Quando si pensa agli archivi delle pubbliche amministrazioni, spesso, la prima immagine che viene in mente sono file e file di scaffali contenenti un numero impreciso di faldoni e documenti. Attualmente, infatti, gli archivi sono strutturati secondo un modello nato in epoca analogica, ma che, oggi, deve affrontare la digitalizzazione. Tutto ciò garantendo il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, a cominciare dalla protezione dei dati personali.
Sono diverse le sperimentazioni che alcune amministrazioni o enti pubblici stanno mettendo in atto. Per esempio, l’Ospedale Cardarelli di Napoli ha intrapreso un progetto pilota di dematerializzazione massiva di 20mila cartelle. Un numero importante che, tuttavia, costituisce solo 0,4% del totale delle cartelle dematerializzabili. La dematerializzazione massiva in teoria, infatti, dovrebbe riguardare solo il materiale documentario non già formato digitalmente e non già confluito sul fascicolo sanitario elettronico. Un secondo caso degno di menzione è quello del Comune di Chieri che ha dematerializzato l’archivio edilizio collegandolo ai sistemi GIS e al Piano regolatore.
Due esempi che fanno emergere altrettante questioni importanti riguardo la digitalizzazione degli archivi della Pa. La prima è che la dematerializzazione massiva comporta il trattamento di volumi monumentali di documenti, con i relativi costi che potrebbero decrescere per via delle economie di scala. La seconda questione è che nessuno ha ancora scartato i documenti analogici: i documenti produttivi di effetti rimangono quelli originali cartacei perché nessuna Soprintendenza Archivistica darebbe l’assenso alla selezione-scarto sulla base di Linee guida appena pubblicate ma su cui non abbia ancora certificato il processo.
Ad ogni modo, questi processi sarebbero più efficienti se gli archivi delle Pa fossero interconnessi e interoperabili. Negli anni si sono succeduti molti tentativi in questo senso, compreso una modifica importante del Cad (Codice dell’amministrazione digitale) per creare un archivio degli archivi documentali. Una proposta però inattuabile, successivamente sostituita dal progetto DAF, Data Analytics Framework, a sua volta incarnato nell’attuale PDND, Piattaforma Digitale Nazionale Dati.
In questo quadro l’intelligenza artificiale può avere un ruolo importante, soprattutto in due tipi di attività: la redazione di documenti e la valorizzazione dei dati. L’attività amministrativa degli enti pubblici si basa, infatti, spesso sulla redazione di documenti standardizzati. Pur preceduto da attività istruttorie di complessità molto variabile, il prodotto è, dunque, costituito spesso da documenti molto simili tra di loro con parti addirittura sovrapponibili. Proprio per questo l’intelligenza artificiale generativa potrebbero intervenire efficacemente in questo processo, come riconosciuto anche dal Piano Triennale. Per quanto riguarda la valorizzazione dei dati bisogna considerare che le Pa hanno un patrimonio informativo enorme. Se non si trovano in archivi strutturati, questi dati sono sparsi su ambienti e piattaforme diverse, non collegati o di difficile accesso. Così molti enti pubblici hanno intrapreso esperimenti di machine learning per il reperimento delle informazioni e per il loro arricchimento e valorizzazione.
Inoltre, entro quest’anno, l’Agid emetterà le linee guida per selezionare i progetti replicabili di utilizzo dell’intelligenza artificiale nei tre aspetti dell’adozione, del procurement e dello sviluppo di applicazioni di intelligenza artificiale. Si tratta di 150 progetti potenzialmente replicabili l’anno prossimo e ben 400 l’anno successivo. Nell’attesa, diversi enti pubblici, sull’onda del grande interesse per l’intelligenza artificiale, si stanno muovendo con progetti autonomi, che mirano in larga maggioranza più alla redazione e alla gestione dei documenti strutturati che alla valorizzazione e all’arricchimento dei dati.
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