Curare una malattia agendo direttamente sulle sue basi genetiche, avviando un percorso di cure personalizzato a seconda delle condizioni del singolo paziente e aprendo nuove prospettive per le persone affette da malattie rare per le quali non esistono trattamenti efficaci. É quanto consente la terapia genica, un approccio innovativo che mira a trattare la causa sottostante di una malattia piuttosto che i sintomi. Un nuovo tipo di cura sempre più utilizzato in svariati ambiti della medicina e il cui mercato si prevede raggiungerà, insieme a quello della terapia cellulare, i 42,56 miliardi di dollari entro il 2030. Per terapia genica si intende l’introduzione di uno o più geni esogeni, cioè con origine esterna rispetto all’organismo considerato, in uno o più tipi di cellule autologhe (provenienti dal corpo stesso del paziente) o allogeniche (ottenute da un donatore). Il nuovo gene si definisce transgene. Questo tipo di terapia può essere utilizzato per trattare una vasta gamma di malattie genetiche e non genetiche, attraverso l’introduzione, rimozione o modifica di materiale genetico nelle cellule dei pazienti. Attualmente, questa terapia ha un uso clinico limitato ed è in fase di studio in diversi tipi di disturbi.
Come funziona la terapia genica
Cuore della terapia è l’introduzione di materiale genetico in una cellula vivente, un processo che prende il nome di trasfezione. La terapia genica può essere eseguita principalmente in vivo ed ex vivo. “Questi approcci differiscono nel modo in cui i geni terapeutici vengono introdotti nelle cellule del paziente” spiega ad Innovazione Pa Katia Mareschi, biologa cellulare e molecolare, Responsabile dell’Unità di Ricerca del Laboratorio Centro Trapianti Cellule Staminali e Terapia Cellulare presso il Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino. “La terapia ex vivo, viene solitamente chiamata anche terapia in vitro perché vengono prelevate dal paziente stesso cellule staminali o cellule del sistema immunitario. Queste vengono modificate geneticamente in un ambiente controllato. Le cellule modificate vengono coltivate e moltiplicate in laboratorio, per assicurarsi che un numero sufficiente di cellule porti il gene terapeutico, e poi re-infuse nel paziente. L’approccio ex vivo permette un controllo maggiore sulla modifica genetica e riduce il rischio di risposta immunitaria o trasformazione anomale di queste cellule, poiché le cellule per lo più autologhe possono essere accuratamente selezionate, controllate e espanse prima di essere reinfuse. Si tratta però di un processo più complesso e invasivo rispetto alla terapia in vivo, perché richiede strutture specializzate per la manipolazione delle cellule e può essere più costoso. La terapia ex vivo è comunemente usata per trattare i disturbi del sangue e del sistema immunitario. Ad esempio, inserendo geni correttivi nelle cellule staminali emopoietiche (le cellule che producono tutte le cellule del sangue) dopo l’infusione nel paziente tutte le cellule figlie che derivano dalla cellula staminale modificata geneticamente conterranno il gene corretto e potranno svolgere la loro funzione in modo efficace. Oppure per il trattamento di alcuni tipi di leucemia, le cellule del sistema immunitario specializzate a svolgere un’azione citotossica (i linfociti T) vengono modificate geneticamente per attaccare le cellule tumorali e poi reinfuse”.
“Nella terapia genica in vivo invece il materiale genetico viene direttamente introdotto nel corpo del paziente. Attraverso una somministrazione diretta il gene terapeutico viene inserito in un vettore, spesso un virus modificato, e questo vettore viene somministrato direttamente al paziente. Il vettore può essere iniettato nel flusso sanguigno o in un organo specifico. Il vettore trasporta il gene terapeutico alle cellule bersaglio, dove il gene viene rilasciato e integrato nel DNA delle cellule, iniziando così la produzione della proteina correttiva o terapeutica. La terapia in vivo è meno invasiva rispetto a quella ex vivo poiché non richiede la rimozione e la reinfusione delle cellule del paziente. È spesso utilizzata per trattare organi o tessuti specifici, come il fegato o i muscoli. Il principale ostacolo è il controllo preciso della distribuzione del vettore e l’efficacia nel raggiungere le cellule bersaglio. Inoltre, vi è il rischio di una risposta immunitaria contro il vettore virale”.
Affinché la terapia genica vada a buon fine è necessaria dunque la presenza di un vettore, che trasporti i geni terapeutici all’interno delle cellule destinatarie. Sono stati studiati diversi tipi di vettori e la maggior parte di essi deriva da virus opportunamente modificati, ma in certi casi è possibile utilizzare anche i plasmidi, ovvero piccoli filamenti circolari di Dna.
I principali tipi di vettori virali sono i Virus Adeno-Associati (AAV) i Lentivirus, i Retrovirus e gli Adenovirus. I vettori non virali sono i Plasmidi, i Liposomi, le Nanoparticelle, il Trasferimento fisico mediante Elettroporazione. La scelta del vettore dipende da vari fattori, tra cui il tipo di malattia (alcuni vettori sono più adatti per specifici tipi di tessuti o organi), la durata desiderata dell’espressione genica (i vettori virali possono offrire un’espressione a lungo termine mentre i vettori non virali tendono a offrire un’espressione più transitoria), le dimensioni del gene terapeutico (alcuni vettori, come i plasmidi e i lentivirus, possono trasportare geni più grandi rispetto ad altri), la sicurezza e il rischio (il profilo di sicurezza del vettore, compreso il rischio di mutagenesi inserzionale e la risposta immunitaria, è cruciale). Non vanno dimenticati gli aspetti legati alla produzione (i vettori utilizzati in ambito clinico devono essere prodotti in quantità sufficiente per la somministrazione. Dunque, a seconda dell’applicazione clinica e del numero di pazienti interessati, le esigenze di produzione possono influenzare la scelta del vettore), alla tipologia di cellule bersaglio (alcuni virus hanno un tropismo tessuto-specifico: tendono cioè ad accumularsi prevalentemente in un determinato tessuto e dunque in determinate cellule), al livello di espressione (termine con cui si intende il processo attraverso cui l’informazione contenuta in un gene viene convertita in una macromolecola funzionale, come una proteina. Alcuni geni richiedono un livello di espressione più elevato, altri meno: in questi casi, per una terapia efficace, è sufficiente il ripristino di una piccola quantità di funzione genica), all’immunogenicità (con questo termine si intende la capacità posseduta da una sostanza di indurre una risposta immunitaria. Il grado di immunogenicità del virus utilizzato per creare il vettore di terapia genica può influire, dunque, sulla risposta immunitaria dell’ospite, che a sua volta può portare a effetti collaterali e alla perdita di efficacia della terapia. Ad esempio, le infezioni da adenovirus sono comuni e, dunque, le risposte immunitarie specifiche per il virus possono limitare l’uso di alcuni vettori adenovirali. Esistono, comunque, diversi approcci potenziali per evitare, ridurre o superare l’immunogenicità) e ai vettori (i primi sono inseriti nel DNA genomico delle cellule ospiti e vengono replicati a ogni divisione cellulare, mentre i vettori non integranti possono essere persi gradualmente con le progressive divisioni cellulari. I vettori integranti comportano, dunque, alcuni rischi, associati al loro inserimento nel genoma. Nel caso di quelli non integranti, come i plasmidi, l’espressione del gene rimane transitoria, richiedendo ripetute somministrazioni). La ricerca continua a migliorare l’efficacia e la sicurezza di questi vettori per una gamma sempre più ampia di applicazioni cliniche.
Queste caratteristiche rendono bene l’idea della complessità di una terapia genica: è necessario, infatti, ponderarle tutte, e a seconda dei casi, individuare il tipo di terapia migliore. Per esempio, alcuni vettori virali possono essere inefficaci in alcuni individui a causa di una precedente immunità al virus utilizzato nella terapia, oppure possono indurre complicazioni dovute a una reazione infiammatoria alle proteine virali. Anche la genotossicità, ovvero l’introduzione di anomalie deleterie in altri geni, rappresenta una seria preoccupazione. Ad esempio, in 5 dei 20 bambini che hanno partecipato ai primi studi di terapia genica per le sindromi da immunodeficienza si sono sviluppati disordini linfoproliferativi, come la leucemia linfocitica acuta. Sono state fatte diverse ricerche sulla progettazione dei vettori, con l’obiettivo di evitare il più possibile effetti genotossici.
Applicazioni della terapia genica alle patologie a singolo gene
La terapia genica è un modo efficace per fornire un gene normalmente funzionante a un individuo che ha ereditato una o più varianti geniche patogene che interferiscono con la normale funzione del gene. In molti casi non è necessario ripristinare completamente il livello di espressione normale, ma è sufficiente raggiungere un determinato livello per migliorare notevolmente una malattia. Non è raro che venga utilizzato un transgene con una sequenza diversa rispetto ad un gene endogeno (proveniente cioè dall’organismo stesso): ciò, infatti, facilita il monitoraggio del livello di espressione del transgene.
Per i disturbi ematologici e le sindromi da immunodeficienza, che altrimenti andrebbero trattati con il trapianto di cellule ematopoietiche fornite da un donatore, la terapia genica può essere molto utile: infatti, utilizzando cellule staminali ematopoietiche autologhe modificate, permette la ricostituzione ematopoietica con cellule ematiche autologhe normalmente funzionanti. In questo modo si evitano anche i rischi connessi ad un trapianto di cellule provenienti da un altro individuo: criticità legate in primis alla tossicità della terapia (chemioterapia e radioterapia) e alla ricerca di un donatore perfettamente compatibile per evitare reazioni immunologiche importanti e rigetto.
Per altre patologie, come quelle oftalmologiche e dermatologiche, può essere possibile applicare la terapia genica localmente, direttamente nell’occhio o sulla pelle. I disturbi della retina, in particolare, sono buoni candidati per la terapia genica perché l’occhio è adatto all’iniezione intraoculare diretta ed è immunocompetente: può cioè accettare antigeni (cioè sostanze in grado di essere riconosciute dal sistema immunitario come estranee o potenzialmente pericolose) senza provocare una risposta immunitaria o infiammatoria, riducendo così la probabilità di reazioni avverse e/o di rigetto del vettore. Inoltre, è possibile trattare gli occhi in modo indipendente, consentendo di valutare l’efficacia in un occhio prima di trattare l’altro e riducendo così il potenziale di compromissione visiva.
Ma sono numerose e variegate le patologie che possono essere trattate con la terapia genica. Ad esempio, alcuni pazienti affetti da sordità autosomica recessiva 9, un tipo di sordità congenita, sono stati trattati con successo con questa terapia, che ha permesso di correggere una mutazione a carico di un singolo gene, che impediva la corretta trasmissione al cervello del segnale neurale associato alla percezione dei suoni.
Un altro settore in cui la terapia genica può giocare un ruolo fondamentale è quello delle patologie legate a carenze del fattore di coagulazione, come l’emofilia: una patologia adattabile a questo tipo di cura perché sono sufficienti piccoli aumenti del livello del fattore di coagulazione carente per trasformare un’emorragia grave e pericolosa per la vita in un disturbo emorragico lieve.
Nel caso di pazienti affetti da fibrosi cistica, la terapia genica potrebbe intervenire sul gene difettoso e la sua somministrazione potrebbe avvenire per inalazione visto che diverse complicazioni cliniche della malattia riguardano proprio l’apparato respiratorio.
Un altro campo di applicazione promettente riguarda i disturbi dell’emoglobina: in questo caso la terapia genica può migliorare notevolmente la funzione dei globuli rossi e aumentare il livello di emoglobina in misura sufficiente a ridurre le complicazioni della malattia.
Queste sono solo alcune delle patologie a singolo gene che possono essere trattate con la terapia genica, ma ci sono diverse altri candidati, tra cui disturbi legati a difetti metabolici ereditari o sindromi da insufficienza midollare ereditaria.
La terapia genica contro il cancro
Quello oncologico è un altro settore in cui la terapia genica ha grandi potenzialità. Attualmente, esistono diversi approcci all’utilizzo di questa terapia come componente del trattamento del cancro. Alcuni di questi possono essere appropriati per i tumori maligni ematologici e solidi. A differenza della correzione dei disturbi di un singolo gene, la terapia genica per il cancro agisce eliminando le cellule maligne, ma presenta ulteriori sfide legate alle mutazioni aggiuntive o ai cambiamenti immunologici utilizzati dalle cellule tumorali per sopravvivere.
La terapia genica può essere utilizzata per aumentare la risposta immunitaria, eliminando le cellule tumorali. Un esempio è la modifica ex vivo, cioè all’esterno dell’organismo del paziente, di linfociti T autologhi, che consente di indirizzare i linfociti del paziente verso le cellule tumorali. I linfociti o altre cellule del sistema immunitario come le cellule natural killer (NK) o i macrofagi, possono essere ingegnerizzate con un recettore chimerico che riconosce in maniera specifica una proteina del tumore (Chimeric antigene receptor). In questo caso le cellule prelevate dal paziente oncologico vengono modificate geneticamente in laboratorio in modo che, una volta reinfuse allo stesso paziente da cui sono state prelevate, siano in grado di attaccare il tumore Siparla in questo caso di medicina personalizzata ma questa tecnologia potrebbe essere anche usata per generare cellule Car allogeniche prendendo le cellule compatibili da un donatore e ingegnerizzarle verso il tumore. In ambito clinico, soprattutto pediatrico, i Car-T vengono usati nelle leucemie linfatiche B .
Un’altra sperimentazione in questo senso ha coinvolto il virus talimogene laherparepvec, approvato nel 2015 negli Stati Uniti e in Europa, per il trattamento del melanoma non resecabile. Il virus viene iniettato direttamente nelle lesioni cutanee, sottocutanee o nodali, in una dose che si basa sulle dimensioni della lesione. Si ritiene che il suo meccanismo influisca sul reclutamento e sull’attivazione delle cellule immunitarie nella sede del tumore.
L’instillazione intravescicale di nadofaragene firadenovec è un altro tipo di terapia genica che ha ricevuto, a dicembre 2022, l’approvazione della Food and Drug Administration per il trattamento del tumore invasivo della vescica non responsivo al Bacillo di Calmette-Guérin. Uno studio di somministrazione intravescicale che ha coinvolto 103 pazienti, cui è stata somministrata una dose ogni tre mesi per un massimo di quattro dosi, ha rilevato che 55 pazienti con carcinoma in situ hanno avuto una risposta completa, che si è mantenuta in 25 di questi soggetti a 12 mesi.
Un’altra applicazione della terapia genica al cancro è la lisi, cioè la dissoluzione, tumorale diretta. In questo caso, i protagonisti sono i virus oncolitici in grado di eliminare selettivamente le cellule tumorali grazie alla replicazione virale. I virus vengono opportunamente ingegnerizzati con mutazioni che consentono la replicazione virale e la lisi cellulare nelle cellule tumorali, ma non in quelle normali.
Un’ulteriore strategia, proposta per alcuni tumori maligni localizzati, come il retinoblastoma e il mesotelioma, coinvolge un “gene suicida” che si attiva quando è somministrato un determinato farmaco : In questo caso si procede con la trasduzione delle cellule tumorali con questo “gene suicida“ che vanno incontro a morte programmata inseguito alla somministrazione del farmaco . . Un’altra sperimentazione interessante riguarda lo sviluppo di un poliovirus geneticamente modificato, che ha un tropismo, cioè una preferenza, per le cellule di glioblastoma, ed è in grado di causare la loro dissoluzione senza danneggiare i tessuti neuronali normali; 61 pazienti con glioblastoma ricorrente trattati con questo metodo hanno avuto una sopravvivenza migliore a due e tre anni rispetto ai controlli storici. La terapia è stata somministrata direttamente al tumore e i pazienti, prima di riceverla, sono stati immunizzati contro il poliovirus per prevenire il possibile sviluppo della poliomielite.
Infine, un altro approccio della terapia genica al cancro consiste nell’utilizzarla per proteggere le cellule normali, non cancerose, dai farmaci chemioterapici rendendole resistenti, consentendo così la somministrazione di dosi più elevate di chemioterapia.
La terapia genica in Italia
Nel campo delle terapie geniche l’Italia ha una certa esperienza: il nostro Paese, fornisce, per esempio, una terapia genica per la cura dell’Ada-Scid, una rara immunodeficienza di origine genetica, dovuta al difetto nel gene dell’adenosina deaminasi, un enzima essenziale per la produzione e la maturazione dei linfociti, un particolare tipo di globuli bianchi. Senza questa proteina, il sistema immunitario non si sviluppa correttamente e non riesce a combattere le infezioni più comuni, che possono dunque risultare anche fatali. I bambini che ne sono affetti sono quindi costretti a vivere in un ambiente sterile e isolato, tanto che per loro è stata coniata l’espressione di “bambini bolla”. La cura per questa patologia è stata messa a punto dai ricercatori dell’SR-Tiget e recentemente uno studio ha confermato la sua validità: i pazienti, nella maggior parte dei casi, non hanno avuto bisogno di ulteriori cure dopo la terapia genica. La loro qualità di vita è migliorata sensibilmente, hanno potuto sottoporsi regolarmente alle vaccinazioni, andare a scuola e condurre una vita normale. Nei pochi casi, circa il 15%, in cui il trattamento non ha funzionato, si è potuti intervenire con successo con il trapianto da donatore. Un particolare da non sottovalutare è il fatto che in Italia il costo della terapia per l’Ada-Scid, utilizzabile dal 2016, è coperto dal sistema sanitario nazionale. Altrettanto non si può dire per i pazienti non europei, che possono accedere ai farmaci necessari solo tramite un’assicurazione privata oppure sostenendo direttamente i costi per le complessità di rimborso. E i costi sono alti: negli Stati Uniti, per esempio, possono variare da 400mila a oltre 2 milioni di dollari, a causa delle spese di sviluppo, produzione e delle spese associate agli studi clinici, nonché alle piccole cerchie di pazienti a cui si rivolgono. Ad esempio, una terapia genica basata su AAV (virus adeno-associati) per una rara malattia genetica aveva un prezzo di oltre 1 milione di dollari, motivo per cui la cura non si è diffusa e alla fine è stato deciso di non perseguire ulteriori approvazioni. Dall’altra parte, però, si stima che la terapia genica, basata su AAV, per l’emofilia B, il cui prezzo era pari a 3,5 milioni di dollari al momento dell’approvazione da parte della Food and Drug Administration, permetta di risparmiare oltre 200mila dollari all’anno a coloro che non necessitano più della profilassi di routine.
Sempre gli studiosi dell’SR-Tiget hanno sviluppato una terapia genica per la leucodistrofia metacromatica, una grave malattia neurodegenerativa che si stima colpisca 1 bambino ogni 100 mila. Nelle sue forme più gravi i bambini perdono rapidamente la capacità di camminare, parlare e interagire con il mondo circostante e la maggior parte di loro muore in età infantile. Il trattamento prevede il prelievo delle cellule staminali ematopoietiche del paziente che vengono corrette geneticamente per inserire copie funzionanti del gene difettoso e, successivamente, reinfuse nel paziente. La terapia ha dimostrato che basta una singola infusione per preservare la funzione motoria e le capacità cognitive nella maggior parte dei pazienti, che oggi sono stati seguiti fino a 12 anni dal trattamento. La terapia ha recentemente ottenuto anche la validazione della Food and Drug Administration.
Inoltre, lo scorso aprile a Milano un giovane uomo è stato il primo paziente a ricevere la terapia genica contro l‘emofilia A grave. La somministrazione della terapia è avvenuta a inizio aprile al Policlinico di Milano e la procedura ha avuto pieno successo. Tutto ciò poco tempo dopo l’autorizzazione regionale che individua il Policlinico come unico centro hub per trattare l’emofilia di tipo A grave in pazienti adulti. Pochi mesi dopo, in Veneto, un altro paziente affetto dalla stessa patologia ha ricevuto la terapia genica, anche in questo caso con successo.
L’ospedale Bambino Gesù di Roma si è reso protagonista di una sperimentazione basata sulla tecnica di editing genetico nota con il nome di CRISPR-Cas9. “Si tratta di uno strumento di editing genetico che permette di modificare il DNA in modo preciso e mirato, e funziona come una tecnica di ‘taglia e cuci’ del DNA” spiega la dottoressa Mareschi. “Utilizza una guida RNA a singolo filamento per dirigere l’enzima Cas9 verso una specifica sequenza di DNA, dove Cas9 taglia il DNA. Questo taglio permette di aggiungere, rimuovere o sostituire segmenti di DNA, consentendo la correzione di mutazioni genetiche, l’inattivazione di geni specifici o l’inserimento di nuovi geni. CRISPR/Cas9 è rivoluzionaria per la sua precisione, efficienza e versatilità, ed è utilizzata in ricerca genetica, biotecnologia e potenzialmente nella terapia genica per trattare malattie genetiche”. Grazie alle “forbici” molecolari in grado di correggere i difetti del DNA, è stato possibile guarire pazienti affetti da talassemia e anemia falciforme. La sperimentazione rientra in due studi internazionali che hanno documentato come il 91% dei pazienti talassemici abbia raggiunto l’indipendenza dalle trasfusioni periodiche, che per i soggetti affetti da questa malattia sono necessarie per mantenere adeguati i valori di emoglobina nel sangue. Inoltre, il 97% dei pazienti con anemia falciforme è divenuto libero dalle crisi vaso-occlusive, che possono provocare complicanze gravi e fortemente invalidanti.
Nel 2020 è arrivata anche in Europa l’approvazione condizionale per onasemnogene abeparvovec, nome commerciale Zolgensma, la terapia genica per il trattamento di pazienti con atrofia muscolare spinale (SMA) e diagnosi clinica di SMA di tipo 1 oppure di pazienti con SMA che hanno fino a tre copie del gene SMN2. L’approvazione europea riguarda neonati e bambini con SMA fino a 21 kg di peso(secondo la posologia approvata) e si applica a tutti i 27 Stati membri dell’Unione Europea, oltre ad Islanda, Norvegia, Liechtenstein e Regno Unito. L’approvazione da parte della Commissione Europea significa che la terapia genica in questione ha tutte le carte in regola e il semaforo verde per lo sbarco in Europa; ma ciò non implica automaticamente l’autorizzazione per l’accesso ai pazienti in Europa. Per questo ci vuole un secondo passaggio autorizzativo che dipende dalle singole agenzie regolatorie in ogni Stato membro.
Limiti e prospettive future della terapia genica
La terapia genica ha compiuto significativi progressi negli ultimi anni, ma ci sono ancora diversi limiti e difficoltà da superare per renderla una pratica clinica sicura ed efficace su larga scala. I principali ostacoli attuali, spiega la dottoressa Mareschi, riguardano “la capacità di introdurre i geni terapeutici nelle cellule bersaglio in modo efficace e consistente, la difficoltà nel raggiungere e trattare alcuni tessuti o cellule bersagli, come quelle del sistema nervoso centrale, il fatto che l’uso di vettori virali può scatenare una risposta immunitaria, causando infiammazione o rigetto del trattamento, il fatto che alcuni vettori virali possono integrare il gene terapeutico nel genoma dell’ospite, con il rischio di interrompere geni essenziali o attivare oncogeni, portando a potenziali tumori, la difficoltà nel mantenere l’espressione del gene terapeutico a livelli ottimali, i costi e le complessità legati alla produzione su larga scala e la necessità di standardizzarla per garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia del prodotto terapeutico”. Ulteriore criticità riguardano “il fatto che alcuni vettori, come i plasmidi, tendono a non integrarsi nel genoma e quindi l’espressione del gene terapeutico può essere transitoria, richiedendo ripetute somministrazioni, il sistema immunitario del paziente può riconoscere il prodotto del gene terapeutico come estraneo e attaccarlo, l’importanza di evitare effetti non desiderati in altri geni o tessuti, introducendo il gene terapeutico solo nelle cellule bersaglio”. Non va dimenticato che “la terapia genica è soggetta a regolamentazioni rigorose per garantire la sicurezza e l’efficacia: per tale motivo i prodotti di terapia genica vengono definiti Prodotti di terapia avanzata e devono essere fabbricati in strutture specializzata con caratteristiche specifiche dette Cell Factory” e seguendo le linee guida delle Good Manufacturing Practice (GMP). Infine non vanno sottovalutate le questioni etiche legate alla modifica del genoma umano, soprattutto se tali modifiche possono essere ereditarie. Un argomento questo attualmente molto dibattuto.
Per superare questi limiti la ricerca nella terapia genica si sta concentrando su diversi approcci innovativi. I principali, spiega la dottoressa Mareschi, sono “lo sviluppo di vettori virali e non virali più sicuri ed efficaci, come i virus adeno-associati (AAV) e le nanoparticelle lipidiche, l’utilizzo delle Tecniche di editing genetico (come CRISPR/Cas9) che permettono modifiche genetiche più precise e controllate, lo sviluppo di sistemi per regolare meglio l’espressione del gene terapeutico, garantendo che sia espresso solo quando e dove necessario, la ricerca di metodi per migliorare il targeting specifico delle cellule e dei tessuti bersaglio, i metodi per minimizzare la risposta immunitaria ai vettori e ai geni terapeutici, come l’uso di vettori meno immunogenici o l’immunosoppressione controllata, e l’ottimizzazione della produzione ovvero il miglioramento delle tecniche di produzione e purificazione dei vettori per ridurre i costi e aumentare l’accessibilità della terapia genica. In sintesi, la terapia genica ha un enorme potenziale, ma richiede ancora notevoli progressi tecnici e scientifici per superare le sfide attuali e diventare una terapia ampiamente utilizzata e sicura”.
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