Nella zona collinare di Castello a nord-ovest di Firenze tra le tante e diverse emergenze culturali e monumentali si innalza con i suoi due piani e finestre in stile rinascimentale la Villa medicea di Castello. Un complesso le cui origini risalgono al XIV secolo e rinomato per i suoi magnifici giardini voluti dal Granduca Cosimo I dei Medici che adibì la Villa a elegante sede di rappresentanza politica. Tra queste storiche e nobiliari mura ha sede l’Accademia della Crusca, un’antica istituzione che mosse i primi passi quattrocentotrentasei anni fa. Una storia affascinante scandita dalle parole, dal loro utilizzo e dalle possibili innovazioni. È la storia della nostra lingua e della sua evoluzione attraverso le diverse fasi storiche, che il professor Claudio Marazzini, docente di Storia della Lingua Italiana Università Piemonte Orientale e Presidente dell’Accademia, ci racconta nel nostro incontro.
La prima adunanza dell’Accademia della Crusca si tenne nel 1583. Il primo vocabolario degli accademici venne pubblicato nel 1612. L’intento dei fondatori era di conservare la bellezza del volgare fiorentino. Quali sono oggi Presidente gli obiettivi e le finalità dell’Accademia?
Effettivamente sono passati secoli. Da istituzione squisitamente fiorentina, l’Accademia, si è trasformata in istituzione nazionale. Alla nascita non era l’espressione dello stato mediceo: si trattava di una semplice associazione di privati, e costoro successivamente si sono impegnati nell’inventare il primo grande vocabolario di una lingua europea. Sono trascorsi diversi secoli, e solo dopo l’unità d’Italia l’Accademia è diventata davvero un’istituzione dello Stato. Oggi, la Crusca è un ente statale non economico, regolato da uno statuto (disponibile online sul sito www.accademiadellacrusca.it) che ne disciplina gli obiettivi e i principi. La sua unicità, rispetto alle altre accademie linguistiche europee, di Francia e Spagna, sta nel fatto che l’Accademia ha sede a Firenze, cioè non nella capitale dello Stato. Il suo compito è occuparsi della lingua italiana. Nella storia, è stato rilevante il contributo alla lessicografia. L’Accademia si è allontanata da questa disciplina nel 1923, quando venne interrotta la quinta edizione del vocabolario, cominciata con l’unità d’Italia e dedicata al Re Vittorio Emanuele II. Nel 1923, infatti, il governo Mussolini tolse alla Crusca il compito di realizzare il vocabolario, e trasferì questa incombenza all’Accademia d’Italia. I lavori cominciarono, ma, alla caduta del fascismo, il vocabolario era giunto solo alla lettera “C”, mentre il vocabolario della Crusca era stato interrotto nel 1923 alla lettera “O”. Sono interessanti anche le storie dei vocabolari interrotti, magari legate alle vicende politiche, come in questi due casi. Oggi l’Accademia si occupa delle ricerche sulla lingua italiana, svolge attività di consulenza. Chiunque può scrivere all’Accademia, ricevendo risposta tramite web o tramite il giornale “La Crusca per voi”, a stampa. Questo foglio periodico è stato fondato dall’illustre Presidente dell’Accademia Giovanni Nencioni.
Curiosando sul sito web dell’Accademia mi sono imbattuta in una parola che mai avrei immaginato di associare alla Crusca: “eskere”. È una nuova parola che mio figlio diciottenne utilizza frequentemente. Non credo che lui o i suoi coetanei sappiano che l’Accademia si occupa del loro linguaggio. Perché ancora oggi l’Accademia viene recepita come un’entità distante dalla quotidianità?
Suppongo che abbia trovato questa strana parola nel repertorio dei neologismi, presente nel nostro sito. I neologismi vengono segnalati dai cittadini, dagli amatori della lingua italiana. È un modo per tastare il polso alla lingua, verificando le possibili innovazioni, molte destinate a vita effimera. Senza la segnalazione del pubblico, alcune potrebbero sfuggire. Molti lettori, tuttavia, credono che in questo modo, segnalando le parole, queste entrino direttamente nel vocabolario della lingua italiana. Si tratta di un modo un po’ ingenuo di immaginare il lavoro dell’Accademia. Noi, infatti, non stiamo stampando un vocabolario, tanto meno un vocabolario di neologismi. Questo, semmai, lo ha realizzato la Treccani. Bisogna anche sottolineare che spesso i neologismi sono ciò che i linguisti chiamano “occasionalismi”, ossia parole che durano un tempo breve, molto breve, e poi spariscono; quindi non sussiste alcuna ragione per cui entrino davvero in un vocabolario. I lessicografi della Zanichelli, che ogni anno stampano il vocabolario Zingarelli, sono ad esempio molto attenti nell’introdurre neologismi. Non li accettano se non sono sicuramente neologismi stabili, cioè duraturi. Infatti i lessicografi della Zanichelli non hanno mai introdotto nel vocabolario “petaloso”, parola ben nota a tutti dopo la vicenda del bambino Matteo Trovò, e “webete”, la parola usata da Enrico Mentana per indicare lo “stupido aggressivo del web”. L’interesse della Crusca per i neologismi, quindi, è limitato: registriamo le novità che si affacciano nella lingua. Queste novità possono poi rimanere o sparire. Il principale servizio reso dall’Accademia ai cittadini, invece, è la consulenza, ed è anche il più gradito al pubblico. L’Accademia tuttavia evita di dare pareri che possano essere utilizzati per fini professionali, ad esempio dagli avvocati in tribunale. Stabilire ad esempio se una parola sia o meno un’offesa, non è compito dell’Accademia, anche perché l’offesa dipende dal contesto, dal tono, dal modo o dal luogo. La stessa parola può essere scherzosa e amichevole, oppure offensiva. Dipende dalle intenzioni del parlante. Non è solo questione di vocabolario. Tra i servizi resi ai cittadini, vanno annoverati anche quelli resi attraverso le collaborazioni della Crusca con la Pubblica Amministrazione e le istituzioni.
Una delle attività condotte in questo ambito, forse meno nota, ma che ha dato più soddisfazione, è stata la revisione di tutti gli annunci al pubblico delle Ferrovie dello Stato. Pur avendo accettato quasi tutti in nostri suggerimenti, le Ferrovie non hanno dato per ora notizia del lavoro svolto insieme. Il risultato della revisione, per esempio, è stato l’abolizione del termine “controlleria”, parola tecnica che indica il ‘controllo dei biglietti’. Questa parola è inusuale per i cittadini. Abbiamo suggerito di sostituirla con “controllo dei biglietti”, molto più semplice e chiaro. Abbiamo anche suggerito di abolire la parola “clienti” per indicare i viaggiatori o passeggeri. In questo caso, non c’è un’infrazione alla regola della chiarezza, ma vogliamo evitare la convenzionale trasformazione del pubblico in “clienti”, quasi si fosse sempre in un supermercato dominato solo dalle leggi dell’utile. Esiste anche uno scopo sociale, di pubblica utilità, nelle Ferrovie così come nelle Università, che farebbero bene a loro volta a mettere nel dimenticatoio termini troppo caratterizzati nel senso dato loro dal marketing. Meglio dunque, per le Ferrovie, il termine viaggiatori o passeggeri. Le Ferrovie non hanno accettato invece il suggerimento di eliminare la parola “disagio”, quando avviene un disservizio, ad esempio un ritardo del treno. Se si tratta di un ritardo di pochi minuti, possiamo anche parlare di “disagio” ma se il ritardo è grave… Capisco, ovviamente, che l’azienda preferisse la parola “disagio” ad altre semanticamente più efficaci. Quanto ai servizi resi al pubblico, l’Accademia fornisce anche corsi, sia per i magistrati, sia per gli ordini professionali. Sono passati dalla Crusca non solo molti magistrati in carriera, ma anche i MOT (Magistrati Ordinari in Tirocinio). Infine, abbiamo firmato un accordo con la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e con il Consiglio di Stato, sempre al fine di organizzare corsi e seminari che hanno per obiettivo la chiarezza e il buon uso della lingua.
Quali sono le richieste principali degli Ordini professionali?
Altri Ordini, ad esempio quello dei Commercialisti, hanno seguito il modello dell’Ordine dei giornalisti. La richiesta principale è sempre legata al tema della chiarezza nella comunicazione pubblica. Il nemico è spesso il “burocratese”, dietro il quale si cela lo spettro di quella che Calvino chiamava l’“antilingua”, la lingua giuridica paludata, arcaica, che ostacola il rapporto col cittadino. Spesso vengono richiesti corsi sul linguaggio di genere, in particolare dalla Pubblica Amministrazione; ricordo a tal proposito un corso svolto per i dipendenti delle Dogane, che sono venuti apposta da Roma nella nostra sede a Firenze.
Qual è la posizione dell’Accademia sul linguaggio di genere?
Naturalmente le parole come sindaca e ministra non creano alcun problema; è evidente che, nell’Italia di oggi, il femminile nelle professioni è assolutamente legittimo, può essere largamente utilizzato. Ci si deve chiedere comunque fino a che punto si debba spingere l’intervento sulla lingua, così come lo immaginano coloro che la vorrebbero ripulire da ogni traccia di vero o presunto “pregiudizio”. Dietro le posizioni più ingenue o radicali sulla necessità di ripulire la comunicazione da qualunque pregiudizio di genere, sta spesso una mancata coscienza del meccanismo complesso della lingua medesima. Ripulirla da tutto ciò che alcuni considerano politicamente scorretto, rischia di creare situazioni ingestibili. Non c’è nessun problema, come ho detto, nel dire “la sindaca” o “la ministra”, ma quando si affronta il problema della concordanza nel plurale è necessario ricordare quello che a scuola ci hanno insegnato; ossia che, in questo caso, prevale il maschile. Si dice “Il ministro e la ministra sono bravi”, non “brave”. Le più accanite sostenitrici dell’abolizione della discriminazione di genere vorrebbero correggere anche l’accordo, e questo risulta complicato, oltre che inutile. Inoltre bisogna intervenire sul sistema dei pronomi, reduplicando le forme, maschili e femminili. Interventi inutili, appunto: in tutte le lingue romanze esiste il “maschile non marcato”, che vale per maschile e femminile, e non è affatto discriminante. Se entro in una stanza in cui stanno uomini e donne, e dico “ci siete tutti?”, ho usato questo “maschile non marcato”. Se dicessi “ci siete tutte e tutti?”, per essere politicamente corretto, farei ridere i polli! La reduplicazione va bene solo nei discorsi ufficiali, e anche lì è un po’ un impiccio, come quando il capufficio saluta “impiegati e impiegate”, o il dirigente scolastico saluta “studenti e studentesse”, “professori e professoresse”, e se adopera “insegnanti” deve mettere due articoli, “gli” e “le”, per far vedere che non discrimina il genere… L’uso della lingua diventa un incubo normativo, proprio nell’epoca in cui si è teorizzato l’uso vivo e disinvolto delle risorse linguistiche. Non è obbligatorio assecondare la revisione totale della lingua in nome delle teorie di genere. Altre grandi Accademie, ad esempio l’Académie Française, sono state molto più conservatrici della Crusca. L’Académie d’oltralpe ha reso pubblico un brillante intervento (non recente) di Claude Levy-Strauss, il grande antropologo, il quale faceva notare che gli accordi all’interno della lingua, maschili e femminili, non vanno presi tutti come relativi alla vita sessuale; si tratta soprattutto di un sistema di concordanze con cui la lingua riesce a funzionare, agganciando i vari elementi. Volendo ripulire la lingua di tutto quello che si ritiene un pregiudizio, si rischia quindi di eccedere, oltre che di essere ridicoli. Il “maschile non marcato” presenta un ulteriore problema: la distinzione tra carica e funzione. Come rilevato da uno dei nostri accademici, Vittorio Coletti, autore di una “Grammatica dell’italiano adulto”, quando una carica è accompagnata dal nome e cognome va espressa tenendo conto del genere, ma quando entra in gioco solo la funzione, ad esempio in un decreto del Presidente del Tribunale, senza che se ne dica il nome, senza se si espliciti nel testo se si tratta di uomo o donna, allora è possibile utilizzare il “maschile non marcato”. In questo caso, infatti, non importa il genere, ma la carica.
Recentemente il Foglio ha definito i membri dell’Accademia dei “passatisti culturali” sostenitori del sovranismo linguistico. È veramente così? La difesa della lingua italiana si identifica con un sovranismo linguistico degno dell’opera di “italianizzazione” condotta dal prof. Gentile e Mussolini negli anni ‘30?
La polemica non è nata da una battaglia sui forestierismi o sui prestiti. C’è ben altro! Persino “il Foglio”, infatti, ci scommetterei, sarebbe disposto a condividere (entro certi limiti) la campagna contro l’uso eccessivo delle parole inglesi. Ma il punto di dissenso non è questo. C’è un tema ben più importante della penetrazione di alcune parole forestiere. Certo non posso definirmi felice che arrivino tanti forestierismi, ma sono consapevole che si tratta di un fenomeno inarrestabile. Le lingue si influenzano reciprocamente, ed è normale che le lingue più forti dal punto di vista economico e tecnologico abbiamo il sopravvento sulle altre. Si aggiunga che non tutti i termini sono traducibili: basti pensare alla parola Wi-Fi, che non è stata tradotta nemmeno in spagnolo o in francese (anche se i francesi e gli spagnoli non usano la pronuncia inglese, dunque esclusiva di noi italiani). Dietro l’attacco durissimo del “Foglio” alla Crusca non c’era questo, bensì il dibattito sull’uso esclusivo dell’inglese all’interno dell’Università. Si tratta di una questione nata nel 2012, passata al vaglio dal Tribunale Ammnistrativo Regionale della Lombardia, dopo il ricorso di alcuni professori del Politecnico di Milano, i quali si erano opposti all’abolizione dell’italiano. A seguire, c’è stato il ricorso al Consiglio di Stato da parte del Politecnico e del MIUR, e poi una richiesta di intervento rivolta alla Corte Costituzionale, la quale, nel 2017, ha dato una sentenza interpretativa sul passo della Legge Gelmini che era servita al Politecnico per introdurre i corsi esclusivamente in inglese. Infine, nel 2018 si è giunti alla sentenza definitiva del Consiglio di Stato, che ha dato torto al Politecnico di Milano e al Ministro dell’Istruzione. La questione è la seguente: quanto italiano e quanto inglese ci debbano essere nell’insegnamento universitario. Come ho detto, alcuni vorrebbero, semplicemente, abolire l’italiano, per quanto ciò possa apparire incredibile. Ma è proprio così. Succede, in queste forme, solo nel nostro paese, purtroppo. La questione è complessa, perché sicuramente, in alcuni ambiti, è indispensabile che ci siano corsi in inglese, per esempio se ci sono molti studenti stranieri o i professori sono stranieri; ma questo non dovrebbe necessariamente produrre l’abolizione indiscriminata dell’italiano. La sentenza del Consiglio di Stato, seguendo l’indirizzo della Corte Costituzionale, va proprio in questa direzione. La battaglia per salvare gli spazi dell’italiano nell’alta cultura è la battaglia più importante per la sopravvivenza della nostra lingua. Non è una battaglia facile. In passato l’italiano ha avuto rapporti difficili con gli abitanti dell’Italia, con i cittadini della Penisola. Da un lato, una gran parte di cittadini l’italiano non lo ha mai imparato bene, dall’altra esiste una classe dirigente che, in parte, a sua volta, non lo ha imparato bene nemmeno adesso. Basta ascoltare i discorsi parlamentari per capirlo. Una parte della classe dirigente non ha fiducia nella lingua italiana, e ritiene che vada cancellata dagli usi elevati, nell’insegnamento universitario prima di tutto. Evidentemente l’Accademia non può sottoscrivere questa tesi. In occasione della giornata europea delle lingue, la Rappresentanza italiana presso la Commissione Europea ha voluto riunire a Firenze, presso la sede della Crusca, la Real Academia Española e l’Académie française. In quell’occasione, la constatazione delle forme di autolesionismo con cui gli italiani tentano di cancellare lo spazio della loro lingua ha lascito allibiti i colleghi stranieri. Del resto, ecco un caso recente: la scorsa settimana, mi è capitato di vedere una trasmissione televisiva nella quale si sghignazzava per il fatto che il Presidente del Consiglio Conte avesse scritto in italiano la lettera di risposta all’Unione Europea, per giustificare le scelte di bilancio dell’Italia. La conduttrice parlava di scelta legata ad una volontà di sovranismo linguistico, mentre l’ospite in studio, bontà sua, parlava di sciatteria. Questo atteggiamento è significativo: la lettera è stata scritta in italiano, ossia in una lingua legittima all’interno dell’Unione Europea. Sciatta sarebbe stata una lettera scritta male, in inglese o in italiano! L’idea che il Governo italiano scriva nella propria lingua a un governo straniero viene vista come uno scandalo incredibile. Per cosa dovremmo usare l’italiano, allora? Solo per il festival della canzone?
La terminologia e il linguaggio derivati dall’esplosione dell’informatica, delle nuove tecnologie, appannaggio per lo più di multinazionali con l’utilizzo di inglesismi e acronimi, a cui si aggiungono i processi di globalizzazione, hanno avuto conseguenze anche nella lingua italiana: manager piuttosto che dirigente, development piuttosto che sviluppo, meeting piuttosto che riunione, call piuttosto che telefonata, ecc. La Francia ha normato la difesa della lingua con la Legge Toubon del 1994, il fascismo vietò alcune parole o pronomi come il “Lei”. Questi tentativi non hanno avuto buon esito, come ci si deve comportare?
Il motivo per cui in Italia ci si spaventa di fronte a qualunque resistenza contro le parole forestiere è proprio il fascismo. I francesi non hanno questa reazione, perché la Repubblica di Vichy non li ha segnati più di tanto. In realtà, a parte gli scherzi, la questione è più complessa. Quando si riesce nell’opera di sostituzione delle parole, il ridicolo non c’è. Per esempio, régisseur francese è stato sostituito da “regista” negli anni del fascismo, e funziona benissimo. Nessno se ne lamenta. Anzi, nessuno se ne ricorda. Il problema, come ho già detto, non è quello dei prestiti. Coloro che sono ossessionati dai prestiti, si arroccano dietro posizioni puriste. Noi, come gruppo Incipit presso la Crusca, proponiamo alternative ai forestierismi che entrano nelle leggi e nelle norme italiane, come ad esempio stepchild adoption, smart work o voluntary disclosure. Questi termini inglesi spesso sono un bel camuffamento della realtà, vera “antilingua”, e non favoriscono la comprensione da parte del pubblico. Si pensi al bail in, americano gergale passato alla finanza, termine che tutti gli italiani hanno digerito, ma senza capire bene di cosa si trattasse. La Crusca aveva suggerito di chiamarlo “salvataggio interno”, per essere chiari. Si è preferita l’oscurità, e non senza ragione. Nella vita comune, nella pratica di tutti i giorni, noi non facciamo la guerra ai forestierismi, anche se, personalmente, mi faccio delle matte risate di fronte alla parola location delle recensioni di Tripadvisor. Vedo benissimo la povertà linguistica di chi scrive quella parola, che invece ha tanti equivalenti italiani, come “sito”, “posto”, “luogo”, “località”, “posizione”, “contesto” ecc. Ma questo non è il fronte vero di difesa dell’italiano; piuttosto, è il fronte di difesa del gusto, dell’intelligenza e della ricchezza sinonimica, ma è evidente che non tutti hanno lo stesso possesso della lingua. Possiamo anche essere benevoli verso i meno colti. La vera battaglia, però, è la difesa dell’italiano ai livelli alti della cultura, seppure non in senso esclusivo. Tuttavia deve essere chiaro che nessuno può decidere che la nostra lingua non sia più la lingua dei corsi universitari. Purtroppo, molte università perseverano su questa via. Si stanno istituendo per esempio moltissimi corsi di medicina tutti in inglese. Non c’è scelta più stolta. Il medico che esce da quei corsi non si chiude in un laboratorio, ma va negli ospedali, dove c’è la gente comune che parla italiano. Quindi l’idea che un operatore culturale, formato scientificamente nell’accademia, debba operare soltanto in inglese, è un’idea di globalizzazione insensata!
Negli ultimi decenni abbiamo assistito al progressivo degrado della conoscenza e l’uso che gli italiani fanno della propria lingua. Secondo lei cosa si cela dietro questo fenomeno che viene tollerato o forse voluto dalla classe politica e dirigente del Paese?
Io non sono tra coloro che insistono su questo tema della decadenza della lingua, perché in realtà ci sono tanti esempi di lingua usata in modo perfetto anche oggi, sia nella scrittura sia nell’oralità. Siamo sicuramente in una società che è largamente tollerante, e che dedica un culto particolare a tutto ciò che è informale. Questo è particolarmente evidente nel campo della moda. Un oratore, un tempo, non usava per prima cosa togliersi la giacca e rimanere in camicia. Oggi invece sì, si fa così. Questo gesto, da parte di un leader, significa essere vicino alla gente. Comunica un senso di familiarità, vero o falso, reale o retorico. Naturalmente, ciò si accompagna a una rinuncia al livello formale, nell’aspetto come nel linguaggio. Parlare in modo forbito ed elegante significa correre un rischio: segna un distacco con il pubblico. Tutto questo, compreso (forse) sbagliare il congiuntivo, corrisponde a una nuova retorica, dietro la quale non c’è tanto la decadenza della lingua, ma certo la decadenza dei costumi sociali. La lingua vive benissimo per conto proprio, e ci sono molti che la usano assai bene. Probabilmente, nel tempo, gli esempi deteriori si perderanno. La crisi di cui parlo investe sicuramente il mondo della politica, visto che comunica prevalentemente tramite dei tweet, dove è evidente che non si possono svolgere ragionamenti complessi ed elaborati; si parla per slogan o insulti, che magari funzionano meglio di argomentazioni complesse. Non è certo in crisi la lingua di per sé, in questo; è in crisi qualcos’altro. Anche gli scrittori sono nella stessa morsa, costretti alla rincorsa del colloquiale per sfuggire al rischio più temuto, quello dell’italiano aulico. Sono ridotti a usare una lingua di duemila parole. Per questo oggi i buoni modelli di italiano non si vanno a cercare nella letteratura, piuttosto nella saggistica e nel giornalismo di alta qualità.
La comunicazione oggi è fortemente segnata dai social network a qualsiasi livello ed in tutti gli ambiti. Anche l’Accademia ha un suo account Twitter. Come e in che modo questo influenza il linguaggio… ci dobbiamo difendere? Da cosa e come?
Io non seguo direttamente i social della Crusca, ma i responsabili del settore mi garantiscono che noi non scendiamo mai a livelli bassi, ma facciamo il possibile per mantenere il dialogo a livelli civili, con linguaggio decente. Non ho tuttavia molta fiducia in questi strumenti. Li ho trovati in funzione, quando sono diventato presidente, e certo non li ho chiusi, perché ritengo che sia importante il contatto con un pubblico ampio. Un pubblico che abbiamo raggiunto anche per altre vie. Mi trovo all’ultimo anno del secondo mandato di presidente, e in questi anni, complice anche la crisi economica che ha colpito la Crusca, abbiamo ricevuto aiuti esterni: in particolare, abbiamo avuto il sostegno dalle Coop toscane, che, in cambio, hanno voluto che la Crusca andasse in luoghi dove l’Accademia non era mai stata, per esempio nei supermercati. Questo ha significato un contatto con persone che spesso non avevano idea di cosa facesse l’Accademia. Ecco il contatto con un nuovo pubblico. Un altro passaggio importante sono stati i quattordici libretti che, grazie al quotidiano “la Repubblica”, abbiamo distribuito ogni venerdì, e poi, l’anno successivo, abbiamo distribuito con tutti i giornali del gruppo GEDI. Anche in questo caso abbiamo raggiunto un pubblico nuovo. I social sono dunque un tentativo di proseguire questa politica di allargamento del nostro pubblico, rivolgendosi anche ai giovani. Devo dire che, mentre ho avuto grande soddisfazione nell’incontro col pubblico vero e concreto delle Coop o dei libretti di “Repubblica”, non mi sembra di aver tratto un gran che da Facebook e da Twitter; ma forse è solo una mia preconcetta diffidenza. Forse siamo presenti con risultati migliori nei i filmati su Youtube, anche se non raggiungiamo alte visualizzazioni.
Recentemente è stato dato alle stampe un testo di Ernest Renan storico e filologo del XIX secolo dal titolo che cos’è una nazione, nel quale tra le altre cose si legge che la lingua non è un elemento decisivo per definirsi Nazione. La Svizzera è sicuramente una Nazione anche se al suo interno vi si parlano quattro lingue. Qual è la sua idea?
Non è un caso che le reazioni più stupefatte alla politica folle di coloro che vogliono abolire l’italiano o che cedono totalmente ai forestierismi vengano proprio dagli svizzeri. È evidente che una nazione può trovare una ragione della propria identità in cose diverse dalla lingua, ma bisogna capire di che nazione si sta parlando. La Svizzera si identifica nei valori della pluralità e del plurilinguismo, in un rapporto tra lingue regolato dalla Costituzione, dalla legge suprema, per conseguire un equilibrio tra le quattro lingue nazionali e le tre lingue ufficiali (italiano, tedesco e francese). Nella Costituzione Italiana non abbiamo avuto nemmeno la volontà di definire la lingua ufficiale dell’Italia. Abbiamo bensì una legge del 1999, una legge che si occupa di minoranze linguistiche, e che dichiara l’italiano “lingua ufficiale”; ma non si tratta di una legge costituzionale, ma di legge ordinaria. Se domani dovessimo proporre l’idea di definire l’italiano “lingua nazionale”, come è in Svizzera, scommetto che si scatenerebbe il terrore, si parlerebbe di fascismo e di sovranismo linguistico. Invece l’italiano è lingua “nazionale” in Svizzera, anche nei cantoni in cui si parla francese o tedesco!
Perché gli italiani non amano la loro lingua
e la disprezzano?
C’è una ragione storica. L’italiano, sin dalle origini, da Dante fino all’unità d’Italia, è servito a una piccola élite che produceva letteratura, che si dilettava nelle corti, splendidamente, ed era modello per le classi elevate di tutta l’Europa. Il popolo usava il dialetto. L’italiano è diventato una lingua di popolo e di burocrazia dal 1861. Centocinquant’anni sono una storia di gran lunga inferiore rispetto alla monarchia spagnola o francese. La prima grammatica spagnola è dedicata (fateci caso) a Isabella di Castiglia. Tale grammatica esce nel 1492, ed inizia affermando che “la lengua” è per sua natura “compañera del imperio”. Dunque la nazione spagnola si costruisce con la lingua, e la grammatica è diretta a una regina, e celebra la nazione politica. In Italia, la prima grammatica è del 1516; è stampata ad Ancona, ed è dedicata agli “amatori” della buona lingua. La grammatica di Pietro Bembo del 1525 è dedicata al papa. Poveri italiani! Non potevano dedicare una grammatica alla nazione o al re, perché non c’era! Quando la nazione è arrivata, purtroppo, in certi luoghi gli analfabeti raggiungevano vette dell’85%. Gli italofoni, al momento dell’unità, erano, secondo Tullio De Mauro, il 2,5%; secondo i calcoli più ottimistici di Arrigo Castellani, erano il 10%: un po’di più, dunque. Questo vuol dire, però, che, nel caso migliore, il 90% degli italiani parlava solo dialetto, mai italiano. In centocinquant’anni si è fatta dunque molta strada, ma l’unione salda tra un popolo (il nostro) e una nazione (la nostra) non c’è ancora. Infatti tale unione viene spesso messa in forse anche da nostalgie separatiste. Tutto ciò mostra come il rapporto tra la lingua e nazione sia difficile in Italia, la terra dei particolarismi, con il tasso di lettura tra i più bassi d’Europa. E con il tasso di comprensione della lingua più basso tra i paesi Ocse, come mostra l’inchiesta PIAAC Isfol 2013, che si legge in Rete (ne parlo nel mio volume L’italiano è meraviglioso, Rizzoli editore, 2018, pp. 128-30; ora il libro è anche nella collana bestBUR).
Quindi cosa dobbiamo fare? Forse pazientare?
…Pazientare, sperando. Una buona lingua, sul piano sociale, non solo per le élites colte e letterate, è anche il frutto di una buona nazione. La lingua è sempre un effetto. Certamente la lingua è stata una delle ragioni dell’Unità d’Italia, perché l’italiano è servito come riferimento nazionale ben prima dell’unità politica. Già Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva coniato l’idea di ‘Italia linguistica’, ma da qui a trasferirla nel sangue dell’intera nazione il passo è stato assai lungo, e forse non è completo nemmeno oggi. Subito l’unità d’Italia, nel 1868, il grande letterato napoletano Luigi Settembrini rispondeva così a una domanda simile a quella che Lei mi ha posto. Settembrini parlava ai suoi studenti dell’università di Napoli, che volevano sapere come si potesse avere una buona lingua: “se volete una buona lingua, dovete prima fare una buona Italia”.
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