Un’attenta lettura dell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile nelle sue linee ambientali, economiche, sociali e istituzionali, solleva un insieme di questioni fortemente connesse al concetto di “governo del territorio” e ben più ampie rispetto alla tradizionale pianificazione urbanistico-territoriale a base spaziale. D’altra parte, il governo del territorio, per come è definito nel DLGS n. 112 del 1998 e poi delineato nell’art. 117 della Costituzione approvato nel 2001, ed ancor più nelle interpretazioni ad esso date da molte leggi regionali in assenza di un testo legislativo statale concernente i principi fondamentali, presenta molti elementi essenziali per giungere a disegnare le politiche di sviluppo improntate alla sostenibilità, tra i quali: la concezione multilivello; il superamento dei settorialismi e la pratica consapevole delle interdipendenze; la sussidiarietà verticale ed orizzontale; la prevalenza degli interessi generali e collettivi; la tutela dei valori ambientali e storico-culturali; la centralità della conoscenza e della valutazione; la partecipazione consapevole e collettiva alle deliberazioni; l’approccio strategico e l’effettività della deliberazione comune.
Inoltre, il governo del territorio rappresenta l’insieme dei principali poteri effettivi su cui gli enti territoriali possono far conto per orientare e programmare lo sviluppo. Per questo nei Rapporti ASviS sui Territori del 2021 e 2022 il varo di una legislazione statale che fissi i principi fondamentali del governo del territorio è stato assunto come secondo punto del Decalogo delle proposte dell’Alleanza. Occorre però rilevare che, a un quarto di secolo dal DLGS n. 112 del 1998, l’ultima legislatura (la XVIII) si è conclusa per l’ennesima volta senza che alcun provvedimento in merito sia stato approvato, nonostante sul piano dei principi la «tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi» sia entrata in Costituzione con i rinnovati artt. 9 e 41.
La progressiva erosione della specificità e dell’autonomia delle scelte spaziali rispetto al complesso delle questioni economico-sociali e la sempre più ridotta prevedibilità dello sviluppo dei fenomeni a partire da eventi pregressi, insieme alla cronica lunghezza delle procedure di pianificazione, stanno riducendo la capacità di previsione che tradizionalmente dà sostanza alla pianificazione, producendo la migrazione verso approcci di tipo strategico, capaci di incorporare gradi di incertezza, nei quali le analisi di base servono a costruire scenari su cui calibrare azioni orientate al raggiungimento di obiettivi. D’altra parte, le politiche di coesione e di sviluppo sostenibile, sulla base dell’esperienza maturata soprattutto nel campo ambientale, praticano già approcci strategici e l’approvazione del Regolamento generale FESR 2021-2027 e lo svolgimento dei tavoli partenariali preliminari hanno ampiamente confermato tale indirizzo.
Il nuovo ciclo di politiche urbane e territoriali che prende avvio in questi mesi muove dalle Strategie di sviluppo sostenibile di livello nazionale e regionale e si articola nei Piani operativi (PO) nazionali e nei Documenti di economia e finanza regionali (DEFR), e produrrà unaulteriore accelerazione in tal senso. Ma vi è il forte rischio che gli effetti risultino molto differenziati fra le Regioni che con la loro legislazione sul governo del territorio hanno già recepito e messo a regime la componente strategica con la regolazione spaziale e le Regioni nelle quali l’approccio strategico viene declinato in modo derogatorio, allontanando ancor più la pianificazione spaziale dalla programmazione. La mancanza di un quadro organico di coerenza nazionale per il governo del territorio rischia così di intrecciarsi negativamente con le necessarie e cogenti accelerazioni operative di questa fase, aggiungendo a storici divari territoriali e sociali ulteriori divaricazioni e fratture nelle culture di governo, allontanando così le prospettive di una pratica coerente e concreta per lo sviluppo sostenibile.
La mancata attuazione del dettato costituzionale circa i principi fondamentali del governo del territorio, che spettano al legislatore statale, produce anche altri effetti nefasti. Una legislazione frammentaria e incoerente ostacola gravemente la necessità di assumere la difesa del territorio dai rischi, soprattutto quelli idrogeologici e sismici, come una grande priorità nazionale. La recente grave alluvione in Romagna, che si somma agli eventi del 2022 nelle Marche e a Ischia, ha fatto suonare di nuovo il campanello d’allarme in modo molto forte. Manca inoltre la cornice unitaria nella quale collocare gli altri temi fondamentali della rigenerazione urbana, del consumo di suolo e della perequazione urbanistica, dai quali dipendono in larga misura anche le politiche abitative.
Per affrontare questo problema, il Rapporto ASviS 2022 ha ripreso la proposta delle principali associazioni che si occupano di urbanistica (Inu, Siu, Assurb, Urban@it, Censu, Aidu, Associazione urbanistica per l’Ingegneria) di istituire una sede di confronto promossa congiuntamente dalle Commissioni territorio di Camera (VIII) e Senato (8°) e composta da rappresentanti dei gruppi parlamentari, della Conferenza delle Regioni, dell’ANCI e dell’UPI e degli stakeholder con il compito di presentare entro 6 mesi una risoluzione contenente il «nucleo essenziale» delle questioni che necessitano di un aggiornamento normativo, indicando anche lo strumento (ddl, legge delega, DPCM, ecc.).
Con delibera del 23 marzo 2023, la Camera ha deciso di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta monocamerale sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. Si tratta di un’occasione importante per riportare all’attenzione nazionale le questioni del disagio sociale, dell’assetto edilizio e urbanistico e delle politiche per l’abitare nelle nostre città. L’istituzione della Commissione è anche l’occasione per fare il punto sullo stato di attuazione delle proposte contenute nella relazione conclusiva della precedente Commissione sulle periferie della Camera approvata a larga maggioranza il 14 dicembre 2017 al termine della XVII Legislatura, Commissione che aveva la medesima denominazione di quella attuale ed era stata istituita con delibera del 27 luglio 2016.
Delle otto proposte principali, nessuna è stata attuata completamente, quattro sono state attuate parzialmente (colore giallo) e quattro non sono state attuate (colore rosso). Lo scopo del presente Position paper è inquadrare i temi del governo del territorio, della rigenerazione urbana e delle politiche abitative nell’ambito dell’Agenda ONU 2030 e avanzare proposte conseguenti.
Nella storia della Repubblica, considerando i diversi programmi attualmente in corso nel loro insieme, non vi sono mai state così tante risorse dedicate ad obiettivi di rigenerazione urbana. Il Programma straordinario per le periferie del 2015 è ancora in corso di attuazione. I programmi di intervento per lo Sviluppo urbano sostenibile (SUS) delle politiche di coesione 2014-2020 e 2021-2027, il Programma innovativo per la qualità dell’abitare (PINQUA) e gli altri programmi finanziati dal PNRR (Progetti volti a ridurre le situazioni di emarginazione e degrado sociale e Piani urbani integrati per le Città metropolitane) si sono rivelati le principali risorse per l’attivazione di politiche d’intervento nei contesti urbani.
In particolare, il PINQUA e i Piani urbani integrati hanno dotato le Città metropolitane, le città medie e i comuni minori – questi ultimi in modo più limitato – di una operatività mai conosciuta in precedenza, sia per volume di risorse che per molteplicità di temi (anche se spesso generici e approssimativamente definiti), unita ad una reale possibilità d’integrazione. A tali risorse si aggiungono quelle ancor più abbondanti dedicate all’efficientamento energetico (Superbonus) ed alla messa in sicurezza del patrimonio edilizio, che si stanno sviluppando senza alcun quadro di coerenza spaziale, favorendo la riqualificazione del patrimonio immobiliare di proprietà delle classi più abbienti – meglio attrezzate dal punto di vista tecnico e finanziario – a discapito delle aree sociali del disagio. Sebbene gli esiti non siano ancora tutti noti – e già sappiamo in vari casi non positivi – non c’è dubbio che tali nuove condizioni, che rendono conto della forte dilatazione che gli interventi di rigenerazione hanno assunto in anni recenti, meritino di esser rese permanenti anziché episodiche e incerte, entro uno schema di programmazione nazionale quale quello immaginato con la costituzione del Comitato interministeriale per le politiche urbane (CIPU) e della sua Agenda urbana nazionale quale attuazione della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile (SNSvS), come pure chiede la Urban Agenda for the EU. Inoltre, occorre costituire una Cabina di regia interministeriale per il coordinamento dei programmi di rigenerazione urbana e di intervento nelle città, sperimentata tentativamente solo alla metà degli anni Novanta del secolo scorso.
Ma non bastano la certezza di risorse e la definizione di chiari obiettivi nazionali per le aree urbane. È anche indispensabile una fuoriuscita dall’attuale condizione conflittuale fra agende, piani e programmi con un intervento legislativo che, fissando i principi di governo del territorio, costruisca il rapporto organico fra pianificazione e programmazione – la quale ne costituisce una componente primaria e determinante – in cui inserire organicamente gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Si tratta di un nodo già affrontato da alcune leggi regionali per il governo del territorio, ma che solo con un intervento quadro di livello nazionale che ne fissi i principi può consentire di raggiungere obiettivi di qualità ed efficienza che le attuali tentate politiche urbane faticano a perseguire e di cui città e territori italiani hanno tanto bisogno. Un tale orientamento, che leghi gli obiettivi nazionali all’indirizzamento dei flussi di risorse, consentirebbe anche, senza dirigismo centralista e rispettando le autonomie istituzionali e territoriali, di perseguire concretamente ed in modo armonico alcuni fondamentali obiettivi nel governo del territorio, superando i tanti, e spesso poco comprensibili, conflitti fra livelli e settori.
All’inizio della legislatura è stato ripresentato al Senato il ddl Misure per la rigenerazione urbana (A.S. 29) ma l’iter legislativo non è ancora iniziato.
Si tratta di un grave problema, che ormai ha quasi assunto rilievo emergenziale, poiché il suolo è la risorsa non rinnovabile per eccellenza e la sua sigillatura, oltre a ridurre e frammentare gli spazi e le capacità adattive degli ecosistemi, dilata la dispersione urbana rendendo sempre più energivori e soggetti a pericolose alterazioni microclimatiche i modelli insediativi, allontanando così il raggiungimento di gran parte dei principali obiettivi di sviluppo sostenibile. Inoltre, in contrasto con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile che prevedono l’allineamento del consumo di suolo alla crescita demografica reale entro il 2030, esso non è dovuto ad un aumento della popolazione, che al contrario tende a diminuire, bensì al progressivo abbandono e alla dismissione di aree precedentemente urbanizzate – e pertanto già impermeabilizzate irreparabilmente – a favore di nuove aree, sigillando nuovo suolo libero, con conseguente ulteriore impoverimento dei relativi ecosistemi.
L’Unione europea ha allo studio sin dal 2002 una direttiva in merito ed ha fissato al 2050 il termine ultimo assegnato agli Stati per giungere ad un consumo netto di suolo zero. L’Italia, con il Piano per la transizione ecologica (PTE) dell’8.3.2022, ha anticipato l’obiettivo al 2030, coerentemente con gli obiettivi della Agenda ONU 2030, aumentando così l’ambizione. Nonostante questo, il Parlamento italiano, pur avendo discusso varie proposte di legge sul tema nelle commissioni Ambiente e Agricoltura nelle ultime tre legislature, non è giunto ancora ad alcun risultato concreto.
Dal canto loro quasi tutte le Regioni hanno adottato la tutela del suolo, del territorio e del paesaggio extraurbano come principio, e varie Regioni hanno legislazioni che impongono limiti e prescrizioni, anche all’interno del territorio già urbanizzato. Tuttavia, l’azione regionale si sta sviluppando senza criteri unitari di valutazione e contabilizzazione degli usi del suolo, con orientamenti contraddittori e con il progressivo allontanamento della possibilità di giungere ad un Registro unico nazionale dell’utilizzo, del depauperamento e del degrado del suolo.
Dal punto di vista operativo la necessaria introduzione di criteri e parametri unitari nella valutazione degli usi del suolo e della produzione di servizi ecosistemici, e la fissazione dei relativi obiettivi progressivi, vanno concordati in sede di Conferenza Unificata, e possono essere praticati all’interno delle attività di Valutazione ambientale strategica (VAS), che sono obbligatorie nella redazione di tutti i piani e programmi che producono effetti ambientalmente significativi. Ciò consentirebbe, fra l’altro, di superare i problemi che si incontrano nella costruzione delle caratterizzazioni ambientali locali per valutare la produzione e/o la perdita di servizi ecosistemici e nelle sperimentazioni di Registri locali degli usi del suolo, prodotti da interventi di diversi enti e soggetti di livelli differenziati (es. ANAS, FS, gestori dei servizi idrici, Terna, enti portuali ed aeroportuali, ecc.), non tenuti al rispetto delle previsioni della pianificazione locale, ma comunque soggetti a VAS.
Infine, non c’è alcun dubbio che nella situazione attuale in cui il consumo di suolo tende di nuovo ad aumentare anziché diminuire, l’incremento degli oneri di urbanizzazione e dei contributi calcolati sul costo di costruzione per gli interventi su suolo libero, in modo da penalizzarli in modo significativo rispetto a quelli su suolo già compromesso, sarebbe di grande importanza ed efficacia.
Sostenibilità abitativa e mercato delle locazioni Il Target 11.1 del Goal 11 dell’Agenda ONU 2030 recita: “Entro il 2030, garantire a tutti l’accesso ad un alloggio e a servizi di base adeguati, sicuri e convenienti e l’ammodernamento dei quartieri poveri” ed include le molteplici sfide che le città sono chiamate ad affrontare sia sotto il profilo socioeconomico che ambientale, come ad esempio i mutamenti demografici, la crisi economica e finanziaria, le nuove povertà e le disuguaglianze sociali. L’ISTAT ha definito tre indicatori riferiti alle abitazioni che non contemplano alcune importanti «privazioni domestiche» identificate dalle Nazione unite sulla base dell’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e del capitolo IV dell’Agenda Habitat II del 1996 Adequate shelter for all, come la disponibilità di alloggi a prezzi accessibili (Housing affordability) e la mancanza di sicurezza del possesso dell’alloggio (Legal security of tenure).
Soltanto l’indicatore sulla localizzazione dell’abitazione in un’area con problemi di rumore include un giudizio sulla qualità del contesto urbano. In coerenza con la definizione di «abitazione inadeguata» fornita dalle Nazioni unite dovrebbero essere valutate altre caratteristiche come le opportunità di accesso da parte degli abitanti ai luoghi di lavoro, ai servizi sanitari, alle scuole, agli asili nido e ad altri servizi fondamentali. In tal modo sarebbe possibile fornire una valutazione ex ante delle necessità e delle priorità di un dato contesto, ed un giudizio ex post sull’efficacia delle azioni messe in campo per garantire un alloggio e un ambiente di vita dignitoso anche alle persone più fragili.
Il disagio abitativo è un fenomeno all’attenzione dell’Unione europea. Nel Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017, il cui Piano di azione è stato adottato il 4 marzo 2021, sono ricompresi i temi dell’equità e dell’inclusione sociale utilizzando l’indicatore del tasso di sovraccarico dei costi abitativi. Anche il Parlamento europeo ha ribadito più volte l’obbligo dell’Unione e dei suoi Stati membri di garantire un accesso per tutti a un alloggio dignitoso ed economicamente accessibile, invitando la Commissione e gli Stati membri a investire, con approccio integrato, nell’edilizia abitativa sociale, pubblica, a prezzi accessibili ed efficiente dal punto di vista energetico, combattendo il fenomeno dei senza fissa dimora e garantendo sicurezza di occupazione e mercati immobiliari inclusivi. In Italia, a differenza di altri Paesi con sistemi di welfare più robusti, la politica della casa ha rappresentato un ambito minore dell’intervento pubblico che è passato, attraverso un disinvestimento nell’offerta di abitazioni sociali, a forme di contributo diretto alle famiglie in affitto come sostegno ai redditi, senza rappresentare una misura strutturale.
L’assenza di una politica per la casa nell’agenda nazionale ha comportato la mancanza di una programmazione degli investimenti e un approccio episodico e frammentato che si è tradotto in iniziative mai basate su un’analisi della domanda reale e della distribuzione territoriale dei fabbisogni che sono fortemente differenziati. Anche nel PNRR si agisce con misure non dirette e senza partire da un reale quadro delle esigenze, come ad esempio con il PINQUA che indica espressamente la volontà di incidere sull’abitare. Solo il programma Sicuro, verde e sociale del Piano nazionale complementare (PNC) del valore di 2 mld di euro è finalizzato ad interventi sul patrimonio di edilizia residenziale pubblica.
Il tema delle politiche abitative è centrato a livello nazionale sulla programmazione del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, attualmente titolare di programmi ancora vigenti destinati alle politiche abitative o che comunque contengono interventi per la casa nell’ambito della rigenerazione urbana, nonché dei fondi di sostegno ai redditi per le famiglie in affitto. Nella precedente legislatura il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (MIMS) ha istituito l’Osservatorio nazionale della condizione abitativa (OSCA) che era previsto dalla legge n. 431 del 1998 per approfondire le tematiche legate alla condizione abitativa sia nazionale che territoriale, in particolare quelle connesse con l’edilizia residenziale pubblica, per analizzare i fabbisogni e per proporre strategie volte ad orientare le politiche e monitorarne gli effetti.
Il fatto che questo strumento sia stato costituito solo ora, a venticinque anni dalla legge che lo ha previsto, è emblematico di come la questione abitativa stia iniziando ad essere percepita come un fenomeno della massima importanza. In anticipo rispetto al governo centrale, l’Emilia-Romagna, la Toscana e la Lombardia si sono dotate da tempo di Osservatori regionali con il compito di monitorare le condizioni sociodemografiche ed economiche riguardanti il disagio abitativo. L’auspicio è che le attività degli Osservatori si sviluppino in relazione ai diversi contesti locali a sostegno di politiche adeguate.
Nella fase che stiamo attraversando il tema della casa assume nuova centralità e deve essere profondamente ripensato con una evidente discontinuità rispetto al passato. Peraltro, la domanda abitativa si è fortemente modificata per i cambiamenti quantitativi e nella struttura della popolazione negli ultimi decenni, con il progressivo invecchiamento, l’aumento del numero dei nuclei familiari, la riduzione del numero dei componenti e l’incremento di nuove forme di convivenza, a cui si sono aggiunti i mutamenti di natura economica e del mondo del lavoro, che hanno accentuato forti squilibri nella distribuzione dei redditi e hanno inciso sulla struttura proprietaria con l’esclusione delle nuove generazioni. Essa è incrementata ulteriormente dall’accrescimento della popolazione residente nei grandi centri urbani negli ultimi decenni e dalla componente dovuta all’immigrazione. Non da ultimo, sta incidendo pesantemente anche il tema della mobilità legata ad esigenze di lavoro e studio che non trova un’offerta di abitazioni a costi sostenibili e sta generando un forte impedimento all’armonico sviluppo dei sistemi locali del lavoro e dell’impresa. Tale stato di cose incide anche sui percorsi formativi, laddove l’accesso allo studio è strettamente legato alla capacità di sostenere soprattutto i costi abitativi, considerando, in particolare, la scarsa dotazione di student housing, nettamente inferiore in Italia rispetto ad altri Paesi europei. Ciò è particolarmente evidente nelle città sedi di Università, come dimostra il recente “Movimento delle tende” degli studenti universitari che pone con forza il problema dei servizi abitativi per i fuori sede.
La casa deve essere considerata come infrastruttura sociale indispensabile, potenziando e progettando soluzioni in grado di intercettare, oltre alla domanda pregressa, le esigenze di categorie sociodemografiche per le quali il disagio abitativo è in crescita. Tali soluzioni devono essere inserite in più ampi processi di rigenerazione urbana, in particolar modo nelle aree metropolitane dove la tensione abitativa è più alta, ampliando l’attuale patrimonio di edilizia residenziale pubblica senza un ulteriore consumo di suolo ma agendo sul già costruito e sulle aree dismesse.
La precarietà abitativa è una componente importante della condizione di povertà che vede l’aumento delle disuguaglianze sociali. In base ai dati ISTAT, nel 2021 la povertà assoluta che riguardava 1,9 milioni di famiglie è rimasta stabile, delle quali il 45,3% viveva in affitto, confermando il massimo storico toccato nel 2020, mentre la povertà relativa con 2,9 famiglie sotto la soglia di reddito è salita, 300mila in più del 2020. Su questa condizione di precarietà pesano la ripresa generalizzata delle esecuzioni degli sfratti per morosità incolpevole, che sono stimati essere dai 130 mila ai 150 mila sulla base dei dati del ministero dell’Interno, le esecuzioni immobiliari sulla prima casa, la forte incidenza sui costi dell’abitazione dei rincari delle utenze domestiche e degli oneri condominiali per il consumo energetico (2,2 milioni le famiglie risultano in condizioni di povertà energetica, l’8,5% del totale delle famiglie italiane a fine del 2021, in base a dati IPSOS ed OIPE). Nella legge di Bilancio per il 2023 non sono stati rifinanziati né il Fondo di sostegno all’affitto previsto dall’art. 11 della legge 431 del 1998, per garantire alle famiglie più bisognose un sostegno nel pagamento dei canoni, né il Fondo per la morosità incolpevole. La legge di Bilancio ha anche modificato in senso restrittivo il reddito di cittadinanza, che prevede una quota aggiuntiva per il pagamento del canone di locazione, con verosimili ripercussioni sugli enti locali, privati di strumenti e risorse per far fronte all’emergenza abitativa e con un pericoloso aggravamento delle condizioni di emergenza.
In relazione all’offerta, l’Italia si distingue tra i Paesi europei più sviluppati per una delle più basse quote di edilizia pubblica, il 4% del patrimonio abitativo e un quinto del mercato dell’affitto, ma anche per una minore dimensione del patrimonio in affitto privato, pilastro dell’offerta in molti Paesi europei (Eurostat) e, più in generale, per una scarsa disponibilità di alloggi con costi commisurati ai redditi. L’esperienza del social housing ha marcato ulteriormente la rinuncia a politiche pubbliche incisive nel comparto abitativo, poiché emerge un vuoto sugli aspetti regolamentari e di definizione, con iniziative episodiche e senza fornire risposta a quote di domanda abitative che sono state valutate e dimensionate in precedenza.
Si discosta in parte da questa logica il Fondo investimenti per l’abitare (FIA) istituito dalla società di gestione del risparmio Cassa depositi e prestiti SGR (Società di gestione del risparmio), selezionato nel 2009 dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti per gestire un sistema integrato di fondi, nazionale e locale. Il social housing, tuttavia, è una misura che nasce per rispondere alla domanda abitativa della cosiddetta «fascia grigia», ovvero quella quota della popolazione che non può accedere all’edilizia pubblica ma che comunque fatica a trovare una risposta sostenibile nel mercato privato. Nella pratica questa misura finora è stata capace di intercettare solo la parte più agiata di questo target a causa della differenza considerevole esistente tra la soglia ISEE per fare richiesta di un alloggio di edilizia pubblica e la soglia minima per poter accedere al canone moderato dei progetti di social housing.
Il problema dell’accesso all’alloggio a costi sostenibili è più marcato nei grandi centri urbani e soprattutto nelle città metropolitane, dove si concentra in prevalenza la tensione abitativa. In Europa, nel 2018, una famiglia media in affitto ha speso circa il 25% del proprio reddito per il canone, una famiglia composta da giovani quasi un terzo, una famiglia nell’ultimo quintile di reddito il 40%, soglia considerata critica nel rapporto affitto/reddito (EU SILC). Nel periodo dal 2010 al terzo trimestre 2021, gli affitti sono aumentati del 16%, i prezzi delle case del 39%. In Italia, nonostante il dato in controtendenza relativo ai prezzi delle case che sono diminuiti, gli affitti sono comunque aumentati, anche se meno della media europea (Eurostat).
Le politiche abitative sono legate a temi economici e di programmazione che, nel medio e lungo periodo, dovrebbero tendere a migliorare le opportunità di reddito e di lavoro soprattutto per giovani e famiglie a basso reddito. Nel breve periodo, tuttavia, vi è la necessità di affrontare alcuni nodi che condizionano negativamente il settore. Invertire l’attuale tendenza all’aggravamento del problema abitativo richiede una politica che agisca sia a livello centrale che locale, ed individuare alternative articolate in un quadro più ampio di politiche urbane.
In primo luogo, si tratta di sostenere la domanda, attraverso stanziamenti costanti ai fondi di sostegno per l’affitto, contribuendo ad abbassare l’incidenza dei canoni sui redditi delle famiglie in difficoltà. In secondo luogo, occorre adottare misure fiscali in grado di calmierare il mercato privato degli affitti attraverso una riduzione dei canoni. Infine, è necessario incrementare l’offerta abitativa in affitto, con canoni commisurati ai redditi delle famiglie, articolando gli interventi. In questo modo è possibile fornire una reale e concreta risposta sociale.
In prospettiva, è necessario che l’Edilizia residenziale sociale (ERS), di cui quella pubblica è una componente essenziale, superi il carattere avuto fino ad ora di edilizia di scarsa qualità per fasce particolarmente disagiate, per rispondere al duplice obiettivo di soddisfare la domanda più debole e regolare il mercato. In questa direzione è necessario considerare il servizio abitativo, destinato a cittadini che si trovano in una situazione di disagio economico, all’interno dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) per assicurare eguali diritti sull’intero territorio nazionale. Il processo di regionalizzazione delle politiche abitative, particolarmente evidente nel campo dell’ERP, ha infatti portato ad accentuare le differenze territoriali preesistenti.
Il progressivo arretramento dello spazio pubblico va colmato attraverso una programmazione di finanziamenti diretti al settore su scala pluriennale, un controllo delle iniziative private con caratteristiche sociali e un governo degli interventi in processi rigenerativi da orientare nei profili urbanistici e come soddisfacimento alla domanda. Poiché non è più immaginabile un welfare abitativo di matrice esclusivamente pubblica – fermo restando la necessità di portare la spesa sociale per la casa in Italia al livello medio europeo – un ruolo importante può essere svolto, come avviene da decenni in molti Paesi europei, dall’edilizia sociale a costi sostenibili che integra l’edilizia pubblica e che deve trovare il suo spazio nella collaborazione fra soggetti diversi a carattere istituzionale, imprenditoriale, associativo e cooperativo.
Per conseguire questo obiettivo occorre attivare sinergie con il mondo della cooperazione e promuovere partenariati pubblico-privati che consentano la coprogettazione e la co-programmazione, nelle quali i partner sociali garantiscano le funzioni che lo Stato e gli enti locali devono soddisfare nei confronti della casa intesa come bene comune e di welfare. Si tratta di iniziare a pensare in termini di costruzione sociale della domanda, avendo la capacità di intercettare segnali trasformativi e immaginare soluzioni attraverso una collaborazione attiva con coloro che saranno i fruitori di questa nuova idea di abitare. Occorre che vi siano soggetti che svolgono un ruolo di intermediazione evoluta, in grado di far dialogare domanda di soggetti deboli e offerta, in modo da disegnare nuovi contesti abitativi che non siano statici, ma modulabili e adattabili.
Il tema delle locazioni brevi merita un’attenzione particolare. Favorito dalle piattaforme digitali, in molte realtà questo fenomeno sta deformando il mercato con un impatto rilevante su quello delle locazioni a lungo termine, ponendo la questione della necessità di regolamentare la diffusione delle locazioni brevi e di ridisegnare il rapporto tra la vocazione residenziale e l’economia turistica delle città. Durante la stagione estiva 2022, in Italia sono state prenotate oltre 38 milioni di notti attraverso le maggiori piattaforme online, con un aumento del 6,7% rispetto al 2019. È il terzo dato più alto nell’Unione europea dopo quelli di Francia e Spagna.
Il fenomeno riguarda in primo luogo i centri urbani e non solo quelli a vocazione turistica, e oggi rappresenta quasi un terzo dell’offerta totale di alloggi turistici nell’Unione europea. La notevole crescita dei flussi del turismo e delle attività economiche a esso collegate, la concentrazione di attività di impresa a livello multinazionale in aree che sono diventate poli attrattivi per l’economia e gli affari, rendono urgenti interventi normativi finalizzati a consentire rapidi adeguamenti nelle politiche del lavoro, abitative, fiscali e urbanistiche per salvaguardare l’equilibrio socioeconomico delle città e la loro relazione con il territorio circostante.
La materia finora più trattata è stato il regime fiscale, e agli impatti urbani di questo mercato digitale non è ancora riconosciuta la dovuta centralità nelle norme statali e regionali. Oggi i Comuni non dispongono di strumenti diretti per normare le locazioni turistiche e si limitano a interventi indiretti, cercando di disincentivare la eccessiva diffusione di questa forma di ospitalità.
Il settore delle locazioni brevi è stato regolamentato dalla legge n. 96 del 2017, che prevede la possibilità di applicare la cedolare secca al 21% ai redditi da locazione breve. In generale, sia pure con l’intento di far emergere il nero, la misura ha aperto la strada ad una incentivazione di questo tipo di utilizzo degli alloggi con una restrizione del ricorso a contratti di durata più lunga. La legge n. 178 del 2020 prevede che se il proprietario affitta più di 4 appartamenti, si configura attività d’impresa. La scelta di limitare la classificazione al solo dato quantitativo rinuncia di fatto a consentire ai Comuni e alle Regioni di introdurre regole e autorizzazioni finalizzate ad una reale limitazione di questo uso degli immobili. La stessa legge ha previsto l’istituzione di una banca dati delle strutture ricettive, nonché degli immobili destinati alle locazioni brevi, presso il ministero della Cultura identificati mediante un codice da utilizzare in ogni comunicazione inerente all’offerta dei servizi.
Infine, la legge n. 91 del 2022 all’art. 37-bis consente al Comune di Venezia – Bologna e Firenze avevano chiesto di essere comprese nella legge ma sono state escluse – di limitare gli affitti brevi offerti ai turisti da piattaforme online. Viene data la possibilità al Comune di approvare un regolamento contenente gli obiettivi generali e i dettagli dei singoli vincoli, le limitazioni anche per diversi periodi dell’anno e per diverse zone della città nel rispetto, comunque, dei principi di proporzionalità, di trasparenza, di non discriminazione e di rotazione, tenendo conto della funzione di integrazione del reddito esercitata dalle locazioni brevi. È previsto che una durata superiore a centoventi giorni dell’attività in ciascun anno, anche non consecutivi, sia subordinato al mutamento della destinazione d’uso e della categoria funzionale dell’immobile(24).
È evidente come alcune tendenze dell’economia e della società contemporanee stanno fortemente modificando il rapporto tradizionale tra popolazione urbana e spazio. La presenza crescente di popolazione presente ma non residente, oltre a modificare assetti ed utilizzi e a produrre forti criticità in alcuni servizi pubblici generali (es. sanità, mobilità, sicurezza), ha creato un mercato parallelo legato ad utilizzi temporanei, che essendo più remunerativo orienta la proprietà immobiliare verso l’affitto breve. Si creano forti criticità soprattutto nelle aree metropolitane forti e rapidamente accessibili e aumenta la distanza fra proprietà della casa e giovani generazioni.
È evidente come sia necessaria una normativa di regolamentazione di settore, collegandolo con i temi più generali di politica abitativa e di salvaguardia del tessuto urbano, soprattutto nei centri storici a più alta vocazione turistica, in linea con la sentenza della Corte di Giustizia europea n. 111 del 22 settembre 2020, la quale ha stabilito che i Comuni possono imporre regole alle locazioni turistiche con l’obiettivo di consolidare e incrementare la funzione residenziale. Le proposte devono riguardare il ruolo delle piattaforme, che è sottostimato soprattutto per i suoi effetti di concentrazione della rendita, il tema delle trasformazioni d’uso legate alle strutture turistiche ricettive, le forme della regolazione. Queste ultime non possono riguardare solo la fiscalità, ma devono avere una declinazione spaziale e urbanistica, per il loro legame con le destinazioni d’uso del patrimonio immobiliare e dello spazio urbano.
L’obiettivo, nel bilanciare le esigenze delle comunità locali, degli imprenditori e dei city users legati agli affitti a breve termine, deve essere quello di tutelare e favorire la residenzialità, regolamentando il settore, tutelare le attività tradizionali, investire sulla qualità urbana come forma di tutela dei centri storici, dei nuclei e dei complessi edilizi. Va quindi data facoltà ai Comuni di prevedere forme regolamentate delle locazioni brevi e criteri di autorizzazione, eventualmente differenziati per zone, anche con l’integrazione degli strumenti urbanistici, prevedendo presupposti e limiti. Questi possono essere connessi alle temporalità consentite, alla finalità di integrazione del reddito del soggetto che concede in locazione l’immobile con questa modalità, alla limitazione ad un solo immobile. Ulteriori indicazioni possono riguardare i principi per la definizione del numero massimo di locazioni, il rapporto di pressione turistica, il numero di immobili che possono essere offerti in locazione e l’individuazione temporale di locazione consentita al di fuori dei regimi autorizzativi.
La rete “Alta tensione abitativa” ha presentato una proposta di legge, largamente condivisa dagli assessori alla casa delle principali città italiane, i quali il 6 aprile 2023 a Bologna hanno sottoscritto insieme ad ANCI un Manifesto in cinque punti, richiedendo: una legge quadro sull’edilizia pubblica e sociale; la restituzione gratuita ai Comuni degli immobili statali inutilizzati per utilizzo abitativo; il rifinanziamento dei fondi Locazione e Morosi incolpevoli; una legge di regolamentazione per governare gli impatti degli affitti brevi turistici; una misura nazionale che riconosca strutturalmente l’emergenza abitativa come una fragilità a cui dedicare interventi e risorse.
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