Testare, tracciare, trattare. È nota come la strategia delle tre T suggerita dall’OMS che avrebbe dovuto portarci oltre, o almeno a controllare, la diffusione del SARS-COV-2. Tre linee d’azione che, per essere efficaci nella corsa contro il virus, dovrebbero funzionare come una staffetta ideale nella quale i corridori riescono a passarsi continuamente il testimone nei tempi e negli spazi giusti mantenendo un ritmo di gara sempre superiore all’avversario. Nella realtà della corsa contro la diffusione del Covid-19, i corridori della squadra “tre T” sono partiti in condizioni diverse e, a seconda del ritmo imposto dalla propagazione del contagio, attraversano fasi diverse di forma. Oggi la capacità di testare attraverso i tamponi è maggiore rispetto alla prima fase dell’epidemia e anche quella di cura, come suggerisce l’andamento generale dei ricoveri in questa fase, sembra essere sotto controllo.
Al momento, quella in maggiore difficoltà sembra proprio l’azione di contact tracing, il tracciamento dei possibili contatti dei contagiati che dovrebbe consentire la capacità di isolare e intervenire sui focolai d’infezione in modo tempestivo.
Il numero di casi positivi giornalieri, l’approssimarsi di ‘ondate’ successive di contagi, rende sempre più complesso definire con valida approssimazione i possibili contatti a rischio per questa che resta, in gran parte, un’attività da svolgere sul territorio fatta essenzialmente di visite, isolamento, interviste, controlli.
Il supporto delle tecnologie mobili di tracciamento, che è stato di grande efficacia nella prima fase della diffusione della pandemia in Paesi come Cina e Corea del Sud, ha lasciato pensare che queste soluzioni avrebbero incrementato in modo sostanziale la capacità di tracciare i contatti a rischio ed intervenire con le attività di test, e dove necessario, di cura anche nel resto del mondo, Italia compresa.
Ma nella realtà dei fatti questo apporto è rimasto limitato, scontrandosi con limiti e resistenze di vario genere che ne vanificano la diffusione nel pubblico e, di fatto, anche l’integrazione con il sistema sanitario impegnato nella lotta al Covid-19. Cerchiamo di capire perché e cosa può cambiare.
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Il contact tracing (CT) è riconosciuto come uno strumento fondamentale di sanità pubblica per la prevenzione e il controllo della diffusione delle malattie trasmissibili da persona a persona.
Poco noto ai non addetti al settore prima dello scoppio della pandemia è comunque uno strumento che viene utilizzato quotidianamente per il controllo delle malattie infettive come la tubercolosi, il morbillo, e alcune malattie trasmesse sessualmente.
Grazie alla capacità di identificare rapidamente le persone entrate in contatto con casi esistenti, in quanto potenziali casi secondari, consente di prevenire l’ulteriore trasmissione dell’infezione.
Per spiegare in sintesi in cosa consiste la procedura di contact tracing facciamo riferimento alla descrizione offerta dal Rapporto ISS n.59/2020 sul “Supporto digitale al tracciamento dei contatti (contact tracing) in pandemia: considerazioni di etica e di governance” che prende in esame molti degli aspetti critici che stanno limitando ancora adesso l’effettivo supporto delle App di contract tracing al sistema.
Il CT parte dall’identificazione da parte del medico di famiglia di un sospetto di malattia. Quindi, nell’ordine, il processo richiede di stabilire con certezza la positività della persona mediante somministrazione di test diagnostici specifici. A questo punto occorre intervistare la persona positiva per individuare i possibili contatti avuti in un periodo di tempo epidemiologicamente significativo, precedente alla diagnosi di positività. Nel caso del COVID-19 questa va da 48 ore prima dell’insorgenza dei sintomi o della raccolta del campione positivo, fino a 14 giorni dopo o fino all’isolamento del caso.
A seguire: devono essere rintracciati e intervistati i contatti segnalati; devono essere sottoposti a quarantena i contatti stretti per due settimane; occorre sottoporre a test diagnostico i soggetti durante la quarantena; e quindi ripetere la procedura per i contatti risultati positivi.
Si tratta insomma di un metodo riconosciuto di contenimento del contagio ma la misura di quanto funzioni dipende dal numero di casi secondari identificati e isolati, cioè il numero di casi di persone contagiate da una prima persona confermata infetta, identificati a seguito di un test.
Oltre la presenza di un efficace sistema di sorveglianza e la disponibilità di test diagnostici, per identificare i casi di COVID-19 nella popolazione l’efficacia del CT dipende da numerose variabili:
1 La convinta, volontaria, collaborazione del caso indice (cioè il primo che si ammala, il caso che ha dato origine alla catena del contagio).
2 La altrettanto convinta collaborazione dei contatti nell’eseguire la quarantena e monitorare i propri sintomi.
3 La disponibilità di laboratori in grado di fornire risposte rapide ai test diagnostici.
4 La pronta disponibilità di dispositivi di protezione personale (DPI).
5 La rete di trasporti di campioni biologici.
6 La rete di assistenza sanitaria domiciliare.
In Italia il contact tracing è responsabilità delle ASL, e viene fatto principalmente in due modi: quello appena descritto che viene orami definito CT tradizionale e attraverso l’app Immuni con il cosiddetto CT digitale. L’attenzione dell’opinione pubblica e dei media è molto focalizzata sulla capacità di penetrazione e sugli stentati risultati dell’app, ma il grosso continua ad essere svolto dai tracer, personale sanitario dedicato a queste indagini, neo assunto o spostato da altri incarichi, spesso insufficiente a tenere il ritmo attuale dell’epidemia.
Proprio le linee guida sul contact tracing dell’Istituto Superiore di Sanità uscite lo scorso giugno accendevano l’attenzione su una delle principali criticità di questa attività, invitando le regioni a dotarsi delle giuste risorse per tempo. “La ricerca e gestione dei contatti è una attività che richiede molte risorse umane e ciascuna Regione dovrà adattare la propria risposta alla situazione epidemiologica locale e alle risorse disponibili. Quando il numero di casi identificati aumenta in un breve periodo di tempo, potrebbe essere difficoltoso effettuare un contact tracing rigoroso”.
Secondo il Sole 24 Ore si parla di una squadra distribuita lungo il Paese di circa 9000 persone assunta tardivamente ed in numero insufficiente. Se si considera che ogni positivo nei giorni precedenti è venuto in contatto in media con 15-20 persone ecco che ai tracer è affidato il difficile compito di chiamare al telefono, registrare, monitorare, nel caso mettere in isolamento, circa 100mila persone al giorno.
Secondo quanto previsto dal Governo diversi mesi fa i tracciatori avrebbero dovuto essere almeno uno ogni diecimila abitanti, una cifra che non tutte le regioni riescono a raggiugere e che vede grandi differenze sul territorio. La medicina sul territorio si confronta con la realtà dei mezzi a disposizione.
Tuttavia, è importante ricordare che anche in uno scenario di trasmissione diffusa, il contact tracing può contribuire a rallentare la diffusione dell’infezione, riducendo la pressione sul sistema sanitario.
In tale scenario, secondo le Linee Guida dell’ISS, “si possono prioritizzare le attività di ricerca e gestione dei contatti, iniziando con i contatti a maggior rischio di ogni caso, che di solito sono i più facili da trovare, compresi i contatti familiari, gli operatori sanitari o il personale sanitario che lavora con popolazioni vulnerabili, le comunità chiuse ad alto rischio (dormitori, strutture per lungodegenti, RSA, ecc.) e i gruppi di popolazione vulnerabile, seguito dalla ricerca del maggior numero possibile di contatti a basso rischio di esposizione. Anche un contact tracing parziale può contribuire a rallentare la diffusione di infezione e se, in media, si verifica meno di un nuovo caso per ciascun caso, l’epidemia può essere contenuta”.
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Questa complicata opera di indagine territoriale oggi si può avvalere di soluzioni tecnologiche basate sul digital health e in particolare delle due componenti electronic-health (e-health) e mobile-health (m-health).
Dal punto di vista della sanità pubblica non vi è alcuna differenza concettuale tra le due forme di CT.
Gli obiettivi sono identici ma la sfida, ancora non risolta, consiste nella capacità di integrare i due sistemi andando realmente a alleggerire il peso delle attività dei tracer e velocizzare il processo di rintracciamento dei contatti.
Insomma occorre riuscire a costruire un programma di sorveglianza integrato nel sistema sanitario pubblico esistente che includa personale dei servizi sanitari, servizi di test e infrastruttura di tracciabilità.
Inoltre, come spiega il Gruppo di Lavoro Bioetica COVID-19 dell’ISS nel già citato “Supporto digitale al tracciamento dei contatti” l’inserimento del digitale nelle attività di sorveglianza pone interrogativi rilevanti perché queste tecnologie hanno già dimostrato di avere un impatto importante sui comportamenti sociali: “la potenzialità di questi strumenti è tale da poter innescare cambiamenti radicali nei comportamenti e nelle attitudini della popolazione e delle istituzioni stesse, sia sanitarie che di governo, come è evidente dalle modificazioni indotte nella società dalla diffusione capillare di mezzi informatici di vario tipo e a vari livelli (Internet, smartphone, social, ecc.)”.
È infatti sulla difficoltà concreta di integrare Immuni, l’app scelta dall’Italia per l’attività di CT digitale, con il sistema di territoriale di contact tracing e i timori per l’invasività percepita dal pubblico che il contact tracing digitale in Italia stenta a diventare una reale arma contro la diffusione del Covid-19.
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Immuni è la soluzione messa a disposizione degli italiani dal Governo. È nata dalla collaborazione tra Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro della Salute, Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Regioni, Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 e le società pubbliche Sogei e PagoPa. È un app gratuita per IOS e Android basata sulla tecnologia bluetooth low energy.
Il 19 Aprile del 2020 Immuni viene scelta tra 319 progetti analizzati da 79 membri di una apposita task force. La scelta cade sulla soluzione proposta dall’agenzia digitale Bending Spoons e sviluppata in collaborazione con Centro Medico Santagostino. L’app è stata realizzata e ceduta a titolo gratuito al Governo. Bending Spoons in seguito ha continuato a fornire un servizio di documentazione, design e sviluppo software, fino allo scorso 13 ottobre.
L’app arriva negli store di Google e Apple a giugno dopo mesi di annunci e polemiche sul sostegno che avrebbe potuto dare nel tracciamento e nel contenimento dei contagi. Sul piatto grandi polemiche sulla possibilità di controllo dei cittadini e i potenziali rischi per la privacy; sul modello di acquisizione decentralizzato dei dati; sulla scelta di ricorrere alla tecnologia bluetooth low energy invece del Gps; sul fatto già noto che avrebbe funzionato su apparati che avevano Android 6.0 e una versione IOS a partire dal 13.5. Sono esclusi gli apparecchi datati e marche cinesi importanti ‘bannate’ dall’embargo tecnologico statunitense.
Esponenti politici di primo piano come Salvini, Meloni, il sindaco di Napoli De Magistris, il governatore del Veneto Luca Zaia, dichiarano di non volerla scaricare. A tranquillizzare arrivano le dichiarazioni di Conte e del Garante della Privacy.
Al suo esordio viene scaricata da circa 500 mila persone, ma l’obiettivo era stato fissato a milioni di download. Da quel momento ad Immuni viene associato sui media l’aggettivo ‘flop’ che non l’abbandonerà più. Il download dell’app continua a crescere ma ad un ritmo troppo lento. A fine giugno del 2020 l’app è arrivata a circa 4 milioni di download. In estate all’app viene affiancato un servizio di assistenza e informazione con il numero 800.91.24.91
Tra settembre e ottobre con la ripresa delle scuole e la previsione di una seconda ondata Immuni assiste ad una crescita significativa dei download che a ottobre supera gli otto milioni.
Nel frattempo vengono segnali e poi risolti alcuni bug sia rispetto alla versione IOS che Android.
Per esempio alcuni modelli recenti Android disattivano le app meno utilizzate dall’utente che operano in background, che è proprio il caso di Immuni. Durante l’estate anche il Ministro della salute Speranza parla di Immuni come un flop dovuto agli iniziali problemi di comunicazione.
Comincia ad essere evidente che anche con un numero non altissimo di download il numero di notifiche di rischio ricevuto dagli utenti e le segnalazioni di positività caricato su Immuni è troppo basso.
Parte un’altra grande polemica che invoca il ‘flop’ ma si comprende che il problema non consiste nell’app quanto nel mancato legame di immuni con il resto della catena del Contact Tracing.
A metà ottobre scoppia il caso: la Regione Veneto non era collegata a Immuni e quindi gli utenti dell’app positivi non potevano caricare i propri codici temporanei per consentire l’allerta dei contatti stretti tramite notifica app.
Il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa, parla di “delitto politico” contro l’app. Sulla stampa diventano frequenti le notizie di cittadini che si sentono rispondere dalle Asl che non sanno come agire rispetto alle notifiche di Immuni, ma non è un problema limitato al Veneto.
Un sistema sanitario territoriale stressato, operatori impreparati su questo aspetto, farraginosità organizzative fanno saltare una fase determinate del processo di CT digitale: pochi operatori sanitari chiedono al cittadino risultato positivo di caricare i dati su Immuni, pochi operatori sono in grado di farlo se il cittadino lo chiede. In questo modo Immuni resta una presenza muta negli smartphone. Un epidemiologo di fama internazionale come Alessandro Vespignani che pure aveva sollecitato e salutato l’arrivo dell’app (vedi anche l’intervista sul numero di Giugno 2020 di InnovazionePA) sottolinea come senza un sistema di servizi per chi utilizza immuni o la possibilità di avere un call center a disposizione per sostenere il tracciamento l’app è svuotata di senso. Il problema, ancora una volta per quanto riguarda i servizi della PA digitale, non è la tecnologia ma la sostenibilità del processo.
Con il decreto ristori dello scorso ottobre questa misura arriva. Non prima che il Garante della privacy debba chiarire che non è possibile rendere obbligatorio il download dell’app.
A Dicembre 2020 i Download hanno superato quota 10 milioni, le notifiche di rischio sono 82 mila circa e gli utenti positivi che hanno caricato le proprie chiavi di segnalazione sono 6.908.
Mentre questo articolo è in preparazione è atteso a giorni l’avvio del servizio di contact center attraverso il quale i cittadini potranno segnalare la loro positività. Sarà un processo guidato che consentirà agli utenti di caricare le proprie informazioni segnalando il Codice Unico Nazionale collegato al test positivo e il numero di tessera sanitaria, snellendo il processo complessivo e, si spera, attivando l’auspicato supporto tra contact tracing tradizionale e digitale.
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Il contact tracing digitale incontra scarso entusiasmo in tutto il mondo. Anche se in questo caso non è opportuno parlare di mal comune mezzo gaudio, lo scarso numero di download delle app di contact tracing non riguarda solo Immuni e l’Italia. Lo spiega un recente articolo apparso su Science di due bioetici del Politecnico di Zurigo, Alessandro Blasimme e Effy Vayena.
Lo studio sottolinea come a fronte di una disponibilità molto ampia ad inizio pandemia del pubblico verso soluzioni tecnologiche di contact tracing digitale, l’effettivo download e utilizzo delle diverse applicazioni sia stato molto inferiore alle attese. I motivi sono simili nella maggior parte dei paesi occidentali presi in esame: mancanza di sicurezza sul reale supporto offerto dalla app di contact tracing; i timori relativi alla tutela della privacy e una generale diffidenza del pubblico verso una forma potenzialmente pervasiva di sorveglianza digitale.
È una sorta di avvitamento perché se da una parte non si riesce a dimostrare l’efficacia dei sistemi di Contact tracing digitale sarà difficile convincere gli utenti sull’opportunità di scaricare e adottare tali soluzioni; e se dall’altra non si raggiunge una sufficiente massa critica di utenti è difficile dimostrare il reale impatto delle app. Senza un’azione lucida e mirata il processo di diffusione e affermazione del contact tracing digitale è legato ad un lungo e frammentario percorso di apprendimento sociale e fiducia da parte del pubblico.
Studi condotti ad aprile e maggio 2020 mostravano un ampio interesse per le soluzioni di CT digitale. In paesi come Stati Uniti, Svizzera e Italia, tra il 55 e il 70% degli adulti in tutte le fasce d’età era disposto a scaricare un’app di tracciamento dei contatti. L’esito è stato ben diverso. Durante la preparazione dello studio di Blasimme e Vayenna, pubblicato a novembre, anche nei paesi in cui sono in atto solide misure di tutela della privacy, i download di app DCT erano al di sotto delle aspettative. l’app australiana era stata scaricata da 6,5 milioni (26% della popolazione), quella italiana da 8 milioni (13,4%) e quella francese appena da 1,5 milioni di cittadini (2,3%). L’Irlanda aveva circa 1,3 milioni di utenti attivi di app (24%), la Svizzera 1,8 milioni (21,5%) e la Germania 16 milioni (19,3%).
I maggiori timori degli utenti, secondo gli autori, sono legati alla preoccupazione delle persone per possibili usi non autorizzati dei propri dati, diversi dal contenimento del Covid-19 e l’accesso ai dati personali da parte delle società IT e di altre autorità statali.
Se questi timori non verranno superati in tempo utile c’è il rischio concreto di abbandonare soluzioni tecnologiche potenzialmente utili come è accaduto per esempio in Norvegia dove l’autorità per la protezione dei dati, ha affermato che i rischi noti sulla sorveglianza attraverso le soluzioni di CT digitale superano i possibili benefici per la salute pubblica e ha indotto il governo norvegese a sospendere la propria soluzione. Per invertire questa tendenza occorre la capacità di puntare su una ‘governance adattativa’ un approccio di gestione aperto che distribuisca ruoli di supervisione tra diversi attori anche al di fuori dell’ambito istituzionale, coinvolgendo società civile, organizzazioni no profit e associazioni di tutela dei consumatori. È una modalità che, secondo i due studiosi, un’ampia letteratura ha dimostrato essere efficace quando i rischi sono noti mentre i benefici devono essere dimostrati. In questo modo dovrebbe essere possibile consentire un maggior coinvolgimento pubblico che è mancato di fronte all’esigenza di individuare soluzioni efficaci che sono state nella maggior parte dei casi ‘calate dall’alto’. Sulle soluzioni adottate andranno studiate strutture di supervisione trasparenti e attente alle implicazioni etiche legate all’uso dei dati che garantisca libertà dei cittadini, accessibilità delle soluzioni tecnologiche, precondizioni necessarie a stimolare un necessario percorso di apprendimento sociale.
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