Personale, dati e investimento: il futuro della sanità italiana

In questa intervista Elena Bottinelli, Head of digital transition and transformation del gruppo San Donato, racconta la trasformazione del settore in Italia
17 Febbraio 2025 |
Giulia Galliano Sacchetto

 

 

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Personale preparato, condivisione dei dati, investimenti all’altezza della sfida: il completamento della trasformazione digitale della sanità italiana passa da questi elementi imprescindibili. “Per abituare il personale sanitario all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali, ci vuole un grande impegno non solo in termini di formazione, ma anche culturale” dice in questa intervista a Innovazione Pa Elena Bottinelli, Head of digital transition and transformation del gruppo San Donato.

Proviamo a tracciare un quadro della trasformazione digitale della sanità italiana… a che punto siamo? Quali sono le tecnologie più utilizzate attualmente? Quali gli ambiti nei quali c’è più da lavorare?

È molto complicato fare un quadro nazionale, perché, in questo momento, ci sono differenze di adozione degli investimenti del Pnrr, che sono centrali. Riguardano soprattutto il fascicolo sanitario elettronico, i progetti di telemedicina e gli investimenti fatti all’interno delle strutture. I finanziamenti del Pnrr sono dedicati alle strutture pubbliche, e coprono anche tutti gli aspetti riguardanti la cartella clinica elettronica. Questo, in alcune regioni, ha comportato anche la sostituzione di cartelle cliniche elettroniche già in funzione all’interno delle strutture. Quindi, ogni Regione ha migliorato i propri assetti interni digitalizzandoli, in alcuni casi addirittura accorpando alcune funzioni a livello centrale: penso, per esempio, ai progetti legati alla digitalizzazione dell’anatomia patologica, che in Lombardia è un punto fondamentale. Nello stesso tempo sono state sviluppate sia le cartelle informatizzate di territorio che i sistemi di telemedicina, per fare in modo che nelle strutture territoriali si crei un’infrastruttura digitale comune che dialoghi con le singole strutture sanitarie ospedaliere. Possiamo dire, dunque, che siamo in una fase intermedia in cui ancora non si sono visti gli esiti degli investimenti: si sono fatte le gare, si sono disegnati i percorsi e così via, per cui anche l’ultimo osservatorio del Politecnico non mappa ancora una crescita significativa a livello di investimenti e neanche a livello di adozione. Questo deve essere l’anno dell’investimento.

Cosa si prevede per il fascicolo sanitario elettronico?

È definito 2.0: se infatti fino ad oggi i referti raccolti non potevano essere scambiati tra Regioni, con questo nuovo strumento sarà possibile creare un’infrastruttura nazionale che permetterà di scambiare i dati, con il consenso del paziente. La possibilità di scambiare non solo documenti, ma anche e soprattutto dati, è fondamentale se pensiamo al futuro e alle potenzialità dei progetti di prevenzione e di medicina d’iniziativa. Cuore di questi processi è infatti la segnalazione al paziente dei controlli che dovrebbe fare in base alle sue caratteristiche: qualcosa che con i dati condivisi a livello nazionale è molto più semplice.

E per voi privati accreditati?

Non va dimenticato il nostro ruolo: pur non essendo beneficiari di questi finanziamenti, abbiamo comunque la responsabilità di adeguarci in modo da essere parte del sistema. Per fare un esempio, il fascicolo sanitario elettronico deve comprendere tutte le attività svolte con il servizio sanitario, ma auspicabilmente anche quelle svolte a pagamento dai cittadini perché altrimenti si rischia di perdersi dei pezzi, magari anche importanti. Come gruppo San Donato, essendo il primo gruppo della sanità italiana sentiamo la responsabilità di anticipare i tempi sia per quel che riguarda l’utilizzo sia per quanto concerne il change management, perché sono entrambi fondamentali, soprattutto per garantire che questi strumenti vengano poi realmente usati. Perché altrimenti gli investimenti, le infrastrutture, i software e le tecnologie non servono. Il change management ha proprio il compito di far capire, per esempio, ai medici che questi sistemi fanno parte della loro attività quotidiana e devono essere usati. Inoltre, della loro esistenza e del loro utilizzo devono essere informati anche i pazienti: il medico può, per esempio, promuovere queste soluzioni con i pazienti segnalando quando possono fare a meno di muoversi, oppure che potrebbero essere le persone giuste per ottenere un monitoraggio da remoto e così via.

Ci fa un esempio?

Stiamo portando avanti una nostra piattaforma che abbiamo chiamato Connected Care, proprio perché consente di instaurare una connessione fra utenti e erogatori. In futuro questa piattaforma potrà essere collegata con il servizio sanitario. Intanto stiamo familiarizzando con queste soluzioni: non è così immediato, oggi ancora molti medici preferiscono usare whatsapp, mail o sistemi non protetti piuttosto che queste piattaforme. Si tratta di un cambio culturale che favorisce anche una presa di coscienza riguardo i temi di protezione dei dati e cyber security. Proprio per questo il ricorrere a queste piattaforme non deve essere vissuto come una scocciatura, ma come un’azione funzionale alla protezione dei dati del paziente; deve passare il messaggio che se vengono richiesti più consensi, se ci sono tutta una serie di password, se viene chiesta la validazione al medico con firma digitale e così via, c’è un motivo. E spesso questo comporta un grande impegno in termini non solo di formazione, ma soprattutto di cultura per abituare all’utilizzo delle soluzioni. Anche di cultura del dato, che è fondamentale perché ciascun operatore deve essere consapevole del fatto che ogni dato che raccoglie all’interno dell’organizzazione può essere utilizzato solo per determinate soluzioni. Gli operatori non possono insomma permettersi di inserire dati senza l’attenzione al singolo caso. Tutto questo richiede un continuo impegno, e noi ci stiamo portando avanti.

E il cittadino?

Deve già essere informato su queste nuove soluzioni. Altrimenti il rischio è che non possa cogliere tutte le opportunità utili per la sua salute. Inoltre, tutti questi investimenti in tecnologia e in digitale devono portare anche ad una revisione dei processi. Le nuove soluzioni hanno vari gradi di difficoltà per diventare operative, e realizzarle non è così immediato. Anche perché i fornitori sono pochi, gli appalti tanti e il tempo di messa in opera è lo stesso per tutti. Questo è un argomento importante da affrontare anche alla luce del fatto che ci sono degli obiettivi da raggiungere, e se non ci si riesce non si viene pagati. Ma c’è una seconda criticità che riguarda l’uso effettivo di questi nuovi strumenti: devono essere sfruttati per migliorare i processi interni, senza limitarsi a riprodurre digitalmente quello che prima si faceva in modo analogico perché in questo modo si coglie solo una parte dei vantaggi. Invece, il fatto di poter condividere i dati, poter ridisegnare attraverso il digitale alcuni processi, è una grande opportunità. Ma si tratta anche di un processo molto impegnativo perché impone una revisione delle organizzazioni e del modo in cui le cose vengono fatte.

In quali termini?

É necessario avere una squadra che governi questo percorso: un team multidisciplinare formato, quindi, non solo da tecnici, ma anche, per esempio, da chi si occupa di management e privacy. In questo modo si possono tenere in considerazione tutti i diversi aspetti della trasformazione digitale. Per rendersi conto di quanto sia importante la multidisciplinarietà basti pensare al fatto che non tutti gli operatori sanitari possono vedere i dati di un paziente, bensì solo quelli a cui il paziente ha dato il consenso, ovvero quelli che lo hanno in cura. Un ruolo fondamentale lo gioca il personale sanitario, che deve quindi essere accompagnato in questa trasformazione. A tal proposito il gruppo San Donato ha somministrato un questionario per vedere quanto il nostro personale sia preparato a questo cambiamento. È stato realizzato su stimolo di Cittadinanza Attiva e in collaborazione con l’università Vita Salute San Raffaele e uno degli obiettivi era quello di misurare la possibile presenza della sindrome dell’impostore (l’idea di non essere degni del successo raggiunto, degli apprezzamenti ricevuti, dei riconoscimenti ottenuti e/o della posizione ricoperta, ndr) all’interno dell’organizzazione, e capire se questo potesse essere un motivo di criticità nella trasformazione digitale.

Che tipo di risultati sono emersi?

Ha evidenziato che ci sono delle fonti di stress indipendentemente dalla qualità dell’organizzazione, che nel complesso è giudicata buona. In tal senso c’è una grande aspettativa nei confronti del digitale, visto come uno strumento che consentirà di evitare tutta una serie di mansioni che in questo momento sono ritenute burocratiche e fanno perdere il contatto con il paziente, che invece è quello che i nostri lavoratori vorrebbero incrementare. Quello che è emerso è inoltre che molto dello stress è dovuto al fatto che ancora non si vede il completamento del percorso di trasformazione digitale. Infatti, il 67% degli operatori, in particolare gli infermieri, dice di dedicare una quantità significativa di tempo agli aspetti burocratici e ritiene di non essere sufficientemente supportato in questi aspetti. Il 90% però si rende conto che questa attività digitale riguarda il proprio lavoro e quindi sa bene che la deve affrontare, anche se in parte non si sente preparato (circa il 18%). I livelli di burnout sono elevati, con un’incidenza di esaurimento emotivo più elevato nelle donne (51%). Abbiamo poi notato come il burnout sia correlato con alti livelli di sindrome dell’impostore, che, a loro volta, significano maggiori problemi nell’organizzazione del lavoro. Quindi, partendo da questi risultati, abbiamo messo a punto una serie di percorsi formativi con anche il supporto degli psicologi, perché riteniamo che questa situazione riguardi anche la sfera psicologica, non solo quella tecnica.

Che ruolo ha il turnover in questa dinamica?

Importante: c’è tanta gente che va in pensione e c’è poco personale che però si sposta frequentemente da una struttura all’altra, mediamente dal privato verso il pubblico e verso il Sud. Questo vale soprattutto per gli infermieri, che spesso provengono dal Meridione, tanto che le posizioni universitarie di infermieristica al Nord Italia non sono saturate. E anche se un infermiere si forma al Nord e comincia a lavorare lì appena può torna al Sud e lo fa attraverso la mobilità che offre il pubblico; nel privato questa possibilità non c’è, per cui mediamente transitano molte persone in poco tempo con un turnover, quindi, molto elevato e in tanti casi si ricorre a personale straniero. Tutte complessità che portano stress anche su chi ogni volta deve ripartire da zero e formare nuovo personale.

Qualche anno fa lei è stata tra i componenti del tavolo di lavoro “Sanità” di Task Force Italia che aveva proposto alcuni punti su cui lavorare per rilanciare la sanità italiana… Ritiene che ci siano stati dei passi avanti?

Innanzitutto, dobbiamo dire che il Pnrr ha ripreso molti dei punti che avevamo sottolineato. Tra questi, per esempio, il tema riguardante l’incremento del personale del servizio sanitario. In quest’ottica, dopo il Covid sono state riaperte le posizioni delle scuole di specialità: questo consentirà nei prossimi due anni di avere un nuovo afflusso di medici e di infermieri. Proprio sul loro ruolo c’è ancora da lavorare: l’Ordine ha creato, per esempio, delle specializzazioni in modo che si possa evidenziare una progressione di carriera e quindi ci sia un maggiore interesse ad iscriversi alla laurea in infermieristica. Poi c’è il grande tema dei livelli di assistenza, con l’Italia che ha un fondo sanitario che purtroppo è ancora molto insufficiente rispetto alle aspettative. A tal proposito uscirà una copertura con il prossimo tariffario dei livelli di assistenza su tutte le Regioni, che saranno ampliati dopo essere stati fermi per parecchi anni. Rimane comunque una questione relativa allo stanziamento complessivo, per cui se non si riescono ad ottenere più soldi dal sistema sanitario, bisogna fare in modo che perlomeno quelli che vengono spesi dai cittadini di tasca propria, o dalle imprese attraverso un welfare aziendale, vengano messi a fattor comune in modo che non si perdano o si debbano duplicare degli esami – un po’ sulla falsariga di quanto dicevo prima riguardo al fatto che la visita privata non viene messa sul fascicolo sanitario elettronico. Oppure si potrebbe fare in modo che il welfare aziendale andasse a coprire maggiormente gli argomenti legati alla prevenzione che potrebbero completare l’offerta del servizio Sanità dell’azienda.

Altri punti presi in considerazione da quel tavolo?

La riqualificazione del patrimonio tecnologico, argomento previsto dal Pnrr con l’automazione dei processi sanitari, e un rafforzamento della medicina territoriale, che è quello che ci aspettiamo con la messa in opera del decreto 77. Anche qui c’è la questione delle risorse umane, perché queste strutture territoriali devono essere gestite da persone: quindi, se queste ultime mancano o sono contese tra strutture, ci possono essere dei problemi. Anche per questo si punta alla promozione di nuove figure come l’assistente infermiere, che permetteranno una maggiore copertura dei diversi ruoli. Un ulteriore tema che avevamo approfondito con Task Force Italia era quello degli investimenti sulla ricerca, su cui è necessario continuare a spingere, anche perché l’Italia ha moltissime eccellenze. Il nostro Paese è molto ben inserito nei meccanismi di ottenimento dei fondi europei dedicati, ma a volte ci sono difficoltà regolatorie in Europa che rischiano di favorire la concorrenza di Stati Uniti e Cina. Ma questa è una partita che l’Europa non può perdere, perché la ricerca è strategica, come ha sottolineato anche Mario Draghi.

Nell’abstract del suo intervento all’edizione di aprile di Sanità Digitale lei scriveva che è fondamentale mantenere i principi di universalità, uguaglianza ed equità nella sanità: in che modo il digitale può aiutare, evitando che si configuri una sanità accessibile a pochi?

Può farlo in vari modi, uno di questi è rappresentato dal cosiddetto modello di gestione hub e spoke (si tratta di un modello applicabile in determinate patologie e/o situazioni molto complesse, quando è necessario disporre di competenze specialistiche rare e/o di apparecchiature molto costose, che non possono essere assicurate in modo diffuso su tutto il territorio. Il modello prevede che l’assistenza per tali situazioni venga fornita da centri di eccellenza regionali o di macro area, detti appunto hub, a cui afferiscono dai centri periferici, detti spoke, ndr). Quindi se si riesce a fare in modo che gli ospedali più piccoli possano riferirsi ad ospedali più specializzati quando hanno bisogno di consulenza interna, se si riesce a far arrivare loro il know-how degli ospedali più importanti, sicuramente si può alzare il livello e offrire lo stesso tipo di servizio sanitario. Questo è importante anche quando si parla di appropriatezza prescrittiva: nel momento in cui il paziente viene preso in carico da un medico soltanto, si possono risparmiare risorse che verrebbero altrimenti impiegate nello sballottamento del paziente da un ospedale all’altro, senza magari essere adeguatamente informato. Infatti, un altro argomento importante per mantenere vivi i principi della sanità è la comunicazione, e in questo senso il digitale può contribuire molto, diffondendo, per esempio, informazioni relative ai corretti stili di vita, ai giusti controlli che devono essere eseguiti, ma anche alle nuove piattaforme che possono dare aiuto. In quest’ultimo caso penso soprattutto alle donne che, magari per paura di uno stigma sociale, non approfondiscono alcune patologie. In generale quindi penso che il digitale possa offrire un’opportunità di accesso ai servizi sanitari più uniforme e distribuito sul territorio e che ci siano delle grandi opportunità in questi ambiti.

Prima ha accennato all’importanza della ricerca scientifica… che ruolo può avere il digitale nell’implementazione di nuovi modelli di ricerca?

C’è un grande potenziale legato alla medicina di precisione, quindi al trovare tutti quegli algoritmi che consentono di identificare per il singolo paziente il trattamento più opportuno. Ovviamente i dati devono provenire dalla singola struttura, ma questi algoritmi devono essere allenati poi con un quantitativo di dati provenienti da strutture distribuite anche a livello internazionale, per non avere dei bias. E devono poi essere validati clinicamente, come fossero un farmaco. E proprio in fase di validazione e nella fase clinica c’è un grandissimo potenziale, perché è possibile scegliere in modo adeguato il paziente a cui sottoporre le nuove terapie o i nuovi farmaci. In questo il digitale e soprattutto l’intelligenza artificiale possono giocare un ruolo fondamentale, evitando di sprecare tempo e risorse e contribuendo a creare una medicina sempre più personalizzata. C’è poi un altro aspetto, ancora molto discusso, legato al digitale nella ricerca, ovvero quello dei dati sintetici, cioè dati che partono da quelli reali, ma sono anonimizzati, in modo da non essere ricondotti alla persona. Questi dati sono molto più semplici da gestire perché non necessitano di consenso e permettono di portare avanti le sperimentazioni più velocemente. Il problema che ci si pone è la significatività di questi dati, perché a furia di anonimizzarli il rischio è che non mantengano più tutta la storia del paziente e quindi non lo riproducano più realmente. Inoltre, chiaramente l’uomo deve rimanere al centro del processo e deve sempre sapere esattamente che cosa sta facendo.

Basandosi anche sulla sua esperienza nel campo della sanità, c’è qualche esempio di buona pratica legata all’applicazione del digitale che può raccontarmi?

Come gruppo San Donato abbiamo sviluppato Connected Care, la piattaforma digitale cui accennavo prima, che consente ai pazienti di prenotare visite, scaricare referti, effettuare visite in telemedicina e così via. È anche possibile utilizzare una soluzione di symptom checker che consente ai pazienti di essere supportati nell’analizzare i sintomi che presentano e, eventualmente, essere consigliati sul professionista di cui potrebbero aver bisogno. Sono a disposizione tutta una serie di strumenti che aiutano il personale, come i software di radiologia che supportano la decisione dei clinici nel momento in cui refertano le immagini radiologiche o i robot chirurghi che aiutano il medico segnalando, per esempio, quando compie un errore o esce dallo standard, portandolo quindi a riflettere sulla correttezza del percorso seguito. Abbiamo poi digitalizzato tutta l’anatomia patologica, trasformando quelle che fino a qualche anno fa erano immagini su un vetrino in immagini su uno schermo, con numerosi vantaggi: primo fra tutti la possibilità di recuperare immagini degli anni precedenti, potendo così compararle e valutare nel tempo l’andamento della malattia. Inoltre, in questo modo il sistema può anche mettere in evidenza agli occhi dei medici i casi più gravi che necessitano di priorità di cura.

Che altro?

Ci sono tutta una serie di soluzioni che lavorano sulla comunicazione con i pazienti, come i chatbot o strumenti che permettono di identificare nella mole di documenti che riceviamo ogni giorno i casi più critici da affrontare. O ancora gli strumenti che consentono di analizzare in tempo reale tutto quello che succede all’interno della struttura sanitaria, consentendo anche a più persone l’accesso simultaneo ad alcuni dati. Si tratta di un processo fondamentale se si pensa, per esempio, al percorso di sala operatoria: in questo caso noi diamo la possibilità agli operatori coinvolti, ma anche ai parenti del paziente, di conoscere l’andamento dell’operazione in corso. L’accesso in tempo reale ad alcune informazioni è un esempio di come il digitale possa agevolare enormemente la comunicazione all’interno di un’organizzazione sanitaria, ma ce ne sono molti altri, che vanno dalle attività di pronto soccorso al monitoraggio delle code che magari si creano in una determinata parte della struttura ad una certa ora, fino a cruscotti che comunicano che cosa sta accadendo nei differenti settori della struttura.

Lei lavora anche nel settore delle case di cura… tutto quello di cui abbiamo parlato fino ad ora si può applicare anche in quel contesto, dove ci sono pazienti anziani che hanno meno dimestichezza con i nuovi strumenti?

Anche in questo campo c’è una transizione in corso, ma dobbiamo considerare che spesso questi strumenti digitali sono utilizzati a qualsiasi età. Poi ci sono le persone che si fanno supportare magari dal caregiver o dal parente ma comunque li utilizzano. Naturalmente, noi ci poniamo sempre la questione della dimestichezza e cerchiamo di trovare anche altri modi di effettuare alcune azioni che possano venire incontro a persone che non hanno familiarità con alcune tematiche. Ma comunque bisogna tenere bene a mente che non sempre quello che noi pensiamo è quello che succede in realtà e che, dunque, anche se sembra che una persona non sappia usare gli strumenti digitali non è detto che questa percezione corrisponda alla realtà. In tal senso è importante misurare l’esperienza del paziente e quindi capire che cosa effettivamente succede.

Lei è una delle poche manager donne nel settore della sanità… si sta lavorando per colmare questo divario oppure la sensazione è che sia tutto fermo?

Sono una delle socie fondatrici di un’associazione che si chiama Donne leader in sanità. L’obiettivo che ci siamo prefissate quando, quattro anni fa, abbiamo lanciato questa iniziativa è quello di promuovere la leadership femminile nei tre principali settori della sanità: ospedali, dispositivi medici e farmaceutica. Facciamo questo tramite un osservatorio che ogni anno misura il numero di donne leader in proporzione al numero di donne attive in ciascuno dei tre ambiti. L’indice che abbiamo messo a punto ci dice che se, per esempio, ci sono il 70% di donne attive negli ospedali, allora i casi sono due: o questa percentuale si riferisce interamente a donne leader, oppure l’indice è negativo. Quindi quello che purtroppo abbiamo evidenziato in questi quattro anni è che gli scostamenti sono molto bassi: c’è un sostanziale equilibrio nell’area farmaceutica, un basso disequilibrio nell’area dei dispostivi medici, mentre gli ospedali sono un disastro. Gli altri ambiti su cui lavoriamo sono i programmi di mentorship e la divulgazione di esempi di donne che nel settore sanitario hanno avuto successo, in modo da incoraggiare l’empowerment femminile. In tal senso abbiamo anche previsto un premio annuale che assegniamo alle organizzazioni che hanno puntato sulla valorizzazione della leadership femminile al loro interno. È importante tener presente che oggi tutti danno per scontato che la transizione in questo senso sia inevitabile, anche perché negli ospedali ci sono più donne che uomini, sia come medici che come infermieri. Ma purtroppo notiamo che è ancora necessario parlare di questi argomenti, sensibilizzare, far misurare cosa succede all’interno della propria organizzazione, perché altrimenti questa transizione sarà molto lunga. Per fare un esempio, anche a livello di presidenza delle società scientifiche le donne sono pochissime. Quindi con l’associazione facciamo un lavoro continuo e costante, sia a livello generale sia a livello delle singole organizzazioni.


Giulia Galliano Sacchetto
Giornalista professionista, con alle spalle esperienze in diversi campi, dalla carta stampata al web. Mi piace scrivere di tutto perché credo che le parole siano un’inesauribile fonte di magia.

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