Tra indifferenza e coraggio: cittadini e Pa alla prova del cambiamento climatico

“Discutere su chi inquina di più è come litigare su un aereo che sta precipitando”: parola del climatologo Luca Mercalli, che sollecita i singoli individui e le pubbliche amministrazioni a prendere decisioni, anche difficili, per affrontare la crisi
26 Luglio 2024 |
Giulia Galliano Sacchetto

Il cambiamento climatico è un fenomeno che tocca tutti da vicino, ma troppi ancora fingono di non vederlo, siano essi singoli cittadini o pubbliche amministrazioni. Proprio le Pa avrebbero gli strumenti per imporre un deciso cambio di rotta. Ma la burocrazia molto spesso frena anche le menti più innovative. Eppure “una buona legge cambia il mondo più di mille conferenze”: ne è convinto Luca Mercalli, climatologo, divulgatore scientifico, docente universitario, direttore della rivista Nimbus e presidente della Società Meteorologica Italiana, che, in questa intervista a Innovazione Pa, spiega come cittadini e pubbliche amministrazioni potrebbero e dovrebbero agire per evitare che la crisi si avviti su se stessa.

Chi deve fare il primo passo nella lotta al cambiamento climatico: i cittadini o le amministrazioni pubbliche? E quali sono le azioni che ciascuno di essi può mettere in atto?

É un processo che deve correre in parallelo, perché i singoli possono tanto, ma le Pa possono rendere più efficaci le loro azioni. Certamente la Pa ha delle responsabilità in più, ma è composta anch’essa da cittadini, per cui non dovrebbe essere difficile riflettere sulle azioni sostenibili che si fanno a casa e riportarle poi sul posto di lavoro. Sarebbe una bella scuola interrogarsi ogni giorno sulle difficoltà che abbiamo nello svolgere gesti sostenibili in casa nostra cercando soluzioni. Ma questo è un processo che purtroppo, spesso, manca. Io stesso sono abbastanza critico nei confronti della Pa italiana perché la sento, e come me tanti altri cittadini, lontana, distaccata, poco attenta ai bisogni della cittadinanza. Un atteggiamento che si riscontra anche quando i cittadini sono disponibili ad intraprendere comportamenti virtuosi e che credo sia dovuto, in parte, al comportamento che altri cittadini tengono nei confronti della Pa, approcciandola con pretese illogiche o peggio con l’intenzione di truffarla. Questo tipo di comportamenti fa sì che la Pa sia mal disposta anche verso le persone oneste. Quindi io credo che la Pa non si debba rinchiudere a guscio nel suo ruolo ma debba rispondere alla volontà dei cittadini di impegnarsi. Può essere qualcosa che parte da un piccolo Comune e poi magari arriva fino al Ministero e dunque ad una legge, che è un passo fondamentale. Io dico sempre che una buona legge cambia il mondo più di mille conferenze, perché è rapida e incisiva.

Che tipo di sensibilità proviene dalle persone che le scrivono in merito a questi argomenti?

Non sono tante e ciò denota una predominanza dell’indifferenza, della deresponsabilizzazione, del “tanto ci penserà qualcuna altro, non è compito mio”. A livello di età c’è un po’ di tutto: oggi i giovani sono più interessati e attenti ma sono un po’ privi di strumenti pratici; mentre sono gli adulti che vogliono fare le cose concrete, per esempio rendere la casa più sostenibile. Ma un altro dato che emerge è lo sconforto di tante persone che si sono rivolte alla Pa per iniziative lodevoli ma non sono stati incoraggiate, anzi. La maggior parte di chi mi scrive non ha nemmeno ricevuto risposta alle mail inviate all’amministrazione pubblica. Questo atteggiamento a mio parere è molto grave, soprattutto quando si parla di edilizia, perché rallenta enormemente i processi. Il classico esempio è quello del cittadino che vorrebbe mettere i pannelli solari sul tetto di casa, ma, anziché trovare un ufficio tecnico che si complimenta per la scelta e lo sostiene, magari trova un tecnico che gli butta giù il telefono per andarsi a prendere il caffè. Il risultato è che molte volte le persone lasciano perdere, rinunciano per evitare di complicarsi troppo la vita. Eppure è proprio sui processi legati alla casa e al territorio che la Pa avrebbe veramente il potere di accelerare il cambiamento. Ci sono certamente altri settori problematici come i trasporti, dove ci devono essere delle alternative efficaci rispetto all’auto privata, o il cibo, che però è un ambito molto più personale. Un altro settore interessante è quello dei rifiuti: in questo senso, ci sono tante Pa che si adoperano efficacemente per la raccolta differenziata, salvo poi essere sopraffatte dai luoghi comuni, come il classico “tanto poi buttano tutto insieme”. E questa volta a tarpare le ali sono i singoli cittadini, che non si informano e nascondono magari la loro pigrizia dietro queste scuse. Perché poi basta andare a fare un giro in qualsiasi impianto di trattamento dei rifiuti per capire che vengono davvero separati.

Nella sua esperienza ha riscontrato differenze tra l’approccio italiano e quello di altri paesi a queste tematiche?

Io ho vissuto e studiato in Francia, che è un Paese molto simile all’Italia ed è un buon esempio. Certamente il modello ideale sarebbe la Scandinavia ma si tratta di un Paese lontano, con una cultura diversa dalla nostra. Invece, la Francia si avvicina molto di più alla situazione italiana. Anche lì c’è molta burocrazia e ci sono diversi vincoli, ma in generale i cittadini hanno maggiore rispetto nei confronti dell’autorità pubblica. Un rispetto che viene guadagnato, perché gli stessi funzionari pubblici sono più vicini ai cittadini e rispondono più efficacemente e velocemente ai loro dubbi o alle loro richieste. C’è, insomma, un rapporto paritario, mentre in Italia c’è maggiore diffidenza. Poi, credo che sia anche importante distinguere un politico pro tempore, come un sindaco, dai funzionari. Infatti, mi è capitato di incontrare Comuni apertissimi dal punto di vista dei sindaci, che però non erano assecondati dai funzionari, e quindi facevano fatica a rapportarsi con i cittadini perché l’ufficio tecnico, per esempio, non era in sintonia con le visioni della politica. Ma ho visto situazioni anche opposte, dove funzionari all’avanguardia lottavano contro una politica che voleva tarpare loro le ali. Queste sono dinamiche che vanno superate, perché credo che oggi più di tutto contino gli obiettivi. E, in questo senso, il punto di riferimento è la Germania. Perché lì quando si è deciso, per esempio, che si deve andare verso le energie rinnovabili questo diventa un obiettivo civile, per tutti, non c’è lotta, non c’è antagonismo, non c’è il cittadino contro l’amministrazione. È un obiettivo del Paese e tutti devono fare la loro parte per raggiungerlo. Ecco, se noi avessimo degli obiettivi sentiti così da tutti automaticamente il pubblico amministratore si avvicinerebbe al cittadino perché diventerebbero complici nel senso buono del termine, con un obiettivo comune da raggiungere.

Ritiene che il mondo scientifico e della divulgazione stia facendo abbastanza per far comprendere la gravità del cambiamento climatico in atto?

Sì potrebbe senz’altro fare di più, ma qui il problema riguarda l’informazione più che la fonte. Perché i singoli ricercatori sarebbero in grado di fare di più, ma devono avere gli spazi per farlo; se la tv e la carta stampata non permettono alle questioni legate al cambiamento climatico di emergere “in prima serata” è ovvio che poi le buone intenzioni dei singoli ricercatori vengono vanificate.

Come risponde a quei soggetti che non fanno nulla per la transizione adducendo come scusa che tanto ci sono la Cina e l’India che continuano ad inquinare?

Innanzitutto rispondo che viviamo su un unico pianeta e fare queste distinzioni ormai ha poco significato. È un po’ come litigare su un aereo che sta precipitando. Poi ci sono i trattati internazionali che tengono già conto di queste differenze e, ovviamente, i paesi ricchi occidentali  hanno il compito di fare per primi questo passo. Primo perché hanno la pancia piena, secondo perché hanno inquinato nei duecento anni precedenti. È troppo comodo dare la colpa alla Cina che inquina da vent’anni quando l’Inghilterra duecento anni fa ha cominciato ad usare la macchina a vapore e il carbone. Per cui questa mi sembra un scusa banale da utilizzare oggi. Dobbiamo aiutarci tutti insieme, ognuno in base alle proprie possibilità, per fare questa transizione ecologica che deve affermarsi in tutto il mondo. Per portarla su una visione italiana è un po’ come se io non volessi pagare le tasse perché tanto in Italia la maggior parte della gente non le paga.

Le città hanno un ruolo importante nell’inquinamento quindi anche nel riscaldamento globale e sono oggetto da qualche tempo di tentativi di decarbonizzazione… secondo lei si sta andando nella direzione giusta?

Le città sono responsabili semplicemente perché lì si concentrano tante persone e tanti processi produttivi. Ma non è neanche così corretto dire che la colpa è delle città, la colpa è dello stile di vita di ogni individuo. Le città sono solo un’aggregazione di questi individui e hanno quindi dei numeri più grandi. Ma le città se vogliono possono essere più efficienti delle zone extra urbane. Ad esempio dal punto di vista dei trasporti in una città milioni di persone si possono muovere con una metropolitana, mentre in un territorio extraurbano tutti devono prendere la propria auto. Ma sono di meno, per cui, apparentemente una città consuma di più rispetto ad una provincia poco popolata. Comunque, anche qui l’obiettivo comune è quello di diminuire gli sprechi e le inefficienze. E bisogna tenere in conto che non tutto quello che si può fare in città può essere fatto fuori e viceversa: in città, magari, non si può fare l’orto ma ci si può spostare con i mezzi, in campagna si può evitare di consegnare l’umido della raccolta differenziata perché può essere usato come compost per il giardino o l’orto. Dunque, ognuno ha le proprie peculiarità, l’importante è, nuovamente, avere chiaro l’obiettivo, cioè tagliare gli sprechi e le inefficienze dove è più facile farlo, a seconda dei contesti. É chiaro che sarebbe assurdo proporre di fare il compost sui balconi cittadini, sarebbe una scelta impopolare: in quel caso è bene che ci sia il camioncino che raccoglie, ad esempio, le bucce delle mele e le porta nell’impianto di compostaggio che realizza il compost industriale. Ma se uno abita in campagna non ha senso far venire un camioncino a gasolio per raccogliere le bucce delle patate: le si mette nel giardino e fanno da concime per i fiori.

Che spazio di manovra ha la Pa in quest’ambito?

Molto ampio, perché basta un provvedimento ben fatto e queste dinamiche si risolvono. A mio parere, infatti, dovrebbe essere obbligatorio che chiunque abbia una casa con il giardino si debba gestire la parte dell’umido in proprio, utilizzando gli scarti alimentari come concime. Invece, si continua con questa ambiguità della scelta facoltativa per non scontentare nessuno, però bisognerebbe comprendere che è impossibile accontentare sempre tutti. Ci sarà sempre quello scontento, in disaccordo con la scelta fatta. Dove abito io, ad esempio, tutti abbiamo la casa con l’orto e il giardino. Ce n’è sempre uno che non è d’accordo con questa idea della gestione in proprio dell’umido e mette il bidone fuori. Per cui il camioncino, di fatto, passa solo per raccogliere la sua parte di umido, perché noialtri siamo tutti autonomi. Per mettere d’accordo anche quella persona la Pa, che sia il Comune o lo Stato, avrebbe molte possibilità. Ma ci deve essere sia la volontà che la forza giuridica per, ad esempio, obbligarlo tramite una legge o imporgli tasse dei rifiuti più alte. Mentre, con questa situazione, rimaniamo tutti frustrati, perché non si risolve nulla e il camioncino passa per raccogliere le bucce di mela di una persona sola, consumando comunque gasolio. Poi spesso gli amministratori mi dicono anche che hanno le mani legati su queste tematiche perché magari c’è qualche vincolo burocratico o giuridico. Per cui, mi metto anche nei loro panni, perché siamo in una Paese con tali complessità giuridiche e burocratiche  che spesso anche chi ha buona volontà nel pubblico alla fine alza bandiera bianca.

Nel suo libro Prepariamoci, lei spiega, tra l’altro, ai lettori come cambiare stile di vita e inquinare  meno… ha avuto la sensazione che questo libro abbia aiutato tante persone a cambiare nel concrete le loro abitudini?

Sì, credo che una parte di persone si siano riconosciute e abbiano agito, ma torniamo nuovamente al tema dei numeri. Stiamo parlando di una nicchia, purtroppo questi non sono argomenti che risvegliano l’entusiasmo popolare. Anzi, ahimè, è più vero il contrario. E le teorie sociali di “coinvolgimento ecologico” sostengono che la Pa dovrebbe coltivare queste minoranze e incoraggiarle, in modo che la loro spinta al cambiamento si diffonda anche al resto della popolazione.

Si parla spesso di compensazione delle emissioni tramite piantumazione di alberi… una pratica molto diffusa sia tra le aziende che in alcune amministrazioni pubbliche: secondo lei è sufficiente o sono interventi più di facciata?

Gli alberi sono utili per mille motivi, tra i quali anche la cattura di CO2, ma possono offrire soltanto un contributo parziale: attualmente le foreste globali assorbono poco meno del 30 per cento delle nostre emissioni, anche aumentandone l’estensione (invece deforestiamo…), non potranno comunque annullare gli oltre 50 miliardi di tonnellate di gas serra che buttiamo in atmosfera ogni anno.

Secondo lei l’attuale modello economico basato sulla crescita è compatibile con la lotta al cambiamento climatico o bisognerebbe modificarlo?

Fin dal 1972, anno della pubblicazione del rapporto del Club di Roma “I limiti alla crescita” sappiamo con precisione che la crescita infinita in un mondo finito non è possibile e continuando così saremo destinati a scontrarci con i limiti fisici del pianeta. Una verità continuamente rimossa e negata che impedisce di considerare e sviluppare modelli economici alternativi. Tempo prezioso che sprechiamo nascondendo il problema invece di affrontarlo razionalmente.

La Società Meteorologica Italiana

La Società Meteorologica Italiana è un’associazione scientifica senza fini di lucro che accoglie circa 1500 persone, tra professionisti, studiosi, amatori e utilizzatori della meteorologia. É la maggiore associazione italiana nel settore, fa parte di UniMet (Unione Meteorologia Italiana) e della European Meteorological Society: opera su tutto il territorio nazionale, conservando uno stretto legame con la Società Meteorologica Subalpina, suo socio fondatore nel territorio alpino occidentale, Francia e Svizzera incluse. L’associazione promuove ed incoraggia lo sviluppo e la conoscenza delle scienze dell’atmosfera in Italia, adoperandosi per diffondere e rendere sempre più popolare l’utilità degli studi di meteorologia, sottolineando le relazioni che intercorrono tra questa e diversi altri settori, come il clima delle montagne italiane, l’igiene, l’agricoltura, l’industria e, più in generale, l’economia pubblica. Le attività dell’associazione si propongono, dunque, come punto di riferimento e di aggregazione in grado di riunire, almeno idealmente, la meteorologia italiana.

La Società Società Meteorologica Italiana affonda le sue radici molto indietro nel tempo. Infatti, già nel 1865 il meteorologo Francesco Denza concepì, presso l’Osservatorio di Moncalieri vicino  a Torino, il primo nucleo associativo denominato “Corrispondenza meteorologica Alpino-Appennina”, che si esprimeva attraverso la pubblicazione del “Bullettino Mensuale”. E, dopo circa 15 anni, attorno a questo primo nucleo si riunisce gran parte del mondo meteorologico italiano. Vengono fondati oltre 200 osservatori meteorologici collocati in particolare nelle zone montane, e iniziano a costituirsi intense relazioni scientifiche internazionali. Nel 1880 il sodalizio si trasforma nell’Associazione Meteorologica Italiana”, che, per anni, svolge un ruolo di guida nel panorama meteorologico italiano. Ma con la scomparsa del fondatore Denza nel 1894 , comincia per l’associazione un lento declino, che la porta ad estinguersi definitivamente nel 1943 con la Seconda Guerra Mondiale. 

50 anni dopo, nel 1993, a Torino, un gruppo di studiosi e amatori, ispirato dagli scritti di Denza fonda la Società Meteorologica Subalpina, associazione senza fini di lucro per lo sviluppo e la diffusione della conoscenza meteorologica, climatologica e glaciologica delle Alpi occidentali. Obiettivi che vengono perseguiti principalmente con la pubblicazione dalla rivista Nimbus, ideale continuazione dell’antico “Bullettino” di Denza. Nel corso degli anni l’associazione diventa un punto di aggregazione dell’informazione meteorologica italiana, altrimenti frammentata in una molteplicità di attori indipendenti. E così la Socitetà si allarga fino all’Appennino settentrionale e alla Lombardia. Per favorire ulteriormente quest’opera di aggregazione, nel 2000 viene rifondata la Società Meteorologica Italiana, della quale fa parte anche la Società Meteorologica Subalpina in qualità di socio fondatore e la rivista Nimbus diventa organo ufficiale dell’associazione.

I cambiamenti climatici tra ansia, elezioni e informazione

Dal 1998, e con continuità tra il 2012 e il 2023, l’Istat monitora la percezione dei cittadini riguardo le tematiche ambientali nell’ambito dell’indagine “Aspetti della vita quotidiana”: nel 2023 i cambiamenti climatici si sono confermati come la principale preoccupazione ambientale degli italiani, con il 58,8% delle persone di 14 anni e più che esprimono preoccupazione, in aumento di 2,2 punti percentuali rispetto al 2022. A questo proposito, uno studio dell’Università di Pavia, in collaborazione con ScuolAttiva Onlus, ha rivelato che i giovanissimi soffrono di disagio psicologico legato alle minacce ambientali e al cambiamento climatico. Il 95% dei bambini intervistati si dichiara, infatti, preoccupato per il futuro dell’ambiente e più di uno su 3 (pari al 40%) riferisce di aver fatto un brutto sogno sul cambiamento climatico e di aver fatto fatica a dormire o mangiare a causa di questo pensiero. Il 97,2% pensa che il proprio contributo faccia la differenza, mentre il 72% dice di riporre fiducia negli adulti e pur volendo contribuire attivamente alla salute del pianeta. 

In India, durante le votazione per le ultime elezioni, sono morte 77 persone a causa del caldo estremo che soffoca il paese, considerato dall’Ipcc, come uno tra i più affetti dalla crisi climatica in futuro. Ma questo è solo l’ultimo caso di una lunga serie, in cui le conseguenze del cambiamento climatico fanno sentire i loro effetti anche sulla democrazia. Ad Alberta, in Canada, nel 2023 la campagna elettorale è stata sospesa per un centinaio di incendi. Già nel 2021 nella British Columbia i media spiegavano come votare ai residenti evacuati per gli incendi boschivi fuori controllo, a quanti avevano perso i documenti tra le fiamme, a chi poteva raggiungere un parente in una zona sicura. Oltreoceano, si pensa al rafforzamento della sicurezza della rete digitale per esprimere preferenze a distanza. Lo ha fatto l’Australia, che nel 2022 ha dovuto far ricorso al voto telefonico. Nello stesso anno in Florida l’uragano Ian, sei settimane prima delle elezioni, aveva distrutto il 12% delle infrastrutture del voto. Secondo il rapporto annuale della Ndma (Autorità per il controllo disastri nazionale), un terzo del territorio del Pakistan è stato inondato nel 2022 prima delle elezioni nazionali: un evento che ha provocato quasi 15 miliardi di dollari di danni e otto milioni di evacuati all’alba delle urne. In generale, dal 2019 al 2024, più di dieci Paesi hanno affrontato catastrofi naturali durante le elezioni, sia locali che nazionali: in Mozambico nel 2019, i cicloni, insieme alle case di decine di migliaia di persone, hanno distrutto anche i centri di registrazione.

Ma di questi argomenti, a volte, è complicato anche solo parlarne. Il sondaggio internazionale di Ejn, Earth Journalism Network, e dell’università Deakin ha rivelato che chi si occupa di clima e ambiente rischia: quattro giornalisti su dieci, infatti, vengono minacciati per le loro indagini, l’11% dei rispondenti, 740 reporter di 102 Paesi, per il lavoro svolto ha subito violenze fisiche da criminali. E poi ci sono le aziende e i governi, che li denunciano e li portano in tribunale o comunque li minacciano di conseguenze legali. Non a caso, il 39% dei giornalisti ha ammesso di ricorrere all’autocensura per paura di ripercussioni.

Vulnerabilità del territorio e cambiamento climatico in Italia

Il cambiamento climatico porta con sé tutta una serie di conseguenze che possono avere un impatto più o meno forte sui territori, a seconda delle loro caratteristiche. Dal 2013 l’Italia ha subito 37 miliardi di dollari di danni da cambiamento climatico: un dato contenuto nel rapporto del riassicuratore Swiss Re che elabora le conclusioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) e stila una classifica di 36 Paesi, individuando i più vulnerabili. L’Italia in questa classifica si posiziona 17esima. Quello della vulnerabilità è dunque un argomento centrale, anche per la pianificazione delle politiche del futuro. Nel 2022, il Disaster Risk Management Knowledge Centre (DRMKC) del Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea ha pubblicato uno studio con l’obiettivo di portare all’attenzione la vulnerabilità ai disastri naturali dei paesi europei, indagando le possibili evoluzioni. Ebbene, dallo studio è emerso che l’Italia è uno dei paesi europei maggiormente vulnerabili alle catastrofi naturali, insieme a Bulgaria, Romania e Grecia. In prospettiva la situazione negli altri tre paesi appare in lento miglioramento, ma in Italia sembra destinata a rimanere stabile. Questi quattro paesi sono pertanto classificati ad “alta vulnerabilità, stabile nel tempo”: mantengono, cioè, un’elevata vulnerabilità per tutto il periodo coperto dallo studio,  vale a dire dal 2005 al 2035. L’Italia detiene purtroppo altri due primati: la regione più fragile del continente è la Calabria e la provincia più fragile è Reggio Calabria.

La vulnerabilità è una delle tre componenti di rischio considerate nel DRM (Disaster Risk Management) insieme ai pericoli e all’esposizione agli stessi pericoli. La stima del rischio consiste essenzialmente nel valutare i possibili impatti di determinati pericoli naturali (terremoti, erosione del suolo, inondazioni, siccità…) sui beni esposti a tali pericoli e ponderare la vulnerabilità di tali asset. Dunque, non tutti i beni, i sistemi o le comunità con lo stesso livello di esposizione a un pericolo specifico sono ugualmente a rischio: la vulnerabilità, perciò, è fondamentale per determinare il livello di rischio. Asset molto esposti possono avere una vulnerabilità molto bassa, quindi essere considerati a basso rischio: ad esempio, in una zona sismica un edificio tradizionale è più vulnerabile di uno costruito con criteri antisismici.

Nel 2022 la regione europea più vulnerabile in assoluto era la Calabria, seguita dalla Ciudad de Melilla, città autonoma spagnola situata sulla costa orientale del Marocco, e da Campania e Sicilia. Il Friuli-Venezia Giulia era la regione italiana meno vulnerabile, seguita a ruota da Liguria e Provincia di Trento. Ma il confronto con il resto d’Europa è abbastanza disarmante: infatti, per trovare il primo nome italiano bisogna scorrere qualche centinaio di posizioni. Nella classifica delle province, il poco invidiabile primato è di Reggio Calabria e dei primi 30 nomi più della metà sono di altre province italiane, prevalentemente del Mezzogiorno, ma non solo: ci sono anche Latina, Frosinone, Fermo, Pesaro-Urbino, Pescara, solo per citarne alcune.

Un altro aspetto rilevante che emerge dai dati su base provinciale è che le aree più vulnerabili pagano soprattutto la fragilità economica e ambientale: in Calabria, ad esempio, 4 province su 5 segnano il massimo di vulnerabilità ambientale, mentre l’indicatore di vulnerabilità sociale vede livelli molto bassi in tante province del Sud, della Sicilia e della Sardegna. Il record negativo spetta, però, a Prato, ma appena sotto ci sono Milano e Monza-Brianza e poi Trieste, Roma e Genova.

 


Giulia Galliano Sacchetto
Giornalista professionista, con alle spalle esperienze in diversi campi, dalla carta stampata al web. Mi piace scrivere di tutto perché credo che le parole siano un’inesauribile fonte di magia.

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