumenti digitali, come il Fascicolo sanitario elettronico e la Piattaforma nazionale di telemedicina, possono avere un ruolo nel migliorare l’accessibilità dei servizi sanitari?
Sì, ma bisogna vedere a quali condizioni. Per esempio, in Lombardia per fissare una visita o parlare con il medico curante alcuni medici di famiglia usano un’app. Ma quante persone sopra i 65 sono in grado di usarla? Nella trasmissione 37.2 che conduco su Radio Popolare siamo sommersi da telefonate di persone che ci raccontano che non riescono più a parlare con il loro medico, perché devono passare dall’app e non sono capaci a farlo da sole, ma hanno bisogno del figlio o del nipote. Prima invece c’era un numero di telefono da chiamare, oppure degli orari fissi in cui recarsi allo studio medico. Il meccanismo di digitalizzazione della medicina deve tener conto della digitalizzazione della popolazione, non dimenticandosi che i maggiori fruitori della sanità sono gli over 65. E tenendo conto che il rapporto diretto medico-paziente non può essere sostituito da un rapporto macchina-paziente. Poi, non c’è ombra di dubbio che la digitalizzazione e gli investimenti del Pnrr possano portare ad un aumento della disponibilità di terapie, cure e così via, però non bisogna pensare che questo possa sostituire il ruolo del medico o dell’operatore sanitario. Tra l’altro i primi studi dicono che questo tipo di approccio non comporta automaticamente una diminuzione del personale sanitario. Strumenti come l’IA nella diagnostica, le tecnologie di assistenza, come gli occhiali speciali, apparecchi acustici, ausili per la mobilità e così via sono utili ma non cancellano il ruolo del medico, perché ci sono momenti in cui bisogna fare delle scelte e le deve fare l’uomo.
È dunque importante l’approccio alle nuove necessità degli anziani e agli strumenti digitali…
Sì, e qui ci sono grandi differenze con il nord Europa, dove tra l’altro è nato e si è sviluppato il termine silver economy. Pensiamo alla cura degli anziani, in un posto come la Norvegia. Come viene trattato l’anziano nelle città norvegesi, come Oslo? Ci sono grandi case dove gli anziani soli o le coppie hanno il loro appartamento, gestito dal Comune e con prezzo calmierato, con tutta una serie di servizi gestiti all’interno del caseggiato. Poi gli anziani possono avere cibo a domicilio, pulizia degli appartamenti, condividere gli spazi comuni e così via. È chiaro che la società norvegese è diversa dalla nostra. Una diversità emersa anche durante il Covid: in Norvegia, infatti, i contagi sono stati limitati perché i nuclei familiari sono meno uniti, con i ragazzi che vanno via di casa presto. Ma tornando al discorso delle tecnologie, un investimento in un ambito di questo tipo non sostituisce ma integra il servizio umano. Così l’anziano può scegliere quali servizi vuole e l’ambiente risulta protetto e non disumanizzante come quello delle Rsa. Quindi dipende da come uno si approccia a queste novità: sono pensate per fare vivere meglio le persone oppure per entrare nel mercato e guadagnarci? Su questo tema ci sono anche progetti europei, come l’Active and assisted living partito nel 2020. Ma nel momento in cui arrivano risorse dall’Europa è fondamentale sapere su quale terreno cadono: vengono usate per l’assistenza agli anziani e per fornire risorse aggiuntive come in Norvegia, oppure vengono investiti in strumenti che, seppur utili, non saranno accessibili ad una larga fetta di popolazione?
C’è il rischio che una minore accessibilità alle cure comporti un aumento dei costi per le famiglie e per lo Stato?
Sì, perché è soprattutto la terza età che smette di curarsi, e questo è un disastro, perché se un anziano, per esempio, non può fare fisioterapia o andare dal dentista le conseguenze ricadono non solo su di lui: se non fa fisioterapia può non recuperare anche da interventi banali come una protesi all’anca o la rottura del femore, e la sua diminuita mobilità diventa un costo per la famiglia che vede aumentare le spese; spesso è la donna che deve lavorare meno per assistere l’anziano. La stessa cosa succede se una persona non può fare un intervento odontoiatrico, perché bisogna cambiare il modo di cucinare, con ulteriori difficoltà e costi. E proprio questo costruisce dall’altra parte il mercato, perché chi può si affida al privato e chi non può si trova in difficoltà.
InnovazionePA è una iniziativa Soiel International, dal 1980 punto d’informazione e incontro per chi progetta, realizza e gestisce l’innovazione.
Tra le altre iniziative editoriali di Soiel:
Soiel International Srl
Via Martiri Oscuri 3, 20125 Milano
Tel. +39 0226148855
Fax +39 02827181390
Email: info@soiel.it
CCIAA Milano REA n. 931532 Codice fiscale, Partita IVA n. 02731980153