Ne hanno presentato a metà maggio i risultati Esmeralda Rizzi, dell’area Politiche di genere della Cgil, e Simona Marchi, della Fondazione, precisando come non si sia trattato “dell’analisi di un campione scientificamente definito, ma di una prima raccolta ed elaborazione dati realizzata da osservatori non datoriali”.
Chi ha risposto al questionario (65% donne e 35% uomini) ha un’età compresa: al 7% < ai 35 anni, al 64% tra i 35 e i 54 anni, al 29% tra i 55 e i 64 anni. Le risposte provengono ripartite equamente tra Nord ovest, Nord est, Centro, Sud e isole da un 45 % con laurea, un 52% con diploma e un 3% con licenza media.
Nel 94% si tratta di lavoratrici/lavoratori dipendenti (66% del settore privato e 34% del pubblico) a tempo indeterminato, dei quali il 73% impiegati, il 20% quadri, il 2% dirigente.
L’82% ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza, il 31,5% avrebbe desiderato farlo anche prima.
Nel 37% dei casi è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro, nel 36% in modo unilaterale dal datore di lavoro e nel 27% in modo negoziato. Data la situazione non c’è sempre stato tempo per una preparazione esaustiva, ma le competenze erano già presenti a circa il 70% per gli aspetti tecnologici, meno per le relazioni e la comunicazione con colleghi e responsabili. Solo il 31% ha in casa una stanza dedicata e il 19 ha praticato “nomadismo” casalingo.
Diffuso il possesso del PC fornito dall’azienda o personale o in condivisione con altri in famiglia (soprattutto per le donne). Meno diffusi tablet e stampanti.
Ribadendo che la situazione di emergenza, nella maggior parte dei casi, ha comportato il mero trasferimento a casa dell’attività svolta ufficio (nel 45% dei casi il lavoro è percepito come non cambiato, nel 32% cambiato parzialmente e cambiato solo nel 23%), la nuova modalità è risultata più stimolante per gli uomini, meno per le donne (difficoltà nel distinguere tra tempi di vita e di lavoro). Quasi unanime la valutazione positiva sul risparmio di tempo nel pendolarismo casa – lavoro: il 94 per cento risponde di avere beneficiato di questo tempo liberato.
Complessivamente il 60% degli intervistati vorrebbe proseguire l’esperienza anche dopo l’emergenza, il 22% no, il resto è indeciso, ma è altrettanto unanime la convinzione che lo Smart Working consenta maggiore flessibilità nel lavoro, renda efficace il lavoro per obiettivi, permetta il bilanciamento del tempo di lavoro, di cura e libero e di stare al passo con i cambiamenti in atto.
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